Sentenza n. 284 del 2012

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SENTENZA N. 284

ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Franco                         GALLO                                            Presidente

-           Luigi                            MAZZELLA                                     Giudice

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             "

-           Sabino                         CASSESE                                                "

-           Giuseppe                     TESAURO                                               "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          "

-           Paolo                           GROSSI                                                   "

-           Giorgio                        LATTANZI                                              "

-           Aldo                            CAROSI                                                   "

-           Marta                           CARTABIA                                             "

-           Sergio                          MATTARELLA                                       "

-           Mario Rosario              MORELLI                                                "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 27 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, promosso dalla Regione Veneto, con ricorso notificato il 21 febbraio 2012, depositato in cancelleria il 23 febbraio 2012 ed iscritto al n. 29 del registro ricorsi 2012.

         Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi;

         uditi gli avvocati Luca Antonini, Bruno Barel, Andrea Manzi e Daniela Palumbo per la Regione Veneto.

Ritenuto in fatto

1. — Con ricorso notificato il 21 febbraio 2012, la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e, tra queste, dell’art. 27, per violazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione.

Osserva la Regione ricorrente che la norma censurata detta una nuova disciplina in tema di valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, la quale risulterebbe lesiva della autonomia regionale. Si sottolinea, in particolare, che il comma 1 del citato articolo ha inserito un nuovo articolo (il 33-bis) nel decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sotto la rubrica “Strumenti sussidiari per la gestione degli immobili pubblici”. La nuova disposizione prevede, al comma 1, che l’Agenzia del demanio promuova la costituzione di società, consorzi o fondi immobiliari per la valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, senza nuovi oneri per la finanza pubblica. Al comma 2 stabilisce che l’avvio della verifica di fattibilità di tali iniziative è promosso dalla Agenzia del demanio. Al comma 3  aggiunge, poi, che, ove le anzidette iniziative prevedano la forma societaria, ad esse «partecipano i soggetti apportanti e il Ministero dell’economia e delle finanze - Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni di proprietà dello Stato in qualità di finanziatore e di struttura tecnica di supporto. L’Agenzia del demanio individua, attraverso procedure di evidenza pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti» e – puntualizza ancora la disposizione in esame – «la stessa Agenzia, per lo svolgimento delle attività relative alla attuazione del presente articolo, può avvalersi di soggetti specializzati nel settore, individuati tramite procedure ad evidenza pubblica o di altri soggetti pubblici».

Secondo la Regione ricorrente, la disposizione all’esame attribuirebbe all’Agenzia del demanio un ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio pubblico anche di proprietà delle Regioni e degli altri enti territoriali, sia attraverso la costituzione di società, consorzi o fondi immobiliari, sia attraverso la selezione dei privati partecipanti e dei soggetti specializzati dei quali avvalersi. Il riferimento anche ai beni demaniali, in larga parte trasferiti alle Regioni dal decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42) nell’ambito del cosiddetto “federalismo demaniale”, mostrerebbe l’intendimento di devolvere nuovamente allo Stato un ruolo primario nella valorizzazione, gestione e alienazione degli immobili pubblici, anche regionali. La circostanza, poi, che le operazioni debbano essere compiute senza oneri per la finanza pubblica e che l’Agenzia del demanio partecipi alle iniziative societarie anche quando non sono interessati immobili dello Stato, lascerebbe trasparire l’intendimento dello Stato di gestire il processo di valorizzazione anche degli immobili pubblici regionali attraverso risorse finanziarie messe a disposizione dalle stesse Regioni o dagli altri enti territoriali.

Le richiamate disposizioni si porrebbero, dunque, in contrasto con gli artt. 118 e 119 della Costituzione, «ove si prevede che le Regioni abbiano un proprio patrimonio e che quindi possano gestirne, nella loro autonomia amministrativa organizzativa e finanziaria, la valorizzazione».

Il comma 7 del nuovo art. 33-bis citato introduce, a sua volta, disposizioni sostitutive dei commi 1 e 2 dell’art. 58 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la compatibilità, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. I predetti due commi disciplinano la procedura di dismissione del patrimonio immobiliare di Regioni, Comuni e altri enti locali, prevedendo la redazione di un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, con l’effetto di classificare i beni inclusi nell’elenco come patrimonio disponibile, e stabiliscono, altresì, l’assegnazione ai beni in dismissione delle rispettive destinazioni d’uso urbanistiche, con la deliberazione di approvazione da parte del consiglio comunale. L’originario comma 2 del medesimo art. 58 – rammenta la Regione – fu dichiarato in parte costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 340 del 2009, secondo la quale, «avuto riguardo all’effetto di variante allo strumento urbanistico generale, attribuito alla delibera che approva il  piano di alienazione e valorizzazione», detta disposizione finiva per riguardare, con carattere prevalente, la materia del “governo del territorio”, per la quale lo Stato ha soltanto il potere di fissare i princìpi generali, spettando alle Regioni di emanare la normativa di dettaglio. Ebbene – deduce la Regione ricorrente – anche il testo del comma 2 dell’art. 58 novellato non si sottrarrebbe allo stesso vizio di costituzionalità, in violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, giacché solo in apparenza sarebbe riservata alle Regioni la disciplina delle varianti urbanistiche necessarie per assegnare le destinazioni d’uso degli immobili pubblici in dismissione: la disposizione censurata, infatti, per un verso assegnerebbe alle Regioni un termine assai breve entro il quale esercitare la potestà legislativa concorrente, per altro verso ne delineerebbe anche il contenuto in dettaglio. Essendo quindi certa la inosservanza di un termine così breve per l’esercizio della competenza regionale, la disposizione rispetterebbe solo all’apparenza l’autonomia regionale, per di più dettando una disciplina mal coordinata: l’art. 25, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), infatti, che si applicherebbe in caso di inosservanza del termine di legge per l’esercizio delle attribuzioni regionali, non si riferirebbe al tema delle varianti agli strumenti generali, finalizzate ad attribuire una destinazione d’uso a immobili pubblici in dismissione.

Il comma 2 dell’art. 27 del decreto impugnato – prosegue la ricorrente – inserisce l’art. 3-ter  nel decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliari), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, nel quale si stabilisce la disciplina del processo di valorizzazione degli immobili pubblici. Si prevedono, infatti, dei programmi unitari di valorizzazione territoriale e degli accordi di programma secondo disposizioni assai puntuali, con la conclusiva previsione di un termine perentorio di 120 giorni per la conclusione dell’accordo di programma, imponendo altrimenti al Presidente della Giunta regionale di attivare e concludere le procedure entro 60 giorni.

Tale disciplina – definita “farraginosa” – scenderebbe nel dettaglio delle procedure, al punto da apparire incompatibile con l’autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio e di valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare, sia a livello legislativo che amministrativo e finanziario. Anch’essa si porrebbe, dunque, in contrasto con gli artt. 117, terzo comma, 118, primo e secondo comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione.

2. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha depositato, fuori termine, memoria di costituzione, chiedendo dichiararsi non fondate le proposte censure.

3. — In prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha depositato una memoria con la quale ha espressamente rinviato alle argomentazioni esposte nella memoria di costituzione.

Considerato in diritto

1. — La Regione Veneto impugna, fra gli altri, l’art. 27 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, per contrasto con gli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione. In particolare, quanto al  comma 1 di detto articolo – che ha inserito un nuovo articolo (il 33-bis) nel decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sotto la rubrica «Strumenti sussidiari per la gestione degli immobili pubblici» – il legislatore statale avrebbe attribuito all’Agenzia del demanio un ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio pubblico anche di proprietà delle Regioni e degli altri enti territoriali, sia attraverso la costituzione di società, consorzi o fondi immobiliari, sia attraverso la selezione dei privati partecipanti, sia nella selezione dei soggetti specializzati dei quali avvalersi. La norma, inoltre, lascerebbe trasparire l’intendimento dello Stato di gestire il processo di valorizzazione anche degli immobili pubblici regionali attraverso risorse finanziarie messe a disposizione dalle stesse Regioni o dagli altri enti territoriali, in contrasto con gli artt. 118 e 119 della Costituzione, «ove si prevede che le Regioni abbiano un proprio patrimonio e che quindi possano gestirne, nella loro autonomia amministrativa organizzativa e finanziaria, la valorizzazione».

A proposito, poi, della disciplina dettata dal comma 7 del predetto nuovo art. 33-bis – con il quale sono stati sostituiti i commi 1 e 2 dell’art. 58 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la compatibilità, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 – la disposizione novellata, per un verso, assegnerebbe alle Regioni un termine assai breve entro il quale esercitare la potestà legislativa concorrente; per altro verso delineerebbe anche un contenuto di dettaglio, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. Essendo quindi certa la inosservanza di un termine così breve per l’esercizio della competenza regionale, la disposizione solo all’apparenza rispetterebbe l’autonomia regionale, per di più dettando una disciplina mal coordinata: l’art. 25, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), infatti, che si applicherebbe per l’appunto in caso di inosservanza del predetto termine, non si riferisce al tema (qui rilevante) delle varianti agli strumenti generali, finalizzate ad attribuire una destinazione d’uso a immobili pubblici in dismissione.

Quanto al comma 2 della disposizione oggetto di impugnativa – che ha inserito l’art. 3-ter nel decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliari), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410 – la relativa disciplina scenderebbe nel dettaglio delle procedure, al punto da apparire incompatibile con l’autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio e di valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare, sia a livello legislativo che amministrativo e finanziario, ponendosi, dunque, in contrasto con gli artt. 117, terzo comma, 118, primo e secondo comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione.

2. — Le doglianze avanzate dalla Regione ricorrente – formalmente rivolte all’intero art. 27 ma sviluppate, nei motivi, solo in riferimento ai commi 1 e 2 – fanno dunque leva, essenzialmente, sulla pretesa lesione della sfera delle attribuzioni legislative regionali in tema di gestione del patrimonio immobiliare delle Regioni. Si sottolinea, in particolare, come gli interventi legislativi censurati si iscrivano in un complesso di misure che, da un lato, concentrano in capo alla Agenzia del demanio un ruolo determinante nella valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio pubblico, anche di proprietà delle Regioni e degli enti locali controllati, così da rivelare un intendimento dello Stato di pervenire ad una diretta e abnorme gestione di questi processi; dall’altro, finiscono con lo specificare nel dettaglio competenze e procedure al di là di una semplice normativa di principio, quale dovrebbe essere quella statale in materie – quali il governo del territorio e la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico – a legislazione concorrente.

3. — Entrambi i motivi di impugnazione non sono, però, persuasivi, avuto riguardo alla cornice entro la quale deve iscriversi il provvedimento legislativo oggetto di censura e, in tale ambito, alla ratio che risulta ispirare le peculiari e composite disposizioni dettate in tema di valorizzazione e gestione del patrimonio immobiliare pubblico.

4. — E’ noto infatti, a questo riguardo, come la giurisprudenza costituzionale abbia da tempo affermato che per la individuazione della “materia” agli effetti della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, occorra far riferimento al nucleo centrale della disciplina normativa, al fine di identificarne la concreta ratio, dovendosi invece trascurare tutti i profili secondari e di dettaglio (tra le tante, sentenza n. 168 del 2009).

 Ebbene, non sembra dubbio che il nucleo della pur complessa disciplina dettata dal decreto-legge n. 201 del 2011 (e che ne ha costituito in larga misura la “giustificazione” anche sul piano dei relativi presupposti di straordinaria necessità ed urgenza) è rappresentato – come emerge dal relativo preambolo (nel quale, in sintesi, si addita il fine «di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell’attuale eccezionale situazione di crisi internazionale e nel rispetto del principio di equità, nonché di adottare misure dirette a favorire la crescita, lo sviluppo e la competitività») – dall’esigenza di introdurre meccanismi multisettoriali (misure in tema di sviluppo ed equità; in tema di rafforzamento del sistema finanziario nazionale ed internazionale; in tema di consolidamento dei conti pubblici, fra le quali quelle relative alle riduzioni di spesa, alla riduzione del debito pubblico, e, in particolare, alle dismissioni immobiliari, qui in discorso, nonché in tema di concorrenza e di sviluppo industriale ed infrastrutturale) evidentemente appartenenti al complesso dei provvedimenti riconducibili alla manovra finanziaria e, perciò, naturalmente attribuibili alla materia “coordinamento della finanza pubblica”.

Si tratta, infatti, di interventi che si saldano strettamente alle misure che, nell’attuale fase, compongono il piano di stabilizzazione e che, del resto, tendono ad allinearsi alle raccomandazioni a tal proposito fornite, anche di recente, dagli organismi dell’Unione europea.

5. — La prospettiva evocata dalla Regione ricorrente appare, al contrario, ispirata  da una visione essenzialmente “patrimonialistica”, e finisce per risultare, perciò, eccentrica rispetto al contesto del provvedimento censurato: il quale, lungi dal proporre una contaminazione delle competenze circa la titolarità dei beni in questione, introduce unicamente meccanismi volti alla ottimizzazione complessiva del patrimonio immobiliare pubblico, incidendo in primo luogo sul profilo funzionale della sua destinazione ed utilizzazione economica. Come infatti emerge dalla stessa relazione tecnica che ha accompagnato il disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 201 del 2011, l’art. 27 si prefigge l’obiettivo di «velocizzare ed ottimizzare il corretto utilizzo degli immobili appartenenti, in particolare, allo Stato ed agli enti territoriali, attraverso un’ampia gamma di strumenti, intervenendo anche su aspetti procedimentali per una loro semplificazione. Tra l’altro, tale ottimizzazione, da un lato, fa emergere in modo più chiaro la parte del patrimonio immobiliare utilizzato per finalità istituzionali e, da un altro lato, agevola e velocizza la “trasformazione” degli altri immobili in risorse finanziarie». Da qui l’attribuzione all’Agenzia del demanio di compiti di «promozione della fattibilità delle iniziative» che si prevede vengano attivate «a livello territoriale con la finalità di costituire forme societarie, consortili o fondi immobiliari locali» e la introduzione di procedure ampiamente partecipate, volte alla armonica e, appunto, ottimale realizzazione degli obiettivi perseguiti. 

Il profilo, per così dire, “finanziario” appare, in altri termini, del tutto prevalente rispetto a quello meramente “patrimoniale” dei diritti, o delle competenze, che gli enti territoriali esercitano su quei beni, consentendo di ricondurre l’innesto normativo censurato nel panorama, come già detto, delle misure di coordinamento della finanza pubblica.

Sembra, anzi, potersi rilevare – tanto sul piano del linguaggio normativo quanto su quello contenutistico, desumibile dallo stratificato succedersi delle varie iniziative legislative sulla materia qui in discorso – come la legislazione statale appaia da tempo  generalmente orientata a introdurre discipline del patrimonio immobiliare “pubblico” considerato nel suo complesso, indipendentemente, cioè, dalla questione della specifica appartenenza dei singoli beni a questo o a quello tra i diversi enti pubblici territoriali coinvolti; e ciò nella ovvia prospettiva di tracciare obiettivi di “governo” rispondenti a fini e interessi generali o comuni, destinati a concorrere, ma su un piano prevalentemente finanziario, alla gestione dei beni da parte del singolo ente che ne disponga a titolo meramente “dominicale”. L’oggetto – o, se si vuole, la materia – dell’intervento finisce, quindi, per non riguardare i singoli immobili degli enti coinvolti, ma piuttosto l’insieme del patrimonio immobiliare pubblico, individuato come entità a sé stante, e rispetto al quale – quindi – i criteri di gestione ottimale, sul piano economico-finanziario, non possono che essere, per ovvie ragioni, uniformi su tutto il territorio nazionale.

6. — Ispirate a presupposti di questo genere appaiono, del resto, nella giurisprudenza costituzionale, quelle pronunce di infondatezza di questioni sollevate dalle Regioni nei confronti di disposizioni statali analoghe a quelle in esame, adottate nella costante riaffermazione del principio secondo cui le disposizioni statali di coordinamento della finanza pubblica sono legittime in quanto: a) stabiliscano un “limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente” per le Regioni; b) evitino di prevedere in modo dettagliato le modalità per il raggiungimento degli obiettivi  (tra le altre più recenti, la sentenza n. 182 del 2011, che subordina la legittimità delle disposizioni statali alla condizione che sia consentita l’estrapolazione, dalle singole disposizioni, «di princìpi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale»).  

Alla stessa linea risultano, peraltro, riconducibili – per ciò che riguarda il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica anche attraverso la valorizzazione degli immobili – le scelte legislative che, in armonia con il nuovo titolo V, hanno portato via via – dopo la legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo) – all’emanazione, tra gli altri, di provvedimenti come: a) il ricordato decreto-legge n. 351 del 2001, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 410 del 2001, che ha, tra l’altro, previsto una serie di procedure per l’alienazione di immobili dello Stato con possibilità di riconoscere agli «enti territoriali interessati» quote del ricavato «attribuibile alla rivendita degli immobili valorizzati» (art. 3, comma 15); b) il decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, che, per l’appunto, all’art. 58 ha disciplinato le procedure per la «Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali»; c) la legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2010), che, all’art. 1, comma 223, ha autorizzato l’alienazione di immobili a trattativa privata, con diritto di opzione riconosciuto agli enti territoriali; d) il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.122, il quale, nel recare misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, ha dettato, all’art. 8, comma 2, specifiche disposizioni in tema di gestione degli immobili degli enti locali, proprio nel quadro ed «ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica e nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica, previsti dagli articoli 119 e 120 della Costituzione»; e) l’art. 33 della legge n. 98 del 2011, su cui si tornerà più avanti; f) la legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2012), che ha previsto di conferire o trasferire immobili dello Stato a fondi comuni di investimento o a società di gestione del risparmio, prevedendo, altresì, più in generale (all’art. 8), «Disposizioni in materia di debito pubblico degli enti territoriali» (con obbligo della riduzione del debito pubblico «ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica»: comma 3); g) il più volte richiamato decreto-legge n. 201 del 2011, che, tra l’altro, all’art. 28 contiene disposizioni in tema di «Concorso alla manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di spese». 

Nel più generale quadro degli strumenti dedicati alla realizzazione del patto di stabilità e del coordinamento della finanza pubblica va, per altro verso, rammentato, accanto alla nuova legge di contabilità e finanza pubblica nonché accanto al richiamato decreto-legge n. 78 del 2010, anche il decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), il quale, prevedendo, tra l’altro, agli artt. 33 e seguenti, l’istituzione di una «Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica» proprio come sede stabile per una partecipata definizione degli obiettivi di finanza pubblica e delle relative procedure, ha espressamente ribadito (art. 32) che «L’autonomia finanziaria delle regioni, delle province e delle città metropolitane deve essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il Patto di stabilità e di crescita».

7. — Tutto ciò conferma, del resto, il lungo itinerario che ha contrassegnato i diversi passaggi in cui si è articolato il percorso normativo concernente la materia; percorso che rinviene, da ultimo, puntuale conferma alla stregua dell’univoco tenore della «Direttiva del Presidente del Consiglio con le linee guida per contenere le spese pubbliche di gestione», del 3 maggio 2012, ove, fra le voci oggetto della cosiddetta spending review, si fa espressa menzione di «ricognizione degli immobili in uso; riduzione della spesa per locazioni, assicurando il controllo della gestione dei contratti; definizione di precise connessioni tra superficie occupata e numero degli occupanti»; di «ottimizzazione dell’utilizzo degli immobili di proprietà pubblica anche attraverso compattamenti di uffici ed amministrazioni»; di «restituzione all’Agenzia del demanio degli immobili di proprietà pubblica eccedenti i fabbisogni». Una serie di obiettivi perfettamente sintonici rispetto alla ratio della iniziativa legislativa che la Regione Veneto censura.

D’altra parte, che la disciplina della valorizzazione e gestione del patrimonio immobiliare pubblico presenti vocazioni di carattere univocamente, o prevalentemente, finanziario emerge, anche, dallo specifico contesto normativo in cui viene ad iscriversi il nuovo – e contestato – art. 33-bis del d.l. n. 98 del 2011.

Tale decreto-legge ha, infatti, tra l’altro dettato – nel quadro di disposizioni intese a realizzare il controllo e la riduzione della spesa pubblica, con attribuzione di un ruolo primario all’Agenzia del demanio – previsioni specifiche in materia di «acquisto, vendita, manutenzione e censimento di immobili pubblici» (art. 12); ha introdotto il “Nuovo patto di stabilità interno”, con i relativi “parametri di virtuosità” per le singole Regioni (art. 20); ed ha, per l’appunto, stabilito analitiche «disposizioni in materia di valorizzazione del patrimonio immobiliare», prevedendo, in particolare (art. 33), la costituzione di una «società di gestione del risparmio» per la istituzione di fondi di investimento destinati a «partecipare in fondi di investimento immobiliari chiusi promossi da regioni, provincie, comuni anche in forma consorziata» nonché da enti pubblici o società interamente partecipate, proprio «al fine di valorizzare o dismettere il proprio patrimonio immobiliare disponibile»; fondi che, a loro volta, sono destinatari dei conferimenti immobiliari e sono abilitati ad effettuare acquisti di immobili degli enti pubblici, o dai medesimi utilizzati, o ad ottimizzare, sul piano finanziario, il patrimonio immobiliare non utilizzato per finalità istituzionali.

È anche significativo che alla costituzione di tale società di gestione del risparmio sia stata fatta corrispondere la previsione dello scioglimento e della messa in liquidazione della società «Patrimonio dello Stato s.p.a.» (art. 33, comma 8) – istituita già dal decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni finanziarie e fiscali urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di formazione del costo dei prodotti farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno 2002, n. 112.

8. — Su queste basi, la prima delle censure della Regione ricorrente non è dunque fondata. Il ruolo attribuito alla Agenzia del demanio appare, come si è accennato, in linea con l’articolata gamma di interventi che alla stessa sono stati via via riservati per conseguire un obiettivo di razionalizzazione e valorizzazione della gestione del patrimonio immobiliare e con gli obiettivi di coordinamento della finanza pubblica e di riduzione delle spese di cui agli obblighi interni e comunitari. Le iniziative che l’Agenzia del demanio può promuovere, a norma del nuovo art. 33-bis del d.l. n. 98 del 2011 – va sottolineato, invero, il carattere promozionale delle stesse – prevedono, peraltro, ampia partecipazione degli enti interessati: è, infatti, espressamente previsto (al comma 2) che l’avvio della verifica di fattibilità di tali iniziative debba essere preceduto dalle attività di cui all’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 351 del 2001 (articolo aggiunto, per l’appunto, dal comma 2 dell’art. 27 qui impugnato e intitolato «Processo di valorizzazione degli immobili pubblici»), connesse alla formulazione dei «programmi unitari di valorizzazione territoriale», ampiamente partecipati.

D’altra parte, rispetto a materie tanto complesse ed articolate come il “coordinamento della finanza pubblica”, specie se ragguagliato ad un settore strutturalmente e funzionalmente composito come la gestione del patrimonio immobiliare degli enti pubblici, soltanto in presenza di una legislazione statale che effettivamente “esproprii” – nello specifico settore preso in considerazione e in misura inaccettabile rispetto agli obiettivi perseguiti dalla normazione di principio – gli spazi della autonomia regionale, potrà dirsi intervenuto un vulnus sul versante della relativa sfera di attribuzione legislativa. Ma perché una simile ipotesi possa risultare concretamente verificata occorrerebbero dei sicuri indici di riconoscimento, che attestassero uno sviamento della funzione normativa di “principio”, con correlativa invasione nella sfera della funzione normativa di “dettaglio”, non legittima, del resto, proprio perché non essenziale alla prima. Evenienza, questa, che, per le predette ragioni, non si è realizzata nel caso di specie.

9. — Quanto, poi, alle doglianze relative alla previsione del comma 7 del nuovo  33-bis, la Regione si limita a richiamare la sentenza n. 340 del 2009, con la quale venne dichiarata la illegittimità costituzionale del comma 2 del citato art. 58 sul rilievo che, trattandosi prevalentemente di disciplina attinente al governo del territorio, la disposizione allora impugnata, anziché dettare una disciplina di principio, prescrivendo criteri ed obiettivi, si risolveva in una normativa dettagliata che non lasciava spazi di intervento al legislatore regionale, ponendosi in contrasto con l’art. 117 Cost. A parere della Regione, i vizi che avevano allora compromesso la norma dichiarata costituzionalmente illegittima affliggerebbero anche la nuova disposizione, e per le stesse ragioni.

Ove, però, si pongano a raffronto il testo della disposizione dichiarata illegittima (riportato nella sentenza n. 340 del 2009) e il testo della disposizione ora nuovamente impugnata per gli stessi profili, emergerà che la censura appare priva di fondamento: essa risulta, infatti, unicamente basata sull’argomento della asserita brevità del termine entro il quale le Regioni sono state chiamate a disciplinare la procedura di approvazione delle delibere comunali quali varianti del piano regolatore generale e le procedure di co-pianificazione per la eventuale verifica di conformità agli strumenti di pianificazione sovraordinata. Termini che, qualora lasciati decorrere, farebbero riaffiorare una disciplina di dettaglio, come tale invasiva della sfera di competenza regionale.

Si tratta, come appare evidente, di una questione di mero fatto, che non rende la norma in sé contrastante con l’evocato parametro, dal momento che la potestà legislativa regionale di “dettaglio” è stata mantenuta, anche se con la previsione, del tutto ragionevole, di un esercizio entro spazi temporali circoscritti: l’adeguatezza di tali termini appare, infatti, tematica insindacabile, non potendosi certo configurare una ipotesi di palese incongruità, mentre ne appare evidente la funzione di “principio”, in relazione allo scopo di rendere celere la procedura e di “premiare” le Regioni più virtuose.

10. — A proposito, poi, del comma 2 dell’art. 27 impugnato, la Regione ricorrente lamenta che la disposizione denunciata scenderebbe nel dettaglio delle procedure, al punto da apparire incompatibile con l’autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio e di valorizzazione del patrimonio immobiliare, sia a livello legislativo che amministrativo e finanziario.

L’assunto non è, neppure in questo caso, condivisibile, alla stregua della ratio complessiva che ha ispirato la disposizione in esame. La premessa procedimentale risulta, infatti, sicuramente di “principio”, dal momento che il comma 1 della disposizione stabilisce che «L’attività dei Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni e dello Stato, anche ai fini dell’attuazione del presente articolo, si ispira ai principi di cooperazione istituzionale e di co-pianificazione, in base ai quali essi agiscono mediante intese e accordi procedimentali, prevedendo, tra l’altro, l’istituzione di sedi stabili di concertazione al fine di perseguire il coordinamento, l’armonizzazione, la coerenza e la riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione del territorio».

Quanto, poi, alla funzione della norma, la stessa è tracciata dal comma 2, ove si stabilisce che «Al fine di contribuire alla stabilizzazione finanziaria, nonché per promuovere iniziative volte allo sviluppo economico e alla coesione sociale e per garantire la stabilità del Paese, il Presidente della Giunta regionale, d’intesa con la Provincia e i comuni interessati, promuove, anche tramite la sottoscrizione di uno o più protocolli d’intesa, [...] la formazione di “programmi unitari di valorizzazione territoriale”». Programmi che, a norma del comma 5, sono «finalizzati ad avviare, attuare e concludere in tempi certi, autodeterminati dalle Amministrazioni partecipanti, nel rispetto dei limiti e dei principi generali di cui al presente articolo, un processo di valorizzazione unico dei predetti immobili, in coerenza con gli indirizzi di sviluppo territoriale e con la programmazione economica».

Ci si muove, dunque, sul piano di un coordinamento che, collocando la relativa disciplina su di un livello eccedente quello della semplice gestione del patrimonio immobiliare, ancora una volta trascende (e assorbe) una semplice visione “localistica” del governo del territorio, per inserirsi, invece, in un disegno complessivo di razionalizzazione e valorizzazione economico-finanziaria degli immobili come una tra le più consistenti “risorse” pubbliche. Tenuto conto, poi, del fatto che la disciplina in discorso pare intesa a tracciare gli aspetti procedurali destinati a realizzare gli indicati obiettivi di co-pianificazione, è del tutto evidente che le disposizioni in questione, in quanto di “principio”, ammettano – per non risultare meramente declamatorie – una ulteriore scansione procedimentale, facendo comunque salva l’autonomia delle Regioni nelle determinazioni “concrete” da assumere per la formazione degli accordi.

Quanto, infine, alla funzione “sollecitatoria” dei previsti termini, la stessa si ispira alla disciplina di programma tracciata dal comma 1, ove – come si è rammentato – espressamente si evoca la necessità che l’attività dei vari enti interessati sia intesa a conseguire, appunto, anche la «riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione del territorio».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 27 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come sollevata, in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2012.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 dicembre 2012.