Sentenza n. 157 del 2010

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SENTENZA N.157

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco                AMIRANTE                                                  Presidente

- Ugo                         DE SIERVO                                                    Giudice

- Paolo                       MADDALENA                                                    ”

- Alfio                       FINOCCHIARO                                                  ”

- Alfonso                   QUARANTA                                                        ”

- Franco                     GALLO                                                                 ”

- Luigi                       MAZZELLA                                                         ”

- Gaetano                  SILVESTRI                                                          ”

- Sabino                     CASSESE                                                             ”

- Maria Rita               SAULLE                                                               ”

- Giuseppe                 TESAURO                                                            ”

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                    ”

- Giuseppe                 FRIGO                                                                  ”

- Paolo                       GROSSI                                                                ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza del 3 marzo 2009, iscritta al n. 243 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2009.

Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 3 marzo 2009, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468).

La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione inflitta per i reati previsti dai due commi precedenti dello stesso art. 56, l’applicazione delle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Secondo quanto riferito dalla Corte rimettente, l’imputato, nella fase di merito del giudizio a quo, ha chiesto ed ottenuto una sentenza di applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente ad un delitto di violazione degli obblighi connessi alla sanzione della permanenza domiciliare (art. 56, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000). La pena, concordata nella misura di dieci giorni di reclusione, è stata sostituita con la pena pecuniaria di specie corrispondente, e cioè con la multa per 380 euro.

Il provvedimento è stato impugnato dal pubblico ministero, e la Corte rimettente osserva che il ricorso dovrebbe  essere accolto, in quanto il terzo comma dell’art. 56 espressamente preclude la sostituzione della pena inflitta per i delitti di violazione degli obblighi connessi alle sanzioni, cosiddette «paradetentive», della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.

Al tempo stesso, la Corte di cassazione ritiene che la norma preclusiva contrasti con l’art. 3 Cost. La disposizione censurata, infatti, delinea un caso di esclusione su base oggettiva dell’applicazione di pene sostitutive, che nel contesto originario si accordava con casi analoghi, regolati dall’art. 60 della legge n. 689 del 1981, ove la sostituzione delle pene detentive brevi era tra l’altro inibita per il delitto di evasione (art. 385 del codice penale). Tale ultima norma, però, è stata successivamente abrogata, con conseguente eliminazione di tutti i casi di esclusione oggettiva in essa contemplati (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»).

In conseguenza della riforma, le pene inflitte per il delitto di evasione sono ormai suscettibili di sostituzione a norma degli artt. 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, e ciò vale anche per i fatti concernenti la detenzione domiciliare, di cui al primo ed all’ottavo comma dell’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che sono appunto sanzionati a norma dell’art. 385 cod. pen.

Il perdurante divieto di sostituzione per le violazioni concernenti la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità sarebbe privo di giustificazione, in quanto retaggio di una ratio che il legislatore ha sconfessato con l’abrogazione dell’art. 60 della legge n. 689 del 1981.

In altre parole, il rimettente considera irragionevole che, per effetto della preclusione posta dalla norma censurata, il reato contestato nel giudizio a quo sia trattato più severamente di quanto non accada per condotte di gravità analoga, se non addirittura maggiore, come quelle di evasione dal luogo degli arresti domiciliari o della detenzione domiciliare.

2. – Nel presente giudizio non è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri né vi è stata costituzione delle parti del procedimento principale.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468).

La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione inflitta per i delitti previsti dai primi due commi dello stesso art. 56 (inosservanza degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità), l’applicazione delle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e ciò sebbene un analogo divieto, già operante riguardo a condotte di evasione sanzionate dall’art. 385 del codice penale, sia stato rimosso dal legislatore mediante l’abrogazione dell’art. 60 della citata legge n. 689 del 1981 (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»).

2. – La questione non è fondata.

2.1. – La norma censurata dal rimettente costituisce espressione di una scelta legislativa volta a conferire effettività alle sanzioni cosiddette «paradetentive» previste per i reati di competenza del giudice di pace.

Allo scopo di valutare la ragionevolezza della norma, si deve innanzitutto osservare che la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità colpiscono i più gravi tra i fatti attribuiti alla competenza del predetto magistrato, e che vengono irrogati solo a seguito del fallimento, nel caso concreto, dei meccanismi di riparazione e conciliazione che caratterizzano il relativo procedimento penale. D’altra parte non è sufficiente, per integrare il reato di cui all’art. 56 d.lgs. n. 274 del 2000, una qualsiasi violazione delle prescrizioni connesse all’esecuzione delle citate sanzioni «paradetentive». Difatti il comma 1 dispone che la ricorrenza di un «giusto motivo» per il comportamento trasgressivo esclude la rilevanza penale del medesimo, assicurando in tal modo un’area di non punibilità più ampia di quella derivante dalle esimenti a carattere generale. A ciò si deve aggiungere che, mentre l’allontanamento ingiustificato dai luoghi in cui il condannato è obbligato a permanere o a prestare il lavoro di pubblica utilità, anche se compiuto una tantum, è sufficiente ad integrare il reato, non così è stabilito per gli altri obblighi e divieti inerenti alle due pene di cui sopra, che devono essere violati «reiteratamente senza giusto motivo» (comma 2) perché la norma incriminatrice sia applicabile.

L’ordinamento riserva dunque una risposta graduata ai comportamenti trasgressivi posti in essere dai condannati a pene «paradetentive», ricorrendo alla pena detentiva solo nelle ipotesi più gravi, per le quali il legislatore ha ritenuto di non dover consentire l’applicazione di pene sostitutive. L’oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale è dunque la rigidità di tale estremo esito sanzionatorio, anche in rapporto a quanto disposto dalla legge per la generalità delle pene detentive brevi.

3. – Il fulcro del ragionamento del rimettente poggia sulla abrogazione – ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003 – dell’art. 60 della legge n. 689 del 1981, che prevedeva una serie di esclusioni oggettive dall’applicabilità delle pene sostitutive, riguardanti specifici reati in esso elencati. Tale innovazione legislativa è avvenuta in occasione dell’introduzione nel codice di procedura penale del cosiddetto «patteggiamento allargato», con il chiaro intento di incentivare la scelta del rito premiale, favorendo la conclusione di accordi su pene detentive brevi, con la contestuale previsione che le stesse possano essere sostituite, quale che sia il reato in contestazione, ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981. La sopravvivenza di un’esclusione oggettiva per il solo reato di inosservanza delle pene inflitte dal giudice di pace avrebbe determinato, secondo il rimettente, una illegittimità costituzionale sopravvenuta, essendo irragionevole che tale ultimo reato sia soggetto ad un trattamento più rigoroso di quello riservato a fatti di indole analoga, ed anche più gravi, come l’evasione, per i quali invece le pene sostitutive sono ammesse.

3.1. – L’illegittimità costituzionale ravvisata dal rimettente sussisterebbe solo se vi fosse una identità di ratio tra le esclusioni oggettive previste dall’abrogato art. 60 della legge n. 689 del 1981 e la preclusione disposta dalla norma censurata. L’esame delle fattispecie in oggetto, e del contesto in cui le singole norme spiegano i loro effetti, induce tuttavia a concludere che dette norme non esprimano rationes sovrapponibili, con la conseguenza che l’evocazione di altre fattispecie penali, come termini di confronto ai fini di un giudizio di irragionevolezza, non vale a dimostrare la fondatezza della questione.

Giova innanzitutto notare che le sanzioni «paradetentive» non sono pene sostitutive, ma principali, e costituiscono l’effetto di un’apertura fiduciaria verso i condannati – assente invece quanto al reato di evasione, almeno nell’ipotesi della restrizione in carcere – che l’ordinamento ha voluto esprimere mediante la loro previsione come pene edittali. La misura domiciliare che, anche in via cautelare, sostituisce la detenzione intramuraria, implica una valutazione fiduciaria che il giudice può dare caso per caso, e che, nell’eventualità di trasgressioni, viene revocata, con conseguente ripristino della restrizione in carcere. Nell’ipotesi delle pene «paradetentive» – che consistono in partenza in misure limitative non carcerarie – il comportamento trasgressivo non può determinare, invece, alcun inasprimento del regime originario. L’effetto dissuasivo si connette, dunque, unicamente alla sanzione applicabile per la violazione degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità, e sarebbe fortemente ridotto se detta sanzione fosse attenuabile con la pena sostitutiva, in quanto il trasgressore verrebbe a trovarsi in una situazione molto vicina a quella iniziale.

Questa Corte – in tema di applicabilità delle sanzioni sostitutive – ha già messo in rilievo che l’elemento cui deve essere attribuito un ruolo centrale nel giudizio di eguaglianza, per giustificare o non il differente trattamento tra reati, non è l’entità della pena edittale, bensì l’efficacia deterrente ragionevolmente esercitabile dalla pena sostitutiva  in rapporto ai caratteri oggettivi della condotta (ordinanza n. 184 del 2001).

Nel caso di specie, l’efficacia deterrente di una pena, potenzialmente convertibile in un trattamento simile a quello proprio della sanzione «paradetentiva» inflitta ab initio, sarebbe minima, con la conseguenza di rendere scarsamente effettivo il sistema delle pene irrogabili dal giudice di pace, ispirato a particolare mitezza, sul presupposto di una fiducia che l’ordinamento accorda al reo.

3.2. – Va anche considerato, d’altra parte, che il massimo edittale della pena detentiva irrogabile per le ipotesi di trasgressione di cui al comma 1 dell’art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000 è la reclusione per un anno. È appena il caso di ricordare che la pena in concreto applicata può essere soggetta a sospensione condizionale e che non è precluso al condannato l’accesso a misure alternative in fase di esecuzione. Il necessario rigore «astratto» – volto ad evitare che le pene «paradetentive» siano considerate trascurabili – può quindi essere attenuato nei casi concreti, avendo riguardo alle caratteristiche specifiche della condotta, alle sue motivazioni ed alla personalità del soggetto.

In definitiva, la norma censurata non è irragionevole per i profili denunciati in quanto bilancia, con il divieto di conversione della pena per i trasgressori degli obblighi nascenti da pene «paradetentive», l’impossibilità di aggravare il trattamento concernente la sanzione originariamente irrogata, come invece è previsto riguardo alle fattispecie evocate in comparazione dal rimettente. Riguardo a queste ultime, il comportamento trasgressivo incontra  una doppia risposta sanzionatoria, il che giustifica la possibilità che per la seconda delle risposte in questione, cioè la pena irrogata per la trasgressione, possa eventualmente essere applicata una sanzione sostitutiva, secondo la disciplina generale dei reati che comportano pene detentive brevi.

Si tratta di sistemi diversi, ispirati a logiche in parte differenti e quindi non del tutto omologabili, come invece sarebbe necessario per rilevare una violazione dell’art. 3 Cost.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010.