Sentenza n. 426 del 2008

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SENTENZA N. 426

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Giovanni Maria         FLICK                                Presidente

-    Francesco                AMIRANTE                          Giudice

-    Ugo                        DE SIERVO                             "

-    Paolo                      MADDALENA                          "

-    Alfio                       FINOCCHIARO                       "

-    Alfonso                   QUARANTA                            "

-    Franco                    GALLO                                    "

-    Luigi                       MAZZELLA                             "

-    Gaetano                   SILVESTRI                              "

-    Sabino                     CASSESE                                "

-    Maria Rita               SAULLE                                  "

-    Giuseppe                 TESAURO                                "

-    Paolo Maria             NAPOLITANO                         "

-    Giuseppe                 FRIGO                                     "

-    Alessandro               CRISCUOLO                           "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promossi con due ordinanze del 5 aprile 2006 dal Tribunale di Teramo, nei procedimenti penali a carico di A. C., iscritte ai nn. 420 e 422 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 19 novembre 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

 

 

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Teramo, con due ordinanze di identico tenore, emesse il 5 aprile 2006 nell’ambito di distinti procedimenti penali pendenti a carico del medesimo imputato per reati di ingiuria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui stabilisce che l’imputato «può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno».

1.1. – Il giudice a quo riferisce di aver ricevuto gli atti relativi ai detti procedimenti dalla Corte di cassazione, la quale – investita, ai sensi dell’art. 37, comma 1, del d. lgs. n. 274 del 2000, dei ricorsi proposti dall’imputato avverso due sentenze con cui il Giudice di pace di Teramo lo aveva condannato ad una pena pecuniaria ed al risarcimento del danno in favore della parte civile – ha qualificato entrambi i gravami come appelli, pure in mancanza di ogni contestazione in ordine ai capi riguardanti l’azione civile, in virtù dell’effetto estensivo dell’impugnazione contro la condanna penale previsto dall’art. 574, comma 4, del codice di procedura penale.

Il rimettente, competente per i giudizi d’appello, si ritiene vincolato dalle pronunce della Corte di cassazione e, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale della norma che conferisce all’imputato il potere di appellare le sentenze del giudice di pace che applicano la pena pecuniaria, anche se solo in presenza di una pronuncia sul danno.

A suo parere, infatti, l’art. 37, comma 1, del d. lgs. n. 274 del 2000 violerebbe innanzitutto l’art. 76 Cost., in relazione all’art. 17, comma 1, lettera n), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale), in quanto la delega contenuta in tale ultima norma espressamente sottrae le sentenze «che applicano la sola pena pecuniaria» alla previsione della appellabilità delle sentenze del giudice di pace.

A proposito della delega legislativa, il giudice a quo richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale sulla possibilità, per il legislatore delegato, di emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo delle scelte espresse dal legislatore delegante e sulla necessità di tenere conto, ai fini del giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante, delle finalità sottese a quest’ultima (vengono citate la sentenza n. 308 del 2002 e l’ordinanza n. 228 del 2005).

Nella specie, la scelta del legislatore delegato per l’ampliamento del regime di appellabilità delle sentenze del giudice di pace, siccome operata con riguardo all’evenienza di una qualsiasi condanna al risarcimento del danno, anche generica o «per quantificazioni del tutto irrisorie o comunque modeste», non sarebbe sorretta da una valida ragione e, dunque, non risulterebbe coerente con le finalità di massima semplificazione e deflattive perseguite dalla delega, quali desumibili dai lavori preparatori relativi alla legge n. 468 del 1999.

La censurata disciplina, invero, avrebbe «travalicato gli intenti che l’hanno ispirata», riconducibili, secondo quanto il giudice a quo evince dall’esame della relazione allo schema di decreto delegato, alla preoccupazione «di possibili liquidazioni del danno da parte del giudice di pace oltre i propri limiti di competenza per valore in sede civile».

Inoltre, l’art. 37, comma 1, del d. lgs. n. 274 del 2000 contrasterebbe con l’art. 3 Cost., determinando un’ingiustificata disparità di trattamento «rispetto alle condanne alla pena dell’ammenda irrogate dal giudice ordinario e non appellabili ex art. 593, comma 3, cod. proc. pen. anche in presenza di una condanna risarcitoria di qualunque natura ed entità».

La questione di costituzionalità sarebbe rilevante, in quanto, ove accolta, ciascuno dei ricorsi proposti dall’imputato «dovrebbe essere nuovamente trasmesso alla Corte di cassazione».

2. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

A parere della difesa erariale, il denunciato vizio di eccesso di delega andrebbe escluso alla luce delle argomentazioni enunciate nella relazione al d. lgs. n. 274 del 2000, per le quali «lo specifico criterio di delega, che fa riferimento alla non appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria, può ben essere letto nel senso di sottrarre alla garanzia del secondo grado di merito le pronunce che rechino condanna alla sola pena pecuniaria, e non anche quelle nelle quali sia statuita una ulteriore condanna (sia pur relativa all’azione civile)».

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Teramo, con due distinte ordinanze, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui prevede che l’imputato «può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno».

Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata non sarebbe conforme all’art. 76 della Costituzione, poiché avrebbe violato il criterio di delega contenuto nell’art. 17, comma 1, lettera n), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale), il quale prevede l’inappellabilità delle sentenze del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria.

Essa, inoltre, sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, poiché avrebbe ingiustificatamente differenziato il regime di impugnazione delle sentenze del giudice di pace che applicano la pena pecuniaria rispetto a quello stabilito dall’art. 593, comma 3, del codice di procedura penale per le sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda pronunciate dal tribunale, comunque inappellabili.

2. – I giudizi, avendo ad oggetto la medesima norma, denunciata in riferimento agli stessi parametri e con argomentazioni identiche, vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia.

3. – La questione non è fondata.

3.1. – Quanto alla censura mossa in relazione all’art. 76 Cost., va rilevato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato (sentenza n. 98 del 2008; ordinanze n. 213 del 2005 e n. 490 del 2000).

Infatti, la determinazione dei principi e criteri direttivi non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, essendo escluso che le funzioni del legislatore delegato siano limitate ad una mera scansione linguistica delle previsioni contenute nella delega. Ai fini del giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante, detti principi e criteri direttivi devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega (sentenze n. 98 del 2008, n. 341 del 2007, n. 174 del 2005, n. 308 del 2002).

In tale prospettiva deve essere considerato l’art. 17, comma 1, della legge n. 468 del 1999, che ha delegato il Governo a disciplinare il procedimento penale davanti al giudice di pace, «con le massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza dello stesso giudice», prevedendo, in particolare, alla lettera n), la «appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria».

Dall’esame del testo della norma emerge che il legislatore delegante ha inteso attribuire una portata generale alla previsione dell’appellabilità delle sentenze del giudice di pace, configurando come eccezioni, dunque di stretta interpretazione, le ipotesi di loro inappellabilità.

In un simile contesto, l’espressione «quelle che applicano la sola pena pecuniaria», utilizzata dal legislatore delegante ai fini dell’individuazione di una delle tassative ipotesi sottratte alla regola della proponibilità dell’appello, è riferibile alle sentenze che rechino esclusivamente condanna alla pena pecuniaria, e non anche alle sentenze in cui a questa condanna si accompagni quella al risarcimento del danno.

Una tale opzione ermeneutica è coerente con la ratio dell’art. 17, comma 1, lettera n), della legge n. 468 del 1999, la cui formulazione denuncia il contemperamento di due esigenze contrapposte: quella di garantire comunque un secondo grado di giudizio avverso le sentenze del giudice di pace e quella di soddisfare, mediante limitazioni oggettive del diritto di appello delle parti, il canone della semplificazione dell’iter processuale che, in base ai lavori preparatori, si riverbera «anche sul regime delle impugnazioni, sotto pena di trasferire sui tribunali competenti per l’appello una massa di reati sanzionati con pene di modestissima entità» (Atti Senato, XIII legislatura, stampati n. 3160 e n. 1247- ter A).

Anche la disposizione denunciata si muove in questa logica di bilanciamento tra esigenze opposte, poiché, come si evince dalla relazione ministeriale al decreto legislativo, essa ha tratto origine dalla preoccupazione, espressa dalla Commissione giustizia del Senato in sede di parere allo schema di decreto e recepita dal legislatore delegato, in ordine al grado di afflittività delle pronunce sul danno, possibili «per somme anche notevolmente superiori all’ordinario limite di competenza per valore del giudice di pace civile».

D’altra parte, l’individuazione della condanna al risarcimento del danno quale elemento discriminante del regime di impugnazione delle sentenze in questione è coerente con il complessivo impianto del rito penale del giudice di pace delineato dalla legge di delegazione e, in sua attuazione, dal decreto delegato, nel quale è previsto che le condotte riparatorie post delictum determinino l’estinzione del reato (art. 17, comma 1, lettera h), della legge n. 468 del 1999; art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000), ove «idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione […] e di prevenzione», assolvendo, per certi versi, ad una funzione sostitutiva della pena.

La scelta operata dal legislatore delegato, dunque, non solo è consentita dalla formulazione letterale del principio direttivo recato dall’art. 17, comma 1, lettera n), della legge n. 468 del 1999, ma risulta altresì rispettosa degli indirizzi generali della delega in materia di procedimento penale davanti al giudice di pace.

3.2. – Neppure è ravvisabile la dedotta violazione del principio di eguaglianza, per il diverso trattamento che sarebbe riservato a fattispecie identiche o similari, avuto riguardo alla regola dell’inappellabilità sancita dall’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 13 della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), per le sentenze di condanna alla pena dell’ammenda pronunciate dal tribunale.

Invero, il procedimento penale davanti al giudice di pace configura un modello di giustizia non comparabile con quello davanti al tribunale, in ragione dei caratteri peculiari che esso presenta (ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005). In particolare, il d. lgs. n. 274 del 2000 devolve alla competenza del giudice di pace reati espressivi di conflitti a carattere interpersonale, rispetto ai quali, come già rilevato, in correlazione con la fondamentale finalità conciliativa, è contemplata l’estinzione conseguente a condotte riparatorie ed è definito un autonomo apparato sanzionatorio, in cui la previsione edittale concerne invariabilmente la pena pecuniaria, in alternativa alla quale possono essere discrezionalmente irrogate, in taluni casi, pene «paradetentive» (sentenza n. 2 del 2008).

A tali peculiarità corrisponde non irragionevolmente una asimmetria nel regime di impugnazione delle sentenze, asimmetria che, d’altra parte, permarrebbe in caso di accoglimento della questione di costituzionalità, dato che l’intervento caducatorio invocato dal rimettente determinerebbe l’esclusione del secondo giudizio di merito per tutte le sentenze del giudice di pace che applicano la pena pecuniaria, e non solo per le sentenze che applicano la pena dell’ammenda, laddove l’inappellabilità sancita dall’art. 593, comma 3, cod. proc. pen. riguarda unicamente queste ultime.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dal Tribunale di Teramo con le ordinanze indicate in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2008.