Sentenza n. 198 del 2010

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SENTENZA N. 198

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-          Francesco                    AMIRANTE                           Presidente

-          Ugo                             DE SIERVO                             Giudice

-          Paolo                           MADDALENA                              "

-          Alfio                            FINOCCHIARO                            "

-          Alfonso                        QUARANTA                                 "

-          Franco                         GALLO                                          "

-          Luigi                            MAZZELLA                                   "

-          Gaetano                       SILVESTRI                                    "

-          Sabino                         CASSESE                                      "

-          Maria Rita                   SAULLE                                         "

-          Giuseppe                     TESAURO                                     "

-          Paolo Maria                 NAPOLITANO                              "

-          Giuseppe                     FRIGO                                           "

-          Paolo                           GROSSI                                         "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 66 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986 n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), promosso dal Giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani, nel procedimento vertente tra la Factorit s.p.a. e il cancelliere del Tribunale ordinario di Trani, con ordinanza del 15 aprile 2009, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto in fatto

1. – Il giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani, nel corso del procedimento camerale promosso con ricorso, ai sensi dell’art. 745 del codice di procedura civile, dalla società Factorit s.p.a. avverso il rifiuto del cancelliere del Tribunale – motivato, ai sensi dell’articolo 66, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), dal mancato versamento dell’imposta di registro sull’atto – di rilasciare copia autentica del verbale di conciliazione, con il quale era stato definito un giudizio di opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), testo originario, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 – rectius: art. 66, comma 2, dello stesso d.P.R. – nella parte in cui non consente il rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo, prima del pagamento dell’imposta di registro.

Il rimettente premette che, con avviso di liquidazione e contestuale irrogazione di sanzione, l’Agenzia delle entrate di Trani aveva liquidato l’imposta di registro relativa al verbale di detta conciliazione di € 83.994,72, calcolandola in misura proporzionale anziché fissa, e che per tale ragione la Factorit s.p.a. aveva proposto ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Bari, invocando l’errata applicazione dell’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986. In pendenza di detto giudizio tributario, e, quindi, nelle more della registrazione dell’atto e del pagamento dell’imposta, la Factorit s.p.a. aveva chiesto alla cancelleria del Tribunale di Trani il rilascio di copia autentica del verbale di conciliazione onde poter procedere al deposito della stessa presso l’Ufficio fallimentare ai fini della variazione dello stato passivo. A seguito del rifiuto del cancelliere, la Factorit s.p.a. aveva promosso il giudizio nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.

Il giudice a quo osserva che l’art. 66 del citato d.P.R., al comma 1, stabilisce il divieto per cancellieri e segretari degli organi giurisdizionali di rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso, da essi formati o autenticati, se non dopo la registrazione degli stessi, con relativo pagamento dell’imposta, prevedendo, al secondo comma, tassative eccezioni al divieto di rilascio di copia di atti, nelle more della registrazione. A tali deroghe, previste dal legislatore, si è aggiunta quella introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 522 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non ammette la possibilità del rilascio dell’originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale che debba essere utilizzato per procedere alla esecuzione forzata, anche prima della registrazione.

Secondo il rimettente, le ragioni poste a base della decisione della Corte sarebbero invocabili anche nella fattispecie in esame. Infatti, il giudizio di opposizione allo stato passivo di cui all’art. 98 del r.d. n. 267 del 1942, testo originario, si conclude con una sentenza che, qualora passata in giudicato, accerta definitivamente il credito e costituisce titolo per la c.d. variazione dello stato passivo fallimentare, adempimento rimesso alla cancelleria ad impulso di parte.

Non dissimile dal caso esaminato sarebbe la definizione, avvenuta nel caso di specie, del giudizio con verbale di conciliazione giudiziale che ha accertato definitivamente il credito da ammettere al passivo.

Anche in tale ipotesi, la variazione dello stato passivo costituirebbe il momento di raccordo tra il giudizio di opposizione, ormai concluso, ed il procedimento concorsuale in corso, raccordo che consente al creditore di ottenere effettiva tutela del diritto di credito accertato, attraverso la partecipazione ai riparti predisposti dagli organi fallimentari. Sicché, pur in assenza di una condanna nei confronti della curatela fallimentare, non potrebbe negarsi che l’effettiva attuazione giurisdizionale del diritto vantato dal creditore concorsuale si concretizza con l’inserimento del credito nello stato passivo. Anzi, tale iter procedimentale, in pendenza del fallimento, rappresenterebbe l’unica forma di tutela del creditore concorsuale, non potendo costui far valere il suo diritto al di fuori del concorso dei creditori, ai sensi degli artt. 51 e 52 legge fall.

Pertanto, condizionare il rilascio della copia del verbale di conciliazione all’effettivo pagamento dell’imposta di registro equivarrebbe ad impedire l’attuazione del diritto di credito accertato giurisdizionalmente, tanto più là dove, come nella specie, penda contenzioso proprio in ordine alla legittimità della pretesa tributaria sul quantum debeatur e il tributo richiesto abbia anche consistenza notevole. Verrebbero così violati sia l’art. 24 della Costituzione, che assicura la possibilità non solo astratta e teorica di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, sia l’art. 3 della Costituzione, per l’ingiustificata irragionevole differenza di trattamento a seconda che il debitore da aggredire esecutivamente sia fallito ovvero in bonis, poiché solo nel secondo caso, giusta il tenore dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 a seguito della sentenza di questa Corte n. 522 del 2002, il creditore potrebbe, in pendenza di registrazione, ottenere subito la copia dell’atto indispensabile alla realizzazione del diritto accertato giudizialmente, promuovendo l’esecuzione forzata.

In punto di rilevanza della questione, il rimettente, ribadita la natura giurisdizionale del procedimento camerale regolato dall’art. 745 cod. proc. civ., già affermata da questa Corte, sottolinea che, nella specie, l’esito del procedimento a quo è condizionato da quello della questione sollevata, non potendosi, neanche in via di interpretazione, ricondurre la soluzione del problema all’applicazione di taluna delle deroghe previste dal secondo comma del citato art. 66.

2. – Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione.

Premette l’Autorità intervenuta che i principi espressi da questa Corte con la richiamata sentenza n. 522 del 2002 si riferiscono a fattispecie diversa da quella dalla quale trae origine la questione di costituzionalità in esame, trattandosi in quel caso, a differenza che in questo, di instaurare una procedura esecutiva, in relazione alla quale è stato ritenuto prevalente l’interesse alla difesa del soggetto esecutante su quello dello Stato alla riscossione dell’imposta.

Ciò posto, l’Avvocatura rileva che la disposizione censurata deve essere coordinata con l’art. 65 del d.P.R. n. 131 del 1986, finalizzato ad evitare che le parti omettano la registrazione degli atti che sono soggetti a tale obbligo in un termine fisso. Al fine di valutare la conformità a Costituzione della norma censurata, dovrebbe, quindi, verificarsi la prevalenza o meno dell’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi rispetto al contrapposto interesse privato a far valere determinati diritti parimenti tutelati dalla Costituzione.

Al riguardo, l’Avvocatura ricorda che la citata sentenza n. 522 del 2002 ha sottolineato che l’interesse alla riscossione dei tributi è posto dall’art. 53 Cost. sullo stesso piano di ogni diritto individuale. La costituzionalizzazione dell’interesse alla riscossione dei tributi potrebbe, dunque, giustificare i divieti di cui all’art. 66 censurato. Del resto – conclude l’Autorità intervenuta – lo stesso legislatore, là dove non ha ritenuto prevalente l’interesse alla riscossione delle imposte, ha individuato, nell’esercizio della sua discrezionalità, le eccezioni al principio del divieto di rilascio di documenti relativi ad atti non registrati (art. 66, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986).

Considerato in diritto

1. – Il giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani dubita della legittimità costituzionale dell’art. 66 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) – rectius: art. 66, comma 2, dello stesso d.P.R. – nella parte in cui non consente il rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo, prima del pagamento dell’imposta di registro, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe, in funzione della circostanza che il debitore da aggredire sia fallito ovvero in bonis, poiché solo nel secondo caso il creditore potrebbe, in pendenza della registrazione, ottenere subito la copia dell’atto, indispensabile alla realizzazione del diritto accertato giudizialmente, promuovendo l’azione forzata; nonché per violazione dell’art. 24 della Costituzione, per l’impedimento all’attuazione del diritto di credito accertato giurisdizionalmente.

2. – La questione è fondata.

2.1. – L’art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986 stabilisce che «i soggetti indicati nell’art. 10, lettere b) e c), possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati o autenticati solo dopo che gli stessi sono stati registrati». Il successivo comma 2 prevede che la disposizione indicata non si applica ad una serie di atti tassativamente enunciati.

Questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede che la norma contenuta nel comma 1 dello stesso art. 66 non si applica al rilascio dell’originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale che debba essere utilizzato per procedere all’esecuzione forzata (sentenza n. 522 del 2002).

La decisione muove dalla considerazione che la legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), ha imposto al legislatore delegato, come principio direttivo, di eliminare «ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi» (articolo 7, n. 7).

In attuazione di tale principio, l’articolo 63 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), il cui contenuto è poi sostanzialmente confluito nell’articolo 65 del d.P.R. n. 131 del 1986, ha soppresso il divieto di utilizzazione in giudizio di atti non registrati previsto dalla disciplina precedente, stabilendo, in luogo dello stesso, l’obbligo del cancelliere di inviarli all’ufficio del registro.

«Il legislatore della riforma» – osserva la citata sentenza – «ha pertanto ritenuto che la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione. È chiaro il giudizio di valore così espresso, per cui, nel bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale, il primo è ritenuto sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di informare l’ufficio finanziario dell’esistenza dell’atto non registrato, ponendolo così in grado di procedere alla riscossione. Discipline di contenuto sostanzialmente identico sono state introdotte – sia pure in tempi diversi – per le imposte di successione, di bollo e sul valore aggiunto».

Considerando il bilanciamento fra i due interessi alla luce del principio secondo cui la garanzia della tutela giurisdizionale posta dall’articolo 24, primo comma, Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, la quale è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giurisdizionale, la scelta compiuta dalla norma di cui si tratta è stata ritenuta da questa Corte irragionevole e contrastante con l’art. 24 della Costituzione (sentenza n. 321 del 1998).

Tale scelta comportava che la valutazione di bilanciamento fra l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale e quello alla riscossione dei tributi fosse effettuata, per i due tipi di processo, in modo irragionevolmente diverso: l’inadempimento dell’obbligazione tributaria – che pure non ha precluso lo svolgimento del processo di cognizione fino all’emanazione della sentenza (o di altro provvedimento esecutivo) ed ha determinato solo la comunicazione da parte del cancelliere all’ufficio del registro degli atti non registrati – impediva infatti che alla sentenza (o al provvedimento esecutivo) fosse data attuazione mediante l’esercizio della tutela giurisdizionale in via esecutiva.

I principi posti a base della richiamata sentenza si attagliano anche alla fattispecie in esame. Infatti, posto che la conciliazione giudiziale accerta il credito da ammettere al passivo, l’unico sistema attraverso il quale il creditore può ottenere tutela del proprio diritto è quello della partecipazione al riparto attraverso l’inserimento del credito nello stato passivo. Pertanto, la esclusione di tale possibilità, prima della registrazione dell’atto, pone il creditore in una condizione analoga a quella in cui viene a trovarsi il creditore cui sia inibita la esecuzione forzata per il mancato rilascio della copia della sentenza che ne abbia accertato il credito, prima della registrazione dell’atto. Condizione, quest’ultima, presa appunto in considerazione e tutelata con la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla citata sentenza n. 522 del 2002.

Né può accedersi alla tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui appartiene in ogni caso alla discrezionalità del legislatore attribuire prevalenza all’interesse alla riscossione delle imposte e, quindi, legittimare il divieto di rilascio di documenti relativi ad atti non registrati, trovando, invece, tale discrezionalità un limite insuperabile con riferimento alle ipotesi in cui, come nella specie, il divieto sia, per le stesse ragioni esposte nella sentenza da ultimo richiamata, irragionevole.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.