Ordinanza n. 337 del 2010

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ORDINANZA N. 337

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                                 Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     "

-           Alfonso                       QUARANTA                                           "

-           Franco                         GALLO                                                    "

-           Luigi                            MAZZELLA                                            "

-           Sabino                         CASSESE                                                "

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  "

-           Giuseppe                     TESAURO                                               "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          "

-           Paolo                           GROSSI                                                   "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, nel procedimento vertente tra Podere La Cantina s.r.l. e l’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Empoli, con ordinanza del 28 settembre 2009 iscritta al n. 127 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2010.

         Visto  l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2010 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto che la Commissione tributaria regionale della Toscana, nel corso di un giudizio di appello promosso da una società di capitali avverso la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso proposto contro alcuni avvisi di accertamento aventi ad oggetto la ripresa a tassazione di proventi illeciti, ha sollevato, con ordinanza del 28 settembre 2009, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 97, 101, 104 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità dell’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006 n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, «nella parte in cui tale norma si qualifica indebitamente interpretativa, e quindi con efficacia retroattiva»;

che, secondo quanto premesso in punto di fatto dal giudice rimettente: a) una società di capitali aveva impugnato, davanti alla Commissione tributaria provinciale di Firenze, gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate di Empoli, con i quali erano stati riprese a tassazione, ai fini dell’IRPEG, dell’IRAP e dell’IVA relative agli anni 2001 e 2002, alcune somme illecitamente distratte in favore di tale società dal suo amministratore, il quale aveva agito a danno di altra società di capitali della quale egli aveva, parimenti, «poteri di rappresentanza e delega»; b) il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso, affermando che detti proventi illeciti erano classificabili come «redditi diversi», ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) e che, pertanto, erano tassabili in forza della norma di interpretazione autentica introdotta dal comma 4 dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), in base al quale, «Nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale […]»; c) la contribuente aveva proposto appello deducendo che i suddetti proventi illeciti non erano classificabili in alcuna delle categorie previste dal citato art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 e, in particolare, non erano classificabili come «redditi diversi», ai sensi dell’art. 67 dello stesso decreto;

che, secondo quanto premesso in punto di diritto dallo stesso giudice rimettente: a) i proventi illeciti di cui agli impugnati avvisi di accertamento non rientrano nelle ipotesi di «redditi diversi» elencate dal combinato disposto dei citati artt. 6, comma 1, e 67 del d.P.R. n. 917 del 1986; b) tuttavia, il denunciato art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge n. 223 del 2006 stabilisce che «In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi»; c) il menzionato comma 34-bis dell’art. 36 del decreto-legge n. 223 del 2006 costituisce una norma innovativa e non meramente interpretativa rispetto al comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, perché – a differenza di quest’ultima disposizione – sottopone a tassazione, classificandoli ex novo quali «redditi diversi», anche i proventi illeciti che non rientrano nelle ipotesi di «redditi diversi» elencate dal combinato disposto degli artt. 6, comma 1, e 67 del d.P.R. n. 917 del 1986;

che, poste tali premesse, il giudice a quo afferma che la norma censurata, in quanto di natura innovativa, si autoqualifica indebitamente come norma di interpretazione autentica del comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993 e pertanto, nel sottoporre retroattivamente a tassazione i proventi illeciti oggetto della controversia, víola l’art. 3 Cost., sotto il profilo sia dei «principi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione», sia del «divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento», sia della «tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti», sia – infine – della «coerenza e […] certezza dell’ordinamento giuridico», nonché gli artt. 23, 24, 97, 101, 104 e 136 Cost.;

che, in punto di rilevanza, il medesimo giudice si limita ad affermare che la «questione […] appare […], all’evidenza, rilevante»;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza o, in subordine, manifestamente infondate;

che la difesa dello Stato, a sostegno della dedotta inammissibilità, osserva che: a) il reddito delle società commerciali è considerato d’impresa «da qualsiasi fonte provenga», secondo quanto disposto dall’art. 95 del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo applicabile ratione temporis); b) conseguentemente, i proventi illeciti percepiti dalle suddette società debbono classificarsi come «redditi d’impresa», i quali sono ricompresi in una delle categorie di redditi indicate nell’art. 6 del citato d.P.R. n. 917 del 1986 e sono, pertanto, assoggettabili a tassazione ai sensi del comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, indipendentemente dall’applicazione della disposizione denunciata; c) nella specie, la contribuente è una società commerciale e, pertanto, i proventi illeciti da essa percepiti vanno classificati come redditi d’impresa e sono assoggettabili a tassazione a prescindere dalla norma oggetto di censura e dalla sua efficacia retroattiva; d) per l’effetto, le questioni, avendo ad oggetto una disposizione non applicabile nel giudizio principale, sono prive di rilevanza e, dunque, inammissibili;

che, inoltre, l’Avvocatura dello Stato deduce che, già prima dell’entrata in vigore della disposizione denunciata, l’interpretazione data dalla giurisprudenza al comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993 consentiva di ricomprendere tra i redditi diversi anche le somme indebitamente acquisite dalla società, con conseguente inammissibilità, per irrilevanza, delle questioni;

che, sempre in ordine ai profili preliminari delle questioni prospettate, la medesima Avvocatura eccepisce l’inammissibilità delle questioni sollevate con riferimento agli artt. 23, 24, 97, 101, 104 e 136 Cost., per difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza;

che, a sostegno della richiesta subordinata di dichiarazione di manifesta infondatezza delle questioni, la difesa dello Stato rileva che: a) la disposizione censurata ha natura genuinamente interpretativa, perché, prima della sua entrata in vigore, la giurisprudenza della Corte di cassazione, «quantomeno in alcune pronunce», aveva ritenuto tassabile ogni provento illecito ed era quindi incerto il significato attribuibile al comma 4 dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, cosí da legittimare l’emanazione di una norma interpretativa; b) anche nel caso in cui il suddetto comma 4 potesse interpretarsi nel senso che alcuni proventi illeciti non sono tassabili (in quanto non rientranti in alcuna delle categorie di reddito di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986), la disposizione censurata sarebbe ugualmente legittima e ragionevole, proprio perché diretta ad eliminare retroattivamente – cioè con «effetto sostanzialmente equivalente ad una pronuncia di incostituzionalità» – una lacuna legislativa produttiva di una ingiustificata disparità di trattamento fiscale di diversi tipi di proventi illeciti.

Considerato che la Commissione tributaria regionale della Toscana dubita, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 97, 101, 104 e 136 della Costituzione, della legittimità dell’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006 n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;

che, ad avviso del giudice rimettente, la disposizione denunciata – stabilendo che il comma 4 dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), si interpreta nel senso che i proventi illeciti in esso indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), «sono comunque considerati come redditi diversi» − ha natura di norma innovativa e, pertanto, si autoqualifica indebitamente come norma di interpretazione autentica, perché sottopone a tassazione in via retroattiva, quali «redditi diversi», anche i proventi illeciti che, in base al disposto degli artt. 6, comma 1, e 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, non rientrano in detta categoria di redditi;

che, per la Commissione tributaria regionale, la suddetta disposizione denunciata víola, pertanto: a) l’art. 3 Cost., sotto il profilo sia dei «principi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione», sia del «divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento», sia della «tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti», sia, infine, della «coerenza e […] certezza dell’ordinamento giuridico», b) gli artt. 23, 24, 97, 101, 104 e 136 Cost.;

che le questioni sono manifestamente inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza;

che il rimettente muove dal duplice presupposto che i proventi ripresi a tassazione – costituiti da somme illecitamente distratte, in favore della società di capitali contribuente, dall’amministratore di quest’ultima, il quale aveva agito a danno di altra società di capitali della quale egli aveva, parimenti, «poteri di rappresentanza e delega» – siano illeciti e non siano classificabili in alcuna delle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, e, in particolare, nella categoria dei «redditi diversi»;

che, tuttavia, lo stesso rimettente, in ordine alla asserita non riconducibilità di detti proventi alle menzionate categorie di reddito (cioè redditi fondiari; di capitale; di lavoro dipendente; di lavoro autonomo; di impresa; diversi), si limita ad affermare che essi non rientrano in alcuna delle ipotesi di «redditi diversi» elencate dall’art. 67 del citato d.P.R. n. 917 del 1986 ed omette di prendere in considerazione le altre categorie reddituali;

che, in particolare, la Commissione tributaria regionale non fornisce alcuna motivazione sulle ragioni per cui i proventi illeciti ripresi a tassazione non siano riconducibili alla categoria dei «redditi d’impresa» (menzionata negli avvisi di accertamento impugnati dalla contribuente), motivazione tanto piú necessaria in quanto l’art. 95 del citato testo unico delle imposte sui redditi – corrispondente all’attuale art. 81 – qualifica come «reddito d’impresa», in forza di una specifica presunzione, il reddito complessivo delle società di capitali, indipendentemente dalla natura della fonte dalla quale esso derivi («Il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d’impresa ed è determinato secondo le disposizioni di questa sezione»);

che tale lacuna motivazionale in ordine alla possibilità di classificare i suddetti proventi illeciti nella categoria «reddito d’impresa» – prevista dal comma 1, lettera e), dell’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986 – si risolve in un difetto di motivazione sull’applicabilità, nel giudizio a quo, della disposizione censurata, la quale, come riconosce lo stesso rimettente, si applica solo «qualora» i proventi illeciti «non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1,» citato;

che tale profilo di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni, risulta assorbente rispetto a quello ulteriore della totale assenza di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate con riferimento ai parametri degli artt. 23, 24, 97, 101, 104 e 136 Cost.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006 n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevate, in relazione agli artt. 3, 23, 24, 97, 101, 104 e 136 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Toscana con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 novembre 2010.