Ordinanza n. 73 del 2011

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ORDINANZA N. 73

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                               Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                   "

-           Franco                         GALLO                                                  "

-           Luigi                            MAZZELLA                                          "

-           Gaetano                       SILVESTRI                                           "

-           Sabino                         CASSESE                                              "

-           Giuseppe                     TESAURO                                             "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                     "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                   "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                        "

-           Paolo                           GROSSI                                                 "

-           Giorgio                        LATTANZI                                            "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), promosso con ordinanza dell’11 novembre 2009 dalla Commissione tributaria provinciale di Terni, nel giudizio vertente tra la ricorrente s.p.a. S.A.O. - Servizi Ambientali Orvieto, l’intervenuta s.p.a. ERG Renew e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Orvieto, iscritta al n. 161 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2010.

         Visti gli atti di costituzione della s.p.a. S.A.O. - Servizi Ambientali Orvieto e della s.p.a. ERG Renew e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito  nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;

         uditi gli avvocati Livia Salvini per la s.p.a. S.A.O. – Servizi Ambientali Orvieto, Livia Salvini e Gabriele Escalar per la s.p.a. ERG Renew e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza dell’11 novembre 2009, la Commissione tributaria provinciale di Terni – nel corso di due giudizi riuniti in cui una società di capitali aveva impugnato avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate per il recupero a tassazione di costi ritenuti indeducibili dall’Agenzia delle entrate in relazione all’IRPEG, all’IRAP ed all’IVA per l’anno 2003 ed in relazione all’IRAP ed all’IVA per l’anno 2004 – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), per il quale: «Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti»;

che la Commissione tributaria premette che le suddette questioni sono state sollevate dalla società ricorrente nel giudizio principale e riferisce che detta società ha precisato, in punto di fatto, che: a) era stata esercitata l’azione penale nei confronti degli amministratori della società per concorso nei reati di falsità ideologica e materiale in atti pubblici e di concorso in abuso di ufficio, nonché «per reati ambientali nell’ambito dell’attività di trasferimento e trattamento di rifiuti provenienti dalla Campania»; b) il relativo procedimento penale, pervenuto al dibattimento davanti al Tribunale di Orvieto, era «regredito alla fase delle indagini preliminari» a séguito della sentenza con la quale il medesimo Tribunale aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio e disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente; c) con i due avvisi di accertamento impugnati erano stati recuperati a tassazione costi che, a parere dell’ufficio tributario, non potevano essere dedotti dal reddito sociale perché riconducibili ai sopra indicati reati, commessi dagli amministratori; d) al momento dell’emissione degli avvisi, i reati degli amministratori «erano bensí ipotizzabili, ma non […] accertati in via definitiva con sentenza di condanna irrevocabile»;

che, quanto alla censura relativa all’art. 27, secondo comma – prosegue il giudice rimettente – la società ha osservato che: a) la norma denunciata «si presta, tenuto conto del suo tenore letterale, ad essere interpretata nel senso» che i costi e le spese non possono essere dedotti quando siano riconducibili a fatti per i quali vi sia soltanto una notizia di reato trasmessa al pubblico ministero e, quindi, anche quando l’azione penale non sia stata ancora esercitata ed il reato non sia stato accertato con sentenza di condanna (circolare 26 settembre 2005, n. 42/E dell’Agenzia delle entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso); b) tale indeducibilità costituisce «un effetto sanzionatorio ed afflittivo per il contribuente», una «sanzione indiretta», anteriore alla condanna definitiva, e perciò in contrasto con il principio costituzionale di non colpevolezza;

che, quanto alla censura relativa all’art. 3 Cost., la società ha affermato che la norma denunciata determina una irragionevole disparità di trattamento fiscale tra i soggetti responsabili di un illecito civile o amministrativo, per i quali i costi e le spese riconducibili a tale illecito possono esser dedotti dai redditi, e i soggetti responsabili di illeciti penali, per i quali i costi e le spese riconducibili al reato non possono, invece, essere dedotti;

che, quanto alla censura relativa agli artt. 3 e 53 Cost., la società ricorrente ha dedotto che la norma censurata non è conforme al principio di capacità contributiva, «poiché il reddito si accresce non già in virtú di maggiori proventi conseguiti, ma per effetto di una sostanziale equiparazione di costi effettivamente sostenuti ai proventi, che vengono a sommarsi tra loro»;

che, tanto premesso «in ordine ai termini ed ai motivi dell’istanza con la quale è stata sollevata la questione» dalla contribuente, la Commissione tributaria osserva che «la questione sollevata non appare manifestamente infondata […] considerato anche che cospicua parte della dottrina ha manifestato forti dubbi circa la costituzionalità della norma in esame per motivi corrispondenti a quelli rassegnati dalla società ricorrente […]»;

che in punto di rilevanza, infine, la medesima Commissione afferma che «il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, in quanto la pretesa tributaria […] è fondata sull’applicazione della norma denunciata di incostituzionalità»;

che si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale la società ricorrente, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate fondate;

che ad avviso della parte privata la disposizione censurata, interpretata nel senso prospettato dall’amministrazione finanziaria, comporterebbe l’irragionevole tassazione di una ricchezza (effettiva o potenziale) inesistente, perché calcolata al lordo dei costi, e, quindi, comporterebbe la violazione del principio di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost.. La tassazione del reddito d’impresa al lordo dei costi non troverebbe infatti, nella specie, giustificazione né nella disciplina generale delle imposte sui redditi (in base alla quale, invece, debbono essere dedotte le componenti negative del reddito, ivi comprese perfino quelle costituite dai cosiddetti “costi neri”); né in inesistenti «esigenze di semplificazione o […] discriminazione qualitativa della categoria reddituale» (esigenze comunemente addotte per giustificare la tassazione, al lordo, dei redditi di capitale); né nella natura penale dell’illecito commesso, in relazione alla quale l’ordinamento esprime «solo un giudizio di disvalore normativo che, come tale, non è espressivo di alcuna capacità contributiva»; né in una sanzione impropria, la quale potrebbe considerarsi legittima solo se prevista in funzione di un interesse fiscale (viene citata, al riguardo, la sentenza della Corte costituzionale n. 201 del 1970), mentre, nella specie, l’indeducibilità dei costi si pone a tutela di un interesse penale e non di un obbligo tributario, sostanziale o strumentale; né in esigenze di un equo contemperamento tra capacità contributiva e esigenze di gettito – come per il caso della parziale indeducibilità di spese mediche ai fini dell’IRPEF –, perché nella specie tali esigenze, avendo a riguardo i costi di produzione del reddito tassato, inciderebbero direttamente ed illegittimamente sul presupposto stesso del tributo; né in finalità antielusive, riguardando anche costi debitamente documentati e registrati;

che, sempre ad avviso della parte privata, la necessità di dare rilievo, ai sensi dell’art. 53 Cost., ai costi inerenti alla produzione della base imponibile delle imposte sui redditi, sarebbe stata evidenziata dalla stessa Corte costituzionale (sentenze n. 143 del 1982 e n. 179 del 1976) e risulterebbe, per il reddito d’impresa, anche dal combinato disposto degli artt. 89 e 52 (nella formulazione anteriore a quella vigente) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi);

che per la suddetta società, inoltre, la disposizione denunciata creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i destinatari di essa (tassati al lordo di costi inerenti alla produzione) e tutti gli altri percettori di reddito (tassati, invece, al netto di detti costi);

che la medesima parte privata sostiene, altresí, l’impossibilità di interpretare il comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993 nel senso che: a) i costi e le spese riconducibili a reati non possono essere dedotti nel solo caso di sottoposizione a sequestro o a confisca penale dei proventi del reato; b) l’indeducibilità di detti costi deriva da una presunzione assoluta della loro non inerenza al reddito d’impresa;

che l’interpretazione sub a) non sarebbe praticabile in considerazione sia della marginalità dell’ipotesi di sequestro o confisca penale, sia dell’irragionevolezza di ammettere, invece, la deducibilità nei casi di «sequestro e di confisca derivanti da illeciti di natura diversa da quella penale, quali ad esempio la confisca ed il sequestro amministrativo»; l’interpretazione sub b) non sarebbe praticabile in considerazione dell’illegittimità costituzionale di presunzioni assolute non corrispondenti – come nella specie – a massime d’esperienza (Corte costituzionale, sentenze n. 131 del 1991, n. 42 del 1980 e n. 200 del 1976);

che la contribuente afferma che la disposizione censurata víola anche gli artt. 3 e 27 Cost., perché l’indeducibilità dei costi riconducibili a fatti qualificabili come reati integra una irragionevole ed arbitraria sanzione, in violazione della presunzione di non colpevolezza, ove si ritenga detta sanzione applicabile sulla base della sola trasmissione di una notizia di reato al pubblico ministero, cioè prima ancora della verifica dell’effettiva sussistenza del reato (al riguardo viene richiamata sia la giurisprudenza costituzionale – sentenze n. 78 del 2005; n. 206 del 1999; n. 296 del 1997 – in tema di norme che riconnettono effetti sfavorevoli alla mera denuncia di reato o alla mera apertura di indagini preliminari, sia la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – sentenze 25 marzo 1983, Minelli contro Svizzera; 19 settembre 2006, Matijasevic contro Serbia – in tema di presunzione di non colpevolezza);

che la disposizione censurata non potrebbe interpretarsi nel senso che l’indeducibilità conseguirebbe all’accertamento del reato da parte del giudice tributario, perché in tal modo – sempre secondo la parte privata – verrebbe attribuita al giudice tributario la cognizione del reato quale oggetto principale di accertamento, in contrasto sia con la struttura del processo tributario, attesi i limiti di prova da esso previsti, sia con il divieto di estensione della giurisdizione dei giudici speciali previsto dalla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione;

che la parte privata, infine, prospetta vizi di legittimità costituzionale ulteriori rispetto a quelli indicati dal giudice rimettente, in quanto la disposizione denunciata: a) prevede una sanzione indipendente dalla gravità del reato e, pertanto, víola «il principio di proporzionalità della sanzione», ricavabile dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.; b) prescinde «da ogni considerazione circa l’elemento soggettivo» del reato (tanto da legittimare «addirittura» l’indeducibilità dei costi «a carico del contribuente vittima del reato») e non rinvia neppure ai criteri di imputabilità stabiliti dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. 8 agosto 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della Legge 29 settembre 2000, n. 300) per la responsabilità amministrativa della persona giuridica in relazione ai reati commessi da soggetti che agiscano nell’interesse o a vantaggio di essa e, pertanto, víola il principio – ricavabile dal primo comma dell’art. 27 Cost. – secondo cui la sanzione penale può essere inflitta solo se il fatto sia stato commesso con dolo o colpa;

che si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale anche un’altra società di capitali – intervenuta nel giudizio a quo in qualità di consolidante nazionale con la società ricorrente, a decorrere dal periodo di imposta 2004 – chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate fondate e svolgendo argomentazioni coincidenti con quelle della società ricorrente nel giudizio principale;

che è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque, manifestamente infondate;

che secondo la difesa dello Stato, le questioni sollevate sono inammissibili: a) «per mancanza di autosufficienza» dell’ordinanza di rimessione, dalla quale non sarebbe possibile comprendere né la rilevanza né le ragioni della non manifesta infondatezza delle sollevate questioni; b) per l’omesso tentativo del giudice rimettente di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, entrata in vigore solo da alcuni anni e rispetto alla quale non sussiste ancora un diritto vivente;

che secondo la medesima Avvocatura generale, nel caso in cui le suddette eccezioni di inammissibilità si potessero ritenere superate per avere il rimettente fatto proprie le argomentazioni della società ricorrente, le questioni sollevate sarebbero manifestamente infondate;

che, quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., la difesa dello Stato rileva che essa muove dall’erroneo assunto per il quale la valutazione della riconducibilità del costo o della spesa a un fatto, atto o attività «qualificabile come reato» deve essere effettuata esclusivamente dal giudice penale. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’erroneità di tale assunto è dimostrata dai numerosi casi in cui un giudice non penale valuta, a fini diversi dalla irrogazione di una sanzione penale, se una determinata attività integri un reato (come quando: 1.– il giudice civile accerta incidenter tantum la sussistenza di un reato per applicare la eventualmente piú lunga prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, ai sensi dell’art. 2947, terzo comma, cod. civ.; 2.– il giudice tributario, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, recante «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della L. 30 dicembre 1991, n. 413», risolve «in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato e la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio»; 3.– deve essere registrata a debito, ai sensi dell’art. 59, comma 1, lettera d), del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro», una sentenza che condanni al risarcimento del danno prodotto da fatto costituente reato);

che, nella specie – sottolinea l’Avvocatura generale – la valutazione compiuta dall’Agenzia delle entrate in ordine alla qualificabilità come reato di un fatto sarebbe sempre sindacabile, nel merito, dal giudice tributario, al fine dell’applicazione non di una sanzione penale, ma della denunciata disposizione fiscale concernente l’indeducibilità di costi e spese, con conseguente rispetto della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.;

che, quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento fiscale tra i soggetti responsabili di illeciti penali e quelli responsabili di illeciti civili o amministrativi, l’Avvocatura nega tale disparità essendo oggettivamente diverse le situazioni messe a raffronto dalla Commissione rimettente, dato il maggiore disvalore sociale dell’illecito penale;

che quanto, infine, alla questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., la difesa dello Stato osserva che la definizione degli oneri e delle spese deducibili dal reddito è frutto di una scelta discrezionale del legislatore, con l’ovvio limite del rispetto del canone della ragionevolezza, canone non violato, nella specie, perché il legislatore, con la disposizione censurata, ha solo escluso che il costo riconducibile a una fattispecie qualificabile come reato sia considerato inerente all’attività economica esercitata, la quale «dovrebbe essere intesa anzitutto come attività lecita»;

che in prossimità della data fissata per la discussione in udienza pubblica entrambe le parti private costituite hanno depositato memorie illustrative, di analogo contenuto, nelle quali viene ribadita l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni;

che, in particolare, dette parti private affermano che: a) secondo la Corte di cassazione, l’indeducibilità di costi prevista dalla disposizione censurata costituisce «un intervento di tipo sanzionatorio che si aggiunge a quelli normalmente previsti per gli illeciti piú gravi, costituenti reato» (sentenza n. 16750 del 2008; analogamente, sentenza n. 25617 del 2010); b) tale funzione sanzionatoria di reati è, però, incompatibile sia con la Costituzione(Corte costituzionale, sentenza n. 103 del 1967) sia con il principio, evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria, dell’estraneità di tale funzione sanzionatoria all’ordinamento tributario (Corte di giustizia dell’Unione europea, ordinanza 7 luglio 2010, in causa C-381/09, Curia; sentenza 2 agosto 1993, in causa C-111/92, Lange); c) l’inserzione nella dichiarazione di costi riconducibili a reati potrebbe comportare l’integrazione di uno dei reati di infedeltà nella dichiarazione previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della Legge 25 giugno 1999, n. 205), ed innescare cosí, a partire da un unico fatto originario diversamente considerato da distinte norme incriminatrici, una vera e propria «spirale delle condanne» penali (fenomeno la cui incostituzionalità la Corte costituzionale ha piú volte dichiarato: sentenze n. 467 del 1991 e n. 409 del 1989), in violazione del «principio di non colpevolezza»; d) l’indeducibilità in discorso riguarda solo i costi inerenti alla produzione del reddito (Corte di cassazione, sentenze n. 19112 e n. 19113 del 2005) e, pertanto, non può costituire una presunzione assoluta di non inerenza; e) sarebbe comunque irragionevole escludere l’inerenza per i costi riconducibili ad un illecito penale e non per quelli riconducibili ad un illecito civile od amministrativo; f) per la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, è immediatamente applicabile nell’ordinamento interno, in relazione ai tributi di rilevanza comunitaria (come l’IVA), il principio secondo cui, da un lato, l’illiceità del fatto generatore non esclude l’applicabilità del tributo e, dall’altro, la natura illecita dell’attività svolta non preclude l’applicazione delle norme ordinarie, comprese quelle di favore applicabili ad analoghe attività lecite; g) per la Corte di cassazione, il comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, sebbene testualmente riferito solo alle imposte dirette, trova applicazione anche agli effetti dell’IVA (sentenze n. 1372 del 2006 e n. 3550 del 2002); h) la ratio «di evitare la penalizzazione degli interessi erariali tutte le volte in cui, a fronte di un pagamento illecito, vi è un soggetto che non corrisponde le imposte sulle somme percepite» non è riscontrabile nella disposizione censurata, perché il debitore d’imposta è solo chi riceve il pagamento illecito e perché, altrimenti, opererebbe la presunzione assoluta – incostituzionale, stante l’impossibilità di fornire la prova contraria – dell’utilizzazione della somma, da parte dell’accipiens, per la produzione del reddito.

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Terni dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione, della legittimità del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003);

che, in forza della disposizione censurata: «Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti»;

che il giudice a quo muove dal presupposto che la locuzione «qualificabili come reato», contenuta nella disposizione censurata, «si presta […] ad essere interpretata» secondo la prassi applicativa dell’Agenzia delle entrate, nel senso che è sufficiente, per l’indeducibilità dei costi, che questi siano riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato;

che, secondo il giudice rimettente, tale norma, cosí interpretata, si pone in contrasto con: a) l’art. 3 Cost., perché comporta un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile o amministrativo, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono deducibili, e i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come reato, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono invece indeducibili; b) l’art. 27, secondo comma, Cost., perché, col prevedere l’indeducibilità dei costi e delle spese anche nel caso in cui il reato al quale gli stessi sono riconducibili non sia stato accertato con condanna definitiva, produce un effetto «sanzionatorio ed afflittivo per il contribuente» (o di «sanzione indiretta»), in contrasto con la presunzione di non colpevolezza; c) gli artt. 3 e 53 Cost., perché comporta l’assoggettamento a imposta di componenti negative del reddito, non espressive della capacità contributiva dell’impresa;

che la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per «mancanza di autosufficienza» dell’ordinanza di rimessione, deducendo che il giudice rimettente non avrebbe indicato le ragioni del proprio autonomo convincimento circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni stesse;

che l’eccezione non è fondata;

che, quanto alla rilevanza, il rimettente adotta una motivazione che – pur insufficiente in forza di quanto si osserverà – è autonoma, perché afferma espressamente che i giudizi principali riuniti non possono essere definiti senza applicare la norma denunciata, avendo essi ad oggetto l’impugnazione di pretese tributarie basate sull’indeducibilità di costi riconducibili a reati;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo indica le ragioni a sostegno delle sollevate questioni, dichiarando di fare integralmente proprie le argomentazioni prospettate al riguardo dalla società ricorrente e da lui dettagliatamente riportate nell’ordinanza di rimessione;

che, tuttavia, le questioni – ancorché sollevate con ordinanza autosufficiente – sono manifestamente inammissibili per inadeguata motivazione sulla rilevanza;

che, infatti, il giudice rimettente non ha considerato che gli avvisi di accertamento oggetto dei giudizi principali riuniti sono stati impugnati, tra l’altro, perché: a) la società ricorrente non potrebbe «essere chiamata a rispondere di reati contestati ai propri amministratori»; b) ai sensi del denunciato comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, i costi riconducibili a fatti di reato dovrebbero ritenersi non deducibili solo nel caso in cui detti costi siano correlati a proventi che non concorrono alla formazione del reddito imponibile; c) non indicano le ragioni della asserita sussistenza del reato; d) muovono dall’errata interpretazione della suddetta disposizione, secondo cui sarebbe sufficiente, per l’indeducibilità dei costi, che questi siano riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato;

che detti motivi di ricorso, risolvendosi nella negazione della possibilità di considerare indeducibili i costi ripresi a tassazione con gli avvisi impugnati, sono logicamente e giuridicamente prioritari rispetto alle questioni di legittimità costituzionale del denunciato comma 4-bis, parimenti prospettate dalla società ricorrente;

che, pertanto, la Commissione tributaria rimettente, nel sollevare tali questioni, avrebbe dovuto preliminarmente affermare – motivando anche solo sommariamente sul punto – l’infondatezza dei suddetti motivi di ricorso, perché questi, se accolti, avrebbero determinato l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati e la conseguente irrilevanza delle questioni medesime.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Terni, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 3 marzo 2011.