Sentenza n. 113 del 2010

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SENTENZA N. 113

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-        Francesco               AMIRANTE                                     Presidente

-        Ugo                       DE SIERVO                                      Giudice

-        Paolo                     MADDALENA                                        ”

-        Alfio                     FINOCCHIARO                                      ”

-        Alfonso                 QUARANTA                                           ”

-        Franco                   GALLO                                                   ”

-        Luigi                     MAZZELLA                                            ”

-        Gaetano                 SILVESTRI                                             ”

-        Sabino                   CASSESE                                                ”

-        Maria Rita              SAULLE                                                  ”

-        Giuseppe                TESAURO                                               ”

-        Paolo Maria           NAPOLITANO                                        ”

-        Giuseppe                FRIGO                                                    ”

-        Alessandro            CRISCUOLO                                           ”

-        Paolo                     GROSSI                                                  ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso dal Tribunale di Roma - Collegio per i reati ministeriali nel procedimento penale a carico di A. P. S. ed altri con ordinanza del 27 febbraio 2009, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2009.

         Visto l’atto di costituzione di A. P. S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nell’udienza pubblica del 15 dicembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

         uditi l’avvocato Paola Balducci per A. P. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 27 febbraio 2009, il Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), «nella parte in cui prevede l’obbligo per il giudice per le indagini preliminari di richiedere alla Camera di appartenenza l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento».

         Il Collegio rimettente riferisce, in punto di fatto, che, a seguito delle intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte nell’ambito di una «complessa attività investigativa» svolta dalla Procura della Repubblica di Potenza nei confronti di due imprenditori, sarebbero emersi plurimi episodi di corruzione da parte di uno degli indagati nei confronti di un membro della Camera dei deputati, all’epoca Ministro dell’ambiente, con il coinvolgimento – «sia pure in misura minore» – anche di un senatore.

         Ai sensi dell’art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche agli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione), gli atti erano stati quindi trasmessi al Collegio rimettente, il quale – espletati alcuni atti di indagine – aveva tenuto l’udienza camerale prevista dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, con riferimento alle disposizioni dell’art. 268, comma 6, cod. proc. pen. (cosiddetta udienza stralcio, per la selezione, secondo le indicazioni fornite dalle parti, delle conversazioni intercettate da utilizzare, previa loro formale trascrizione in contraddittorio).

In base al citato art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, ove il giudice per le indagini preliminari ritenga necessario utilizzare le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, effettuate «nel corso di procedimenti riguardanti terzi», «decide con ordinanza e richiede, entro i dieci giorni successivi, l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate». Avendo ritenuta necessaria l’utilizzazione della maggior parte delle intercettazioni eseguite – tra cui quelle relative ai due parlamentari – il Collegio rimettente dovrebbe, dunque, richiedere alle Camere di appartenenza la relativa autorizzazione.

Il Collegio dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della previsione di tale obbligo sotto plurimi profili.

Quanto alla propria legittimazione a sollevare la questione, il rimettente rileva che – come riconosciuto dalla giurisprudenza tanto costituzionale che di legittimità – il collegio per i reati ministeriali cumula, nei procedimenti di sua competenza, le funzioni di pubblico ministero e di giudice per le indagini preliminari; mentre è la stessa norma censurata a prevedere che l’autorizzazione in discorso debba essere richiesta dal giudice per le indagini preliminari, confermando così che, in tale veste, il collegio per i reati ministeriali opera nell’esercizio di funzioni giurisdizionali.

Ciò premesso, il rimettente ricorda come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 390 del 2007, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui stabiliva che, in caso di diniego dell’autorizzazione da parte della Camera, la documentazione delle intercettazioni «casuali» di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento dovesse essere immediatamente distrutta e fosse comunque inutilizzabile anche nei confronti di soggetti diversi dal parlamentare.

Chiarendo i rapporti tra le ipotesi regolate dagli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003, la citata sentenza ha rilevato che la prima delle due disposizioni, nel richiedere l’autorizzazione preventiva della Camera per l’esecuzione delle intercettazioni nei confronti di membri del Parlamento, si riferisce alle intercettazioni sia «dirette» che «indirette»: tanto, cioè, alle intercettazioni effettuate su utenze o in luoghi riferibili ad un parlamentare, quanto a quelle che, pur operate su utenze o in luoghi nella disponibilità di terzi, mirano comunque a captare le comunicazioni del soggetto politico. Di contro, come si desume dalla clausola di riserva iniziale («fuori delle ipotesi previste dall’art. 4»), l’art. 6, nel prevedere un’autorizzazione successiva per l’utilizzazione delle intercettazioni, ha di mira le intercettazioni «casuali» o «fortuite»: ossia le captazioni avvenute occasionalmente nel corso di intercettazioni che hanno come destinataria una terza persona.

Sempre in base alla sentenza n. 390 del 2007, tale seconda disposizione, a differenza della prima, non trova copertura nell’art. 68, terzo comma, Cost., il quale – richiedendo l’autorizzazione della Camera per «sottoporre» i membri del Parlamento ad intercettazioni – ha riguardo al solo assenso preventivo, e non anche ad un controllo a posteriori sull’utilizzazione di un’intercettazione già eseguita. Nel sistema costituzionale, inoltre, le norme che prevedono immunità o prerogative a tutela della funzione parlamentare, in deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, vanno interpretate nel senso più aderente al testo normativo, non essendone consentita, per il loro carattere eccezionale, l’estensione a casi non espressamente regolati.

Escluso, dunque, che la norma impugnata sia costituzionalmente imposta, essa non potrebbe considerarsi neppure – secondo il Collegio rimettente – costituzionalmente consentita.

Come emergerebbe anche dal riferimento alla «tutela della riservatezza», presente nel comma 1 dello stesso art. 6, detta disposizione sarebbe infatti volta a salvaguardare la riservatezza del parlamentare, ponendolo al riparo dalla «disinvolta diffusione, anche a mezzo della stampa, dei contenuti dei colloqui intercettati».

Ad avviso del giudice a quo, tuttavia, la riservatezza del parlamentare non potrebbe ricevere una tutela rafforzata rispetto a quella di cui gode la generalità dei cittadini: giacché, al contrario, il rappresentante del popolo dovrebbe ritenersi semmai  maggiormente esposto a limitazioni della propria sfera privata, per consentire un più penetrante controllo da parte dell’opinione pubblica. Ma anche a non voler aderire a tale tesi, la protezione della riservatezza dell’uomo politico non potrebbe comunque eccedere quella degli altri consociati, posto che, per un verso – secondo quanto affermato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 17 luglio 2003, nella causa Craxi contro Italia) – l’uomo politico ha i medesimi diritti connessi alla privacy di ogni altro soggetto, quanto ai fatti estranei all’esercizio delle sue funzioni; e, per altro verso – come rimarcato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 390 del 2007 – il fenomeno patologico della diffusione sulla stampa del contenuto delle intercettazioni incide, di per sé, sulla generalità dei cittadini.

In conclusione, quindi, la norma censurata introdurrebbe una garanzia non solo non prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., ma anche ingiustificata rispetto al trattamento riservato alla generalità dei consociati e, come tale, lesiva del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

La protezione accordata alla riservatezza del parlamentare sarebbe, inoltre, di tale ampiezza da travolgere ogni interesse contrario, giungendo ad eliminare dal panorama processuale, tramite la sanzione di inutilizzabilità, una prova legittimamente formata e spesso decisiva: donde una concorrente lesione tanto del diritto di difesa della persona offesa (art. 24 Cost.), quanto del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), stante il possibile pregiudizio all’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti.

La questione risulterebbe, altresì, rilevante, trattandosi, nella specie, di intercettazioni «casuali», e non già «indirette». Il procedimento a quo era stato, infatti, originariamente instaurato nei confronti di un imprenditore lucano e solo all’esito delle prime indagini esteso ad altro imprenditore; indi, dalle intercettazioni disposte sulle utenze in uso al secondo era emerso – in modo del tutto fortuito – il coinvolgimento dei due parlamentari.

         2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

         Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe inammissibile – almeno per quanto attiene alle censure relative agli artt. 3 e 112 Cost. – in quanto formulata in modo contraddittorio e in termini ipotetici, dando, cioè, per scontato che le intercettazioni in esame forniscano contributi probatori decisivi e che l’autorizzazione alla loro utilizzazione venga negata dalla Camera: il che, al contrario, non sarebbe affatto certo.

         In ogni caso, la sentenza n. 390 del 2007 non avrebbe affatto indirizzato la risoluzione del dubbio di costituzionalità nella direzione indicata dal rimettente. Con essa, infatti, la Corte costituzionale ha evidenziato che solo «di regola» l’intercettazione fortuita non incide sul bene tutelato dall’art. 68, terzo comma, Cost.  (l’indipendenza del potere legislativo da quello giudiziario), lasciando così intendere che detta incidenza non può essere pregiudizialmente esclusa. Né, d’altra parte, potrebbe trascurarsi la circostanza che la distinzione – pure teoricamente chiarissima – tra intercettazioni «indirette» e «fortuite», tracciata dalla citata pronuncia, abbia, in concreto, confini estremamente labili.

Alla stregua di ciò, anche a ritenere che il vaglio successivo delle Camere sulle intercettazioni «occasionali» non sia costituzionalmente imposto, esso sarebbe comunque costituzionalmente consentito, ed anzi perfettamente coerente con il dettato ed i fini della norma costituzionale. Nessuna lesione risulterebbe pertanto ravvisabile, né in rapporto all’art. 3 Cost. – essendo la diversità di regime rispetto al comune cittadino giustificata dalle particolari esigenze di tutela, non tanto del parlamentare, quanto del potere legislativo – né in riferimento agli artt. 24 e 112 Cost.

         3. – Si è costituito, altresì, A. P. S., persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, eccependo l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, in quanto sollevata dal rimettente prima di aver richiesto alle Camere l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni, e dunque quando è ancora incerto il relativo diniego, dal quale soltanto scaturirebbe la preclusione all’impiego delle intercettazioni stesse.

Considerato in diritto

         1. – Il Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza ai fini dell’utilizzazione delle intercettazioni «casuali» di conversazioni o comunicazioni di un membro del Parlamento, anche quando si tratti di utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato (l’incostituzionalità con riguardo all’utilizzazione nei confronti di terzi essendo già stata dichiarata con la sentenza n. 390 del 2007).

         A parere del rimettente, la norma censurata introdurrebbe una garanzia a tutela della riservatezza dei parlamentati non solo non prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. – conformemente a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 390 del 2007 – ma anche ingiustificata rispetto al trattamento riservato alla generalità dei cittadini e, come tale, lesiva del principio di eguaglianza. Anche a non aderire alla tesi secondo cui il rappresentante del popolo sarebbe da considerare maggiormente esposto a limitazioni della riservatezza, per garantire un più penetrante controllo dell’opinione pubblica, risulterebbe infatti dirimente la considerazione che il fenomeno patologico che la norma mira a contrastare – ossia la «disinvolta diffusione, anche a mezzo della stampa, dei contenuti dei colloqui intercettati» – coinvolge, allo stesso modo, tutti i consociati.

La protezione accordata alla riservatezza del parlamentare sarebbe, inoltre, di tale ampiezza da travolgere ogni interesse contrario, comportando l’eliminazione dal panorama processuale, tramite la sanzione di inutilizzabilità, di una prova legittimamente formata e spesso decisiva. Di qui una concomitante lesione tanto del diritto di difesa della persona offesa (art. 24 Cost.), quanto del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), a causa del possibile pregiudizio all’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti.

         2. – Le eccezioni di inammissibilità della questione formulate dall’Avvocatura generale dello Stato e dalla parte privata non sono fondate.

         Quanto, infatti, all’eccepita inammissibilità per difetto di rilevanza o per carattere ipotetico del quesito, occorre osservare che – a differenza che nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 390 del 2007 – il Collegio rimettente non si duole della disciplina degli effetti del diniego di autorizzazione, ma della stessa previsione dell’obbligo di richiederla. Di conseguenza, il rimettente ha correttamente sollevato la questione prima di proporre la richiesta di autorizzazione: iniziativa, questa, che, comportando l’applicazione della norma censurata, avrebbe determinato l’esaurimento del potere decisorio del giudice a quo sul punto.

         L’ulteriore eccezione dell’Avvocatura dello Stato, inerente alla formulazione «in maniera incerta» e «contraddittoria» del quesito, risulta sostanzialmente immotivata, e comunque priva di riscontro nel tessuto argomentativo dell’ordinanza di rimessione.

         3. – La questione è, nondimeno, inammissibile per una diversa ragione.

         3.1. – In via preliminare, va osservato che il Collegio rimettente non prende affatto in considerazione la circostanza che, nei procedimenti per i reati ministeriali indicati all’art. 96 Cost. (quale è quello devoluto nella specie al Collegio medesimo), l’autorizzazione parlamentare (preventiva) all’esecuzione delle «intercettazioni telefoniche» – non solo nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ma anche degli «altri inquisiti» che siano membri del Parlamento – è autonomamente prevista da una norma costituzionale distinta dall’art. 68, terzo comma, Cost. (l’art. 10, comma 1, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1).

         3.2. – Peraltro, anche a voler ritenere che tale circostanza non escluda – allorché il Ministro abbia la qualità di membro del Parlamento e, in ogni caso, rispetto al parlamentare coindagato nel reato ministeriale – l’operatività della distinta guarentigia (autorizzazione “postuma”) prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 con riguardo alle intercettazioni «casuali», la rilevanza della questione resta comunque subordinata alla effettiva possibilità di qualificare come tali le captazioni foniche di cui si discute nel procedimento a quo.

Come chiarito, infatti, da questa Corte con la sentenza n. 390 del 2007, la disciplina dell’autorizzazione preventiva, delineata dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003 in attuazione dell’art. 68, terzo comma, Cost. (ma il discorso è riferibile, mutatis mutandis, anche all’art. 10, comma 1, della legge cost. n. 1 del 1989, caratterizzato da analoga formulazione), deve trovare applicazione «tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione»: dunque, non soltanto quando siano sottoposti ad intercettazione utenze o luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (intercettazioni «dirette»), ma anche quando lo siano utenze o luoghi di soggetti diversi, che possono tuttavia «presumersi frequentati dal parlamentare» (intercettazioni «indirette»). In altre parole, ciò che conta «non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto di indagine»: «se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi».

La disciplina dell’autorizzazione successiva, prevista dall’impugnato art. 6, si riferisce, per converso, unicamente alle intercettazioni «casuali» (o «fortuite»): rispetto alle quali, cioè – «proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare» – «l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza» (sentenza n. 390 del 2007).

3.3. – Il giudice a quo asserisce, in effetti, che nel caso di specie si sarebbe al cospetto di intercettazioni «casuali»: ma lo fa muovendo da una non condivisibile interpretazione di tale concetto.

Il Collegio rimettente mostra, cioè, di ritenere che l’originaria assenza dell’intento di captare le conversazioni di un parlamentare, in sede di sottoposizione a controllo di una determinata utenza nella disponibilità di terzi, valga a qualificare indefinitamente come «casuali» le intercettazioni di comunicazioni del membro del Parlamento operate su detta utenza (se non, addirittura, più ampiamente, nell’ambito di quel procedimento su utenze non del parlamentare, quali che siano). Il giudice a quo desume, infatti, la natura «casuale», e non «indiretta», delle intercettazioni in questione dalla circostanza che il procedimento a quo ha tratto origine da una «complessa attività investigativa», avente come originario obbiettivo un imprenditore lucano e poi estesa ad altro imprenditore; attività investigativa nel cui ambito erano state disposte intercettazioni telefoniche e ambientali, dalle quali soltanto sarebbe emerso il «coinvolgimento» dei due parlamentari – e soprattutto dell’allora Ministro dell’ambiente – in tutta una serie di episodi di corruzione a favore del secondo imprenditore, cui il Ministro risultava legato da «rapporti di amicizia e di interessenze illecite».

Da tale narrazione si desume che si tratta di una attività di captazione articolata e prolungata nel tempo: situazione nella quale la verifica dell’«occasionalità» delle intercettazioni deve farsi, di necessità, particolarmente stringente. Ove, infatti, nel corso dell’attività di intercettazione emergano, non soltanto rapporti di interlocuzione abituale tra il soggetto intercettato e il parlamentare, ma anche indizi di reità nei confronti di quest’ultimo, non si può trascurare l’eventualità che intervenga, nell’autorità giudiziaria, un mutamento di obbiettivi: nel senso che – in ragione anche dell’obbligo di perseguire gli autori dei reati – le ulteriori intercettazioni potrebbero risultare finalizzate, nelle strategie investigative dell’organo inquirente, a captare non più (soltanto) le comunicazioni del terzo titolare dell’utenza, ma (anche) quelle del suo interlocutore parlamentare, per accertarne le responsabilità penali. Quando ciò accadesse, ogni «casualità» verrebbe evidentemente meno: le successive captazioni delle comunicazioni del membro del Parlamento, lungi dal restare fortuite, diventerebbero “mirate” (e, con ciò, «indirette»), esigendo quindi l’autorizzazione preventiva della Camera, ai sensi dell’art. 4.

Di tale problema – verificare, cioè, se (ed eventualmente quando), nel caso di specie, i parlamentari interessati possano essere divenuti bersaglio indiretto delle attività di intercettazione – il giudice rimettente non si fa, per contro, carico: profilo per il quale la motivazione sulla rilevanza della questione e la descrizione della fattispecie concreta si presentano inadeguate.

3.4. – Non giova, al riguardo, obiettare che – ove pure, dopo la “comparsa” dei parlamentari, l’autorità giudiziaria abbia inteso proseguire le intercettazioni (anche) al fine di captare indirettamente le loro comunicazioni – la prima o le prime fra le intercettazioni delle conversazioni dei soggetti politici resterebbero comunque «casuali», onde, in relazione a esse, la questione risulterebbe in ogni caso rilevante.

Da un lato, infatti, una drastica riduzione del numero delle intercettazioni ricadenti nel regime dell’art. 6 – per essere tutte le altre radicalmente inutilizzabili, per il mancato rispetto dell’art. 4 – imporrebbe al rimettente di rivedere l’apprezzamento circa l’effettiva necessità di utilizzare le intercettazioni in discorso nell’ambito del procedimento principale: necessità che, ai sensi dello stesso art. 6, costituisce il presupposto affinché insorga l’obbligo di richiedere l’autorizzazione ivi prevista. Né varrebbe osservare, in contrario, che se una tale necessità è già stata affermata dal rimettente per l’insieme delle intercettazioni, lo è stata anche per le singole unità che lo compongono (ivi comprese, dunque, la prima o le prime, sul piano cronologico). Un conto, infatti, è che si discuta di un complesso di intercettazioni, che si “cementano” tra loro fornendo un complessivo quadro indiziario; altra cosa è che il problema riguardi pochissime, o addirittura una singola intercettazione fra le tante, la quale, isolatamente considerata, potrebbe risultare carente dei connotati che valgono a costituire la necessità di utilizzazione, in rapporto allo specifico provvedimento che il giudice a quo è chiamato ad adottare.

Al di là di ciò, peraltro, e ancora più a monte, il Collegio rimettente non afferma neppure, in modo espresso ed inequivoco, che il «coinvolgimento» dei parlamentari sia emerso, per la prima volta, a seguito della diretta e personale interlocuzione dei parlamentari medesimi con uno dei soggetti sottoposti a intercettazione – interlocuzione necessaria affinché divenga operante il regime della legge n. 140 del 2003 (sentenza n. 163 del 2005) – e non, piuttosto, a seguito del semplice riferimento ai parlamentari fatto dai soggetti intercettati nel corso di colloqui, eventualmente anche precedenti, con terzi. Di conseguenza, sulla base di quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, non è neppure certo che vi sia anche una sola intercettazione dei parlamentari qualificabile realmente come «casuale».

4. – Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata inammissibile per carenza di descrizione della fattispecie e, quindi, per difetto di motivazione sulla rilevanza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dal Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 marzo 2010.