Ordinanza n. 325 del 2009

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ORDINANZA N. 325

ANNO 2009

[ELG:COLLEGIO]

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Ugo                          DE SIERVO                        Presidente

-    Paolo                        MADDALENA                      Giudice

--   Alfio                        FINOCCHIARO                         “

-    Alfonso                    QUARANTA                              “

-    Franco                      GALLO                                      “

-    Luigi                        MAZZELLA                               “

-    Gaetano                    SILVESTRI                                “

-    Sabino                      CASSESE                                   “

-    Maria Rita                 SAULLE                                    “

-    Giuseppe                   TESAURO                                  “

-    Paolo Maria               NAPOLITANO                           “

-    Giuseppe                   FRIGO                                       “

-    Alessandro                CRISCUOLO                              “

-    Paolo                        GROSSI                                     “

[ELG:PREMESSA]

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 11 e 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), inserito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), promossi dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza del 28 ottobre 2008, dal Tribunale di Roma con ordinanza del 10 ottobre 2008, dal Tribunale di Rossano con ordinanza del 17 novembre 2008, dal Tribunale di Roma con ordinanza del 21 novembre 2008, dal Tribunale di Pistoia con ordinanza del 6 novembre 2008, dal Tribunale di Pesaro con ordinanza del 20 gennaio 2009, dal Tribunale di Tivoli con ordinanza del 4 dicembre 2008 e dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza del 31 ottobre 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 59, 60, 76, 82, 83, 99, 127 e 145 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9, 10, 11, 12, 14, 18 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2009.

         Visti gli atti di costituzione di Poste Italiane s.p.a., di D.G.D., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

[ELG:FATTO]

[ELG:DIRITTO]

Ritenuto che nel corso del giudizio di appello proposto dalla COIN s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 520 pubblicata il 17 febbraio 2006, che aveva dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con R.M. in data 18 febbraio 2002, per violazione dell’art. 4-bis del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES) – come aggiunto dall’art. 21, comma 1-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, condannando la predetta società a riammettere in servizio la ricorrente e a pagare le retribuzioni maturate a decorrere dal 21 settembre 2004, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, la Corte di appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 4-bis, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui dispone che, per i giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, in caso di violazione degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro secondo predeterminati criteri di calcolo dell’indennità (R.O. n. 59 del 2009);

che, secondo il giudice a quo la norma censurata contrasterebbe sia con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., poiché prevede una tutela attenuata per i lavoratori a termine che siano parti in un giudizio in corso, rispetto a tutti gli altri lavoratori a tempo determinato, sia con l’art. 24 Cost., perché un intervento legislativo che, come nella specie, riguarda solo un certo tipo di controversie pendenti ad una certa data sarebbe privo del carattere di astrattezza proprio della legislazione ed assumerebbe carattere provvedimentale generale con riguardo ai giudizi in corso, invadendo così l’area riservata al potere giudiziario. Con la conseguenza che ne sarebbero pregiudicati i soli ricorrenti che, per ragioni assolutamente casuali, abbiano introdotto la causa prima dell’entrata in vigore della legge censurata e la stessa non sia stata definita prima della medesima data;

che, secondo la Corte rimettente la norma in questione irragionevolmente distingue tra coloro che per motivi indipendenti dalla loro volontà (attività del sindacato o del legale, durata dei processi) hanno ottenuto una sentenza non più impugnabile e coloro che hanno ancora un giudizio in corso, pur avendo stipulato un contratto a termine in pari data con lo stesso datore di lavoro e nello stesso periodo; e, ancora, tra coloro che hanno depositato il ricorso introduttivo del giudizio prima o dopo l’entrata in vigore della legge;

che a giudizio del rimettente l’art. 4-bis si pone altresì in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. e, per il suo tramite, con l’art. 6, par. 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale, nell’affermare il diritto al “giusto processo” è stato interpretato dalla Corte Europea di Strasburgo nel senso che “il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo sanciti dal predetto art. 6 della Convenzione impedisce qualsiasi ingerenza del legislatore – salvo che per impellenti motivi di interesse generale – con l’amministrazione della giustizia volta ad influenzare le decisioni giudiziarie di una controversia;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’irrilevanza della questione in quanto il giudice a quo non si è pronunciato sulla illegittimità del termine, prima di affrontare la norma censurata;

che, secondo la difesa erariale la norma censurata si giustifica per l’enorme dilatazione del contenzioso diretto a contestare la validità dell’apposizione del termine ai contratti di lavoro, con possibile vanificazione, a causa dell’incertezza delle conseguenze economiche delle dichiarazioni di invalidità delle clausole appositive del termine, delle finalità della riforma della disciplina del contratto a tempo determinato introdotta dal d.lgs. n. 368 del 2001;

che nel corso del giudizio promosso da I.C. contro la Poste Italiane s.p.a. perché fosse dichiarata l’invalidità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto tra le parti, il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost., nonché dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 101, 102, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. nella parte in cui:

a) l’art. 1 dispone che è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro, ma non è richiesta l’indicazione del nome del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione, come era invece previsto dall’art. 1, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 1962, n. 230;

b) l’art. 11 abroga quest’ultima legge;

c) l’art. 4-bis dispone che per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 368 del 2001, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4 della medesima legge il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro secondo predeterminati criteri di calcolo dell’indennità (r.o. n. 60 del 2009);

che, ad avviso del rimettente, i vizi di legittimità costituzionale sussistono, quanto agli artt. 1 e 11 cit., nell’arretramento della tutela del lavoratore almeno per le esigenze sostitutive, poiché, rispetto alla disciplina previgente, l’art. 1 non impone al datore di lavoro di indicare il nome del lavoratore sostituito né della causa della sostituzione;

che, quanto all’art. 4-bis il vizio sussisterebbe nell’aver sostituito alla tutela risarcitoria reale una tutela di rango inferiore per i soli giudizi in corso;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in quanto, riguardo agli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs n. 368 del 2001, il giudice rimettente non avrebbe adeguatamente motivato la rilevanza della questione, avendo sollevato la questione senza aver preventivamente valutato compiutamente la fondatezza in fatto della domanda proprio sotto il profilo decisivo della questione sottopostagli;

che per la difesa erariale ulteriore motivo di irrilevanza si coglie in relazione all’affermazione che nella fattispecie si verterebbe in un caso in cui, accertata l’illegittimità del termine, si dovrebbe pronunciare la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato;

che tuttavia uno dei presupposti di tale conversione risiede nella circostanza che le parti non abbiano, nemmeno implicitamente manifestato un mutuo consenso a favore della risoluzione del rapporto, ipotesi questa, sostenibile nel caso in esame atteso che il lavoro venne prestato per poco più di tre mesi (dal 1° ottobre 2004 al 15 gennaio 2005) mentre la domanda venne proposta più di dieci mesi dopo;

che secondo la difesa erariale non è configurabile alcuna difformità degli artt. 1 e 11 dai criteri di delega che la legge n. 422 del 2000 ha tratto direttamente dalla citata direttiva;

che infondata è altresì – a giudizio dell’interveniente – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis per i motivi già esposti nell’atto di intervento nel giudizio promosso con l’ordinanza r.o. n. 59 del 2009;

ritenuto altresì che l’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 è stato censurato anche dal Tribunale di Rossano, con ordinanza n. 76 del 2009, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 4, 24, 35, 41, 43, 53, 101, 102, 104 e 111, primo comma, Cost., per gli stessi motivi già esposti dalle ordinanze nn. 59 e 60 del 2009);

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri – assistito e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato - il quale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto vari aspetti, coincidenti con quelli illustrati nell’atto di intervento nel giudizio promosso con l’ordinanza  r.o. n. 60 del 2009;

che con cinque ordinanze (r.o. nn. 82, 83, 99, 127 e 145 del 2009) di identico contenuto, pronunziate in altrettanti giudizi promossi contro la RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a., la soc. Mercurio Tech s.r.l. e la Poste Italiane s.p.a., aventi ad oggetto la legittimità dell’apposizione del termine ai contratti di lavoro stipulati dai ricorrenti, i Tribunali di Roma, Pistoia, Pesaro, Tivoli e la Corte di Appello di Milano hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis più volte citato, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, 11 e 117 cost., negli stessi termini già esposti dalla Corte di Appello di Milano, con ordinanza n. 59 del 2009;

che nel giudizio di cui alle ordinanze nn. 82, 83 e 99 del 2009, si sono costituite, rispettivamente, la RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a., la società Mercurio Tech s.r.l. e la società Poste Italiane s.p.a., contestando le pretese del ricorrente e chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata;

che secondo le società convenute dall’intero testo del d.lgs. n. 368 del 2001 emergerebbe che il legislatore nazionale, ha compiutamente realizzato le finalità della direttiva 1999/70/CE;

che nel giudizio promosso dal Tribunale di Tivoli con ordinanza r.o. n. 127 del 2009, si è costituito il ricorrente-attore nel giudizio principale, rilevando che l’art. 4-bis sarebbe fonte di discriminazioni fra i lavoratori, a seconda che i datori di lavoro siano o meno già costituiti nelle cause pendenti; infatti, solamente in caso di contumacia della controparte i lavoratori potrebbero rinunziare agli atti del giudizio - non abbisognando, ai sensi dell’art. 306 del codice di procedura civile, dell’accettazione del datore di lavoro convenuto - e ripresentare la medesima domanda giudiziale, sottraendosi così alla disciplina penalizzante introdotta dall’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001;

che tali discriminazioni non potrebbero trovare giustificazione nell’esigenza di regolare una situazione di "assoluta necessità" quale quella positivamente apprezzata dalla sentenza n. 419 del 2000 di questa Corte;

che in tutti e cinque i giudizi è intervenuto, il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell’Avvocatura Generale, contestando l’ammissibilità, nonché la fondatezza della questione, riproponendo le motivazioni già esposte negli altri giudizi indicati (cfr. r.o. nn. 60 del 2009, 76 del 2009, 82 e 83 del 2009).

Considerato che con separate ordinanze (r.o. nn. 59, 60, 76, 82, 83, 99, 127 e 145 del 2009), la Corte di appello di Milano, ed i Tribunali di Roma, Rossano, Pistoia, Pesaro  e Tivoli hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 35, 41, 43, 53, 76, 77, 101, 102, 104, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis della legge 6 agosto 2008, n. 133 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria);

che la sostanziale identità delle questioni proposte e l’appartenenza di tutte le norme censurate allo stesso testo normativo rendono opportuna la riunione dei giudizi al fine della loro decisione unitaria;

che il Tribunale di Roma (r.o. n. 60 del  2009) dubita, anche, della legittimità degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost.;

che la prima delle predette norme - come modificata dall’art. 21, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 - stabilisce che «È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro»;

che l’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, invece, dispone, al comma 1, l’abrogazione dell’intera legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), la quale, all’art. 1, secondo comma, lettera b), consentiva l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato «quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione»;

che ad avviso del rimettente, il combinato disposto delle norme censurate, nell’abolire l’onere dell’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito quale condizione di liceità dell’assunzione a tempo determinato di altro dipendente, contenuto nella legge n. 230 del 1962, violerebbe gli artt. 76 e 77 Cost., poiché la legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee - Legge comunitaria 2000), in esecuzione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 368 del 2001, attribuiva al Governo esclusivamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, la quale non conteneva alcuna disposizione in tema di presupposti per l’apposizione della clausola del termine;

che, in particolare, sussisterebbe contrasto con l’art. 76 Cost., poiché la menzionata legge n. 422 del 2000 non prevedeva princìpi direttivi ulteriori rispetto all’attuazione della direttiva 1999/70/CE la quale, alla clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro da essa recepito, dispone che l’applicazione dell’accordo non può costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ ambito coperto dall’accordo stesso, mentre le disposizioni censurate, eliminando la necessità dell’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, determinerebbero un arretramento della tutela garantita ai lavoratori dal precedente regime;

che, ad avviso del Tribunale di Roma, sarebbe leso anche l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario;

che la questione è gia stata ritenuta infondata da questa Corte con la sentenza n 214 del 2009, dalla cui motivazione non v’è ragione di discostarsi;

che, infatti, l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, dopo aver stabilito, al comma 1, che l’apposizione del termine al contratto di lavoro è consentita a fronte di ragioni di carattere (oltre che tecnico, produttivo e organizzativo, anche) sostitutivo, aggiunge, al comma 2, che «L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1»;

che l’onere di specificazione previsto da quest’ultima disposizione impone che, tutte le volte in cui l’assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, siano indicate le ragioni della sostituzione di uno o più lavoratori, il che implica necessariamente anche l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori da sostituire;

che soltanto in questa maniera, è assicurata la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto;

che non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, non sussiste la denunciata violazione dell’art. 77 della Costituzione;

che l’art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega n. 422 del 2000 consentiva al Governo di apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare e ciò al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti;

che in base a tale principio direttivo, il Governo era autorizzato a riprodurre, nel decreto legislativo di attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti già contenuti nella previgente disciplina del settore interessato dalla direttiva medesima (contratto di lavoro a tempo determinato). Infatti, inserendo in un unico testo normativo sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti che, attenendo alla medesima fattispecie contrattuale, erano alle prime intimamente connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega;

che non sussiste neppure la denunciata lesione dell’art. 76 Cost., poiché le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina previgente, non determinano alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si pongono neanche in contrasto con la clausola n. 8.3 dell’Accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori;

che l’insussistenza, sotto il profilo in esame, di un contrasto con la normativa comunitaria, comporta l’infondatezza della censura formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., il quale impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;

che con otto distinte ordinanze, la Corte di appello di Milano (r.o. nn. 59 e 145 del 2009) ed i Tribunali di Roma (r.o. nn. 60 e 82 del 2009), Rossano (r.o. n. 76 del 2009), Pistoia (r.o. n. 83 del 2009),  Pesaro (r.o. n. 99 del 2009), e Tivoli (r.o. n. 127 del 2009) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008;

che secondo la norma censurata «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), e successive modificazioni»;

che l’art. 4-bis è stato già giudicato illegittimo costituzionalmente da questa Corte con sentenza n. 214 del 2009, sicché va dichiarata la manifesta inammissibilità di tutte le questioni sopra indicate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

[ELG:DISPOSITIVO]

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1)   dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’ UNICE, dal CEEP e dal CES), sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza r.o. n. 60 del 2009 indicata in epigrafe;

2)   dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del medesimo d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 35, 41, 43, 53, 101, 102, 104, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Milano e dai Tribunali di Roma, Rossano, Pistoia, Pesaro e Tivoli, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2009.

[ELG:FIRME]

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2009.