Ordinanza n. 12 del 2010

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ORDINANZA N. 12

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco      AMIRANTE                                  Presidente

- Ugo              DE SIERVO                                    Giudice

- Paolo            MADDALENA                                     ”

- Alfio             FINOCCHIARO                                   ”

- Franco          GALLO                                                ”

- Luigi             MAZZELLA                                         ”

- Gaetano        SILVESTRI                                          ”

- Sabino          CASSESE                                            ”

- Maria Rita     SAULLE                                              ”

- Giuseppe       TESAURO                                           ”

- Paolo Maria   NAPOLITANO                                     ”

- Giuseppe       FRIGO                                                 ”

- Alessandro    CRISCUOLO                                       ”

- Paolo            GROSSI                                               ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 20 novembre 2006, n. 281, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza del 18 aprile 2009, iscritta al n. 242 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2009.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del 18 aprile 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 20 novembre 2006, n. 281;

che il rimettente è investito del procedimento incidentale promosso dal pubblico ministero, in applicazione delle norme censurate, per la distruzione di materiali pertinenti ad informazioni acquisite illegalmente;

che il giudizio principale concerne il rapporto associativo asseritamente instaurato tra soggetti in diverse condizioni professionali: dirigenti e dipendenti di società riferibili ad un gruppo operante nel settore della telefonia, dirigenti e dipendenti di agenzie di investigazione privata, appartenenti o già appartenenti a forze di polizia o a servizi di informazione e sicurezza;

che l’indicata associazione avrebbe avuto per scopo la raccolta illegale di informazioni riguardanti i più vari soggetti, con accesso a banche dati riservate mediante l’opera di pubblici funzionari corrotti o di dipendenti delle società di telefonia riferibili al gruppo citato;

che i dati in questione sarebbero stati acquisiti a fini di profitto dai responsabili delle agenzie di investigazione, in vista della remunerazione loro versata dai committenti delle attività illegali di indagine;

che le contestazioni del pubblico ministero, illustrate mediante citazione testuale nell’ordinanza di rimessione, attengono al delitto previsto dall’art. 416 del codice penale, ed inoltre prospettano fatti di rivelazione di notizie a divulgazione vietata (art. 262 cod. pen.), di corruzione per atto contrario ai doveri dell’ufficio (art. 319 cod. pen.), di corruzione di funzionari di Stati esteri (art. 322-bis cod. pen.), di rivelazione ed utilizzazione del segreto d’ufficio (art. 326 cod. pen.), di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-ter cod. pen.), di intercettazione o impedimento di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617-quater cod. pen.), di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) e di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.);

che inoltre – ai sensi degli artt. 21 e 25, comma 3, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300) – è stata contestata alle citate società di telefonia una responsabilità amministrativa derivante dai reati di corruzione ascritti a loro funzionari;

che il giudice rimettente rammenta come una prima procedura incidentale fosse stata promossa dal pubblico ministero, a fini di «sperimentazione» della disciplina introdotta con la riforma dell’art. 240 cod. proc. pen., in riferimento a quattro tra i dossier rinvenuti nel corso delle indagini, e come lo stesso rimettente, nell’ambito di tale procedura, con ordinanza del 30 marzo 2007, avesse sollevato questioni di legittimità in tutto analoghe a quelle odierne;

che, nelle more del giudizio di costituzionalità, il pubblico ministero ha promosso la procedura di distruzione con riferimento agli ulteriori dossier sequestrati nell’ambito della stessa indagine;

che – secondo quanto riferisce il giudice a quo – le vittime di presunte attività di illecita raccolta di informazioni, come tali interessate alla nuova procedura, sono 4419 (di cui 4287 persone fisiche e 132 persone giuridiche), e che le notizie sono veicolate da «diverse decine di migliaia di file […] in vario formato ed estensione», nonché da documenti cartacei raccolti in «83 faldoni», documenti che in genere rappresentano il «rapporto» predisposto per la committenza delle indagini illecite;

che il giudice rimettente – dopo avere osservato che la selezione in contraddittorio del materiale da distruggere, e la stessa sua eliminazione, comporterebbero «tempi di esecuzione e costi non prevedibili e comunque del tutto eccezionali» – riferisce che, in apertura dell’udienza celebrata il 24 marzo 2009, questioni di legittimità costituzionale della relativa disciplina sono state nuovamente prospettate dal pubblico ministero e da «numerose» tra le altre parti presenti;

che il Tribunale, in punto di rilevanza, osserva come il giudizio principale attenga in larga misura a reati commessi nell’acquisire illegalmente le informazioni cui si riferisce la procedura incidentale, e che dunque l’eliminazione del materiale sequestrato investirebbe il corpo del reato, con la conseguenza che in vari casi, a fronte della mancanza di fonti di prova alternative, verrebbe dispersa l’unica prova dei fatti illeciti in contestazione;

che il rimettente, al fine di motivare il proprio giudizio di non manifesta infondatezza della questione sollevata, ricostruisce i tratti essenziali del procedimento regolato dal testo novellato dell’art. 240 cod. proc. pen., ricordando che il pubblico ministero deve formulare richiesta di distruzione del materiale informativo entro quarantotto ore dall’acquisizione (comma 3), che il giudice deve fissare udienza camerale entro le successive quarantotto ore e non oltre il decimo giorno dalla richiesta (comma 4) e che l’eventuale provvedimento di accoglimento deve essere deliberato e pronunciato nell’udienza medesima, con contestuale ed immediata esecuzione (comma 5);

che, sebbene la sequenza debba essere avviata solo dopo l’accertamento effettivo e ragionevolmente sicuro della peculiare qualità del materiale da distruggere, l’intera struttura del procedimento documenta, a parere del rimettente, il carattere precoce e preliminare dell’adempimento, in armonia del resto con la ratio della previsione, che mira ad elidere in radice il rischio della pubblicazione di notizie riservate acquisite in modo illecito;

che le norme censurate, a giudizio del Tribunale, contrastano in primo luogo con il secondo comma dell’art. 24 Cost., data l’illegittima compressione che ne deriva circa il diritto di difesa del soggetto indagato nell’ambito del procedimento principale;

che infatti la procedura camerale regolata dall’art. 240 – anche attraverso il richiamo al modello generale dell’art. 127 cod. proc. pen. – non varrebbe ad assicurare garanzie adeguate rispetto alla funzione cui la procedura stessa è deputata, cioè la produzione di una prova, con valenza dibattimentale, della provenienza illecita delle informazioni recate dal documento destinato alla distruzione;

che la verifica dei fatti da parte del giudice, data anche la forzata celerità del procedimento, sarebbe attuabile solo mediante l’audizione delle parti presenti, e detta presenza sarebbe, d’altro canto, del tutto facoltativa (anche per quanto concerne i difensori e lo stesso pubblico ministero);

che, dunque, la precostituzione della prova d’accusa sarebbe rimessa ad un contraddittorio solo eventuale e comunque sommario, il che varrebbe ad integrare l’ulteriore violazione dell’art. 111, commi primo, secondo e quarto, Cost.;

che, secondo il rimettente, una volta orientato per la formazione anticipata della prova rispetto alla sede dibattimentale, il legislatore avrebbe dovuto anticipare anche le forme dell’accertamento dibattimentale, così come avviene per l’incidente probatorio, in guisa da garantire l’effettivo contraddittorio tra le parti e la pienezza del loro diritto alla prova;

che peraltro, sempre a parere del giudice a quo, il disposto costituzionale sarebbe comunque violato per effetto della disciplina che concerne il verbale cui resta rimessa – a norma del comma 1-bis dell’art. 512 cod. proc. pen. – la prova delle attività illecite sottese al materiale da distruggere;

che infatti è prescritto, dal comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen., che il giudice dia atto della condotta illecita riscontrata e delle relative modalità, ed elenchi le persone interessate, ma è precluso ogni riferimento al contenuto dei «documenti, supporti e atti», e dunque alle informazioni la cui acquisizione sarebbe stata illegittima;

che tale disciplina, secondo il rimettente, inibisce al giudice del merito una cognizione adeguata della prova e limita la possibilità per l’accusato di difendersi, ad esempio negando il carattere segreto della notizia raccolta o la sua acquisizione con modalità illecite, poiché il riscontro di tesi siffatte sarebbe irrimediabilmente precluso dopo la distruzione del supporto;

che inoltre, quand’anche fosse raggiunta la prova di colpevolezza, il giudice del merito sarebbe privo di informazioni essenziali per una puntuale quantificazione della pena, la quale non potrebbe prescindere dalla natura delle informazioni acquisite;

che dunque, secondo il Tribunale, «la procedura di distruzione non è solo una modalità di anticipazione nella formazione della prova – pure realizzata con modalità che non garantiscono il diritto di difesa – ma anche di anticipata eliminazione definitiva della prova, con diretto pregiudizio del diritto di difesa»;

che il rimettente prospetta una ulteriore violazione, in riferimento al primo comma dell’art. 24 Cost., relativamente alle implicazioni della disciplina censurata nei confronti della persona offesa dal reato culminato con l’illecita acquisizione delle informazioni;

che il diritto al risarcimento sarebbe infatti pregiudicato dalla dispersione della prova necessaria per documentare la sussistenza del danno e la sua rilevanza in termini quantitativi (rilevanza che dipende anche dalla natura dell’informazione carpita), con la conseguenza paradossale che subirebbe un pregiudizio proprio il diritto che la legge censurata mira a garantire;

che il giudice a quo prospetta, ancora, una violazione dell’art. 112 Cost., perché la distruzione della prova pregiudicherebbe l’esercizio del potere-dovere di perseguire, da parte del pubblico ministero, i reati finalizzati all’acquisizione illegittima delle relative informazioni;

che infatti, per le ragioni già indicate, il verbale «sostitutivo» potrebbe risultare insufficiente, e d’altra parte la distruzione del materiale sequestrato, imposta prima di ogni possibile sviluppo delle investigazioni preliminari, varrebbe a pregiudicare l’identificazione e la punizione di tutti i responsabili del fatto accertato;

che l’ordinanza di rimessione  – ove pure il parametro dell’art. 3 Cost. non risulta espressamente evocato – si chiude prospettando una «irragionevolezza di fondo della normativa in oggetto, in comparazione con i valori che essa vuole proteggere»: in sostanza, il legislatore non avrebbe compiuto un corretto bilanciamento tra le esigenze contrapposte, sacrificando completamente, in favore del diritto alla riservatezza, i valori connessi all’accertamento del fatto, tra i quali per altro primeggia proprio la tutela (in chiave sanzionatoria) del diritto di riservatezza della persona offesa.

Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto comma, e 112 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 20 novembre 2006, n. 281;

che il denunciato contrasto con le norme costituzionali deriverebbe dalla prescrizione che i supporti recanti dati illegalmente acquisiti a proposito di comunicazioni telefoniche o telematiche, o informazioni illegalmente raccolte, vengano distrutti in esito ad una udienza camerale celebrata dal giudice per le indagini preliminari, e che in proposito venga redatto un verbale ove si dia «atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti […] nonché della modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati», e tuttavia venga omesso qualsiasi «riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti ed atti»;

che tale disciplina violerebbe anzitutto gli art. 24, secondo comma, e 111, commi primo, secondo e quarto, Cost., poiché la procedura prescritta dalle norme censurate, pur essendo finalizzata alla distruzione del corpo del reato (o comunque d’una prova del reato medesimo), ed alla formazione di un verbale destinato alla lettura nella sede dibattimentale, si svolge in forma camerale, alla presenza solo facoltativa delle parti e dei difensori, senza possibilità di approfondimenti istruttori, e dunque con esercizio solo eventuale del diritto di difesa e del contraddittorio; inoltre, la distruzione dei supporti indicati, e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura delle informazioni illegalmente acquisite nel verbale destinato alla lettura dibattimentale, pregiudicherebbero il diritto di difesa ed il diritto alla prova del soggetto accusato dell’illecita raccolta, impedendo la verifica del carattere riservato delle informazioni e, comunque, della loro acquisizione mediante modalità illecite;

che le norme censurate violerebbero anche l’art. 24, primo comma, Cost., poiché la distruzione dei supporti sequestrati, e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura delle informazioni illegalmente acquisite nel verbale destinato alla lettura dibattimentale, pregiudicherebbero il diritto della persona offesa ad agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno subito;

che sussisterebbe infine contrasto con l’art. 112 Cost., in quanto la distruzione della prova del reato connesso all’illecita acquisizione dei dati ostacolerebbe l’efficace esercizio dell’azione penale in relazione al reato medesimo, anche con riferimento alla documentazione dei fattori che condizionano la quantificazione della pena;

che, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, con la sentenza n. 173 del 2009, questa Corte ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma cui si riferisce l’odierna censura, incidendo tanto sulle regole del procedimento incidentale, quanto sui contenuti del verbale «sostitutivo» destinato a provare il fatto contestato in luogo del materiale destinato alla distruzione;

che infatti, ed anzitutto, è stata affermata l’illegittimità dell’art. 240, commi 4 e 5, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede, per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401, commi 1 e 2, dello stesso codice, cioè delle norme concernenti la partecipazione degli interessati e la difesa tecnica nell’ambito dell’incidente probatorio;

che si è dichiarata, per altro verso, l’illegittimità dell’art. 240, comma 6, cod. proc. pen., «nella parte in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti e atti»;

che la pronuncia di questa Corte ha determinato una profonda modificazione del quadro normativo interessato dalle odierne censure (per inciso, proprio nel senso auspicato dall’attuale rimettente), di talché si rende necessaria, con ogni evidenza, la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché proceda ad una nuova valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il l'11 gennaio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 gennaio 2010.