Ordinanza n. 384 del 2008

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ORDINANZA N. 384

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Giovanni Maria   FLICK                                     Presidente

-  Francesco          AMIRANTE                                Giudice

-  Ugo                   DE SIERVO                                    ”

-  Alfio                  FINOCCHIARO                              ”

-  Alfonso              QUARANTA                                   ”

-  Franco               GALLO                                           ”

-  Luigi                  MAZZELLA                                    ”

-  Gaetano             SILVESTRI                                     ”

-  Sabino               CASSESE                                       ”

-  Maria Rita          SAULLE                                         ”

-  Giuseppe            TESAURO                                       ”

-  Paolo Maria       NAPOLITANO                                ”

-  Giuseppe            FRIGO                                            ”

 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 31 maggio 2006 dal Giudice dell’udienza  preliminare del Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di C. G., iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Udito nella camera di consiglio del 5 novembre 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

Ritenuto che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste ha sollevato – in riferimento all’articolo 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui non esclude l’applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ove sia stato disposto o ammesso il giudizio abbreviato»;

che il remittente premette, in punto di fatto, di essere chiamato a giudicare – in sede di rito abbreviato, la cui celebrazione veniva disposta all’udienza del 20 settembre 2005 – una fattispecie di reato prevista dagli artt. 81, secondo comma, 609-quater, 609-ter, numero 5) (in riferimento, quoad poenam, all’art. 521), e 61, numero 5), del codice penale, asseritamente posta in essere dall’imputato, in danno della figlia minore, in un periodo di tempo compreso tra una data anteriore al 1990 ed il 26 gennaio 1995;

che, sempre in via preliminare, il giudice a quo deduce che in forza delle «nuove disposizioni sulla prescrizione del reato», introdotte dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, il delitto oggetto del giudizio principale, essendo ormai assoggettato ad un termine prescrizionale di sei anni ed otto mesi (e non più di dieci anni), deve ritenersi estinto, con conseguente necessità di pronunciare una sentenza di non doversi procedere;

che ai sensi dell’art. 10, comma 3, della stessa legge – si rileva nell’ordinanza di rimessione – «la modificazione in melius per l’imputato» della disciplina relativa alla prescrizione del reato è priva di effetto soltanto «se al momento dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 è già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento, ovvero se si verte in un giudizio di impugnazione»;

che, pertanto, secondo il remittente, «le linee che demarcano l’efficacia delle nuove norme», attribuendo rilievo all’espletamento dell’incombente di cui all’art. 492 del codice di procedura penale, ovvero all’eventuale pendenza delle fasi d’impugnazione del processo penale, «non toccano il presente giudizio a quo, trattandosi di giudizio abbreviato»;

che, difatti, «la lampante peculiarità strutturale» che caratterizza quest’ultimo, risultando esso privo di «una fase di istruzione dibattimentale in contraddittorio» e basato su di una «mutazione funzionale del materiale investigativo» (materiale assunto, nonostante «la sua provenienza unilaterale», quale «supporto per una decisione sulla responsabilità dell’imputato»), non consente «di parlare correttamente di “apertura del dibattimento” in seno al giudizio abbreviato»;

che di conseguenza, per tale tipo di giudizio, troverebbe sicura applicazione l’incipit del citato art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, secondo cui, qualora, «per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge»;

che il remittente – dopo avere motivato, con gli argomenti appena illustrati, la rilevanza della sollevata questione di costituzionalità (diretta, in definitiva, ad estendere l’area della deroga che il censurato art. 10, comma 3, ha introdotto rispetto alla regola generale dell’efficacia retroattiva dell’intervento in mitius, con richiesta di includervi anche i giudizi abbreviati già pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005) – censura l’irragionevolezza della scelta del legislatore di dare vita ad un diritto intertemporale che «accomuna tutte le forme di “giudizio sull’accusa”, con l’unica eccezione del giudizio abbreviato»;

che egli muove, difatti, dal presupposto che la «ratio della riserva all’applicazione immediata dei nuovi termini prescrizionali consiste nel realizzare un equilibrio tra l’interesse degli accusati ad avvantaggiarsi immediatamente della nuova disciplina favorevole e l’interesse alla conservazione dell’attività di indagine e processuale già espletata al momento di entrata in vigore della legge», e ciò «al fine di salvaguardare la funzione di accertamento dei reati e, in ultima istanza, la tutela dei beni fondamentali che la repressione penale è volta a realizzare»;

che tale equilibrio, tuttavia, non risulterebbe garantito nel caso dei reati oggetto di giudizio abbreviato, il cui trattamento differenziato non può ritenersi giustificato in ragione delle esigenze di economia processuale che connotano tale procedimento speciale, atteso che le medesime esigenze hanno un’incidenza «ben più marcata» – osserva sempre il remittente – «in altri meccanismi processuali», quali, in particolare, il rito direttissimo (caratterizzato da «un’istruzione rapida e concludente, giusta la pregressa confessione o il fatto di aver colto in flagranza il reo»; è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 1991), il giudizio immediato (giacché, in questo caso, «il carattere di “evidenza” delle prove raccolte ante iudicium lascia preconizzare un rapido e pieno riscontro in dibattimento»), il processo a citazione diretta innanzi al tribunale in composizione monocratica (ispirato alla massima semplificazione della forme; sentenza n. 175 del 1992) ed, infine, quello innanzi al giudice di pace;

che, d’altra parte, l’applicazione alle fattispecie oggetto di giudizio abbreviato della nuova (e più favorevole per l’imputato) disciplina sulla prescrizione del reato neppure potrebbe essere giustificata – osserva sempre il giudice a quo – «ove si volesse dare rilevanza alla gravità dei reati che vengono in considerazione», dal momento che non si comprende «perché vengano fatti salvi i termini prescrizionali rispetto a reati bagatellari (com’è tipico ove si proceda con la citazione diretta davanti al giudice di pace)», e non invece qualora ricorrano fattispecie criminose – quali possono essere quelle oggetto del procedimento di cui all’art. 438 cod. proc. pen. (e quali sono quelle oggetto del giudizio a quo) – che destano «massimo allarme sociale»;

che, ciò premesso, il remittente – pur affermando di non ignorare che la costante giurisprudenza della Corte costituzionale ha escluso che spetti a quest’ultima «far prevalere un proprio punto di vista, sovrapponendolo ai criteri di valore assunti dal legislatore» – evidenzia il «forte grado di irrazionalità» che presenta la scelta, compiuta dalla norma censurata, di «sancire che nel rito abbreviato valgano i termini prescrizionali ridotti» (cioè quelli operanti in forza dell’art. 6 della medesima legge n. 251 del 2005), sebbene gli stessi siano stati, invece, «banditi dai giudizi direttissimo, immediato, e a citazione diretta davanti ai giudici monocratici»;

che, pertanto, l’intervento richiesto alla Corte – nella misura in cui «otterrebbe l’effetto di equiparare le varie forme di “giudizio sull’accusa” previste dall’attuale legge processuale, scongiurando l’ipotesi che irragionevolmente una soltanto venga trattata in modo difforme» – dovrebbe ritenersi consentito, giacché esso «non involge la scelta, riservata alla discrezionalità del legislatore, di modulare diversamente la prescrizione del reato, bensì la regolamentazione attraverso cui questa scelta è stata resa operativa»;

che, difatti, osserva il giudice a quo, se è vero che ogni intervento legislativo che regoli gli effetti intertemporali, derivanti sia dalla creazione di nuovi istituti che dalla modifica di istituti preesistenti, presenta un ampio contenuto discrezionale, è pur vero che ogni «disciplina intertemporale deve rispondere al canone della ragionevolezza» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 219 del 2004);

che, oltretutto, nel caso di specie l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale – conclude il remittente – «non comporta la creazione da parte della Corte costituzionale di una nuova norma contenente un regime prescrizionale risultante da un’autonoma operazione di bilanciamento», ma soltanto «l’applicazione all’imputato di termini di prescrizione già previsti dal precedente regime codicistico e vigenti al momento della commissione del fatto di reato», con la conseguenza che sarebbe «rispettato il principio di legalità dei delitti e delle pene sancito dall’art. 25 della Costituzione».

Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste ha sollevato – in riferimento all’articolo 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui non esclude l’applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ove sia stato disposto o ammesso il giudizio abbreviato»;

che l’iniziativa assunta dal remittente mira a conseguire una pronuncia che sottragga all’applicazione retroattiva delle nuove (e più favorevoli per l’imputato) disposizioni in tema di prescrizione del reato, contenute nell’art. 6 della medesima legge n. 251 del 2005, anche le fattispecie criminose oggetto dei procedimenti di primo grado destinati a svolgersi nelle forme del giudizio abbreviato;

che l’incidente di costituzionalità si propone, pertanto, di estendere l’area della deroga che la norma censurata ha disposto all’applicazione del principio della retroattività della lex mitior, sancito dall’art. 2, quarto comma, del codice penale, deroga ab origine limitata dalla legge n. 251 del 2005, quanto ai procedimenti di primo grado, a quelli per i quali fosse già stato compiuto, prima dell’entrata in vigore della legge stessa, l’incombente della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492 del codice di procedura penale), incombente non previsto per il giudizio abbreviato;

che questa Corte, però, con sentenza n. 393 del 2006 – pronunciata successivamente all’adozione della ordinanza di rimessione qui in esame – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché», con l’effetto, pertanto, di estendere a tutti i procedimenti di primo grado – indipendentemente dall’avvenuto espletamento dell’adempimento processuale consistente nella dichiarazione di apertura del dibattimento – l’applicazione retroattiva delle nuove (e più favorevoli per l’imputato) disposizioni sulla prescrizione del reato;

che la citata sentenza – muovendo dal presupposto che «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» – ha escluso la ragionevolezza della scelta, compiuta dall’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, «di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005»;

che questa Corte, nella sentenza n. 393 del 2006, ha rilevato come l’apertura del dibattimento non sia «in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento», e cioè al fatto «che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale» originato dal reato, e «dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa»;

che, infatti, l’apertura del dibattimento «non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi – e, tra essi, il giudizio abbreviato – che hanno la funzione di “deflazionare” il dibattimento)», né tale incombente «è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori»;

che, pertanto, la sopravvenuta declaratoria di illegittimità, seppure in parte qua, della norma censurata impone la restituzione degli atti all’odierno remittente, perché valuti la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008.