Ordinanza n. 349 del 2008

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ORDINANZA N. 349

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria        FLICK                    Presidente

- Francesco               AMIRANTE              Giudice

- Ugo                                DE SIERVO                           "

- Paolo                      MADDALENA              "

- Alfio                       FINOCCHIARO            "

- Alfonso                   QUARANTA                 "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                       MAZZELLA                  "

- Gaetano                  SILVESTRI                   "

- Maria Rita               SAULLE                       "

- Giuseppe                 TESAURO                    "

- Paolo Maria             NAPOLITANO             "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10 della stessa legge n. 46 del 2006, promossi con ordinanze del 19 giugno 2006 e del 6 luglio 2006 dalla Corte d’appello di Palermo, del 1° giugno 2006 dalla Corte d’appello di Torino,  del 13 giugno 2006 dalla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, del 24 novembre e del 9 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Brescia e del 7 dicembre 2006 (numero due ordinanze) dalla Corte d’appello di Bari, iscritte ai nn. 31, 77, 168, 200, 319, 506, 601 e 762 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8, 10, 14, 15, 18, 27, 35 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2007.

       Udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che la Corte d’appello di Palermo, con due ordinanze del 19 giugno 2006 e del 6 luglio 2006 (r.o. n. 31 e n. 168 del 2007), la Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 1° giugno 2006 (r.o. n. 77 del 2007), la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con ordinanza del 13 giugno 2006 (r.o. n. 200 del 2007), la Corte d’appello di Brescia, con due ordinanze identiche nella parte motiva, rispettivamente del 9 maggio 2006 (r.o. n. 506 del 2007) e del 24 novembre 2006 (r.o. n. 319 del 2007), la Corte d’appello di Bari con due ordinanze del 7 dicembre 2006 (r.o. n. 601 e n. 762 del 2007) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui limita l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.: ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e qualora tali prove risultino decisive;

che le Corti rimettenti (ad eccezione della Corte d’appello di Brescia) dubitano, in riferimento ai medesimi parametri, anche della legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006, che prevede l’immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo altresì che l’appello proposto dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge, avverso una sentenza di proscioglimento sia dichiarato inammissibile;

che, ai fini della rilevanza della questione,  le Corti rimettenti precisano di essere investite di appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di proscioglimento e di doverli dichiarare inammissibili in applicazione delle norme censurate;

che, nel merito, tutte le Corti rimettenti ritengono che l’eliminazione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento ad opera dell’art. 1 della novella del 2006 sia in contrasto con il principio di parità fra le parti di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto sarebbe del tutto irragionevole sottrarre ad una sola delle parti (il pubblico ministero) lo strumento processuale indirizzato a veder affermata la propria pretesa;

che, infatti, solo apparentemente il limite all’appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero e dell’imputato rispetterebbe il principio di parità, considerato il diverso interesse ad impugnare tali sentenze che fa capo all'organo della pubblica accusa e all'imputato;

   che l’ablazione integrale del potere impugnatorio della pubblica accusa non troverebbe alcuna giustificazione nella tutela di valori costituzionali di pari rilievo, né sarebbe giustificata dalla posizione istituzionale del pubblico ministero, dalla sua funzione o da esigenze di corretta amministrazione della giustizia;

che il principio della parità nel contraddittorio, pur non comportando necessariamente l’identità fra i poteri processuali delle parti, impone comunque che non sia alterato in misura intollerabile l'equilibrio tra le parti, come avverrebbe ad opera delle norme censurate;

che il principio del contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale di cui all’art. 111 Cost., secondo comma, secondo la Corte d’appello di Torino, non può intendersi limitato alla fase anteriore alla pronuncia del giudice, giacché il termine «processo» indica l’intero iter attraverso il quale si attua la giurisdizione, fino alla pronuncia definitiva;

che, pertanto, il principio della parità delle parti comprenderebbe anche la fase dell'appello e, nell'ambito di essa, il suo momento introduttivo e fondante, ossia la definizione dei casi in cui è consentito appellare;

che la residua possibilità di appello, nelle ipotesi previste dal comma 2 dell’art. 603 cod. proc. pen., non eliminerebbe i profili di incostituzionalità della disciplina censurata, attesa l'assoluta marginalità di esse;

che le Corti rimettenti prospettano altresì la violazione dell’art. 3 Cost., sia sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, sia sotto il profilo della disparità di trattamento;

che secondo le Corti d’appello di Palermo e di Brescia risulterebbe contraria al principio di ragionevolezza la circostanza che il pubblico ministero sia privato del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento, conservando, invece, quello di appellare le sentenze di condanna, onde ottenere l’irrogazione di una pena più severa «in tal modo tutelando, un interesse processuale di ben minore consistenza»;

che limitare il potere d’appello contro le sentenze di assoluzione emesse a seguito di un giudizio ordinario contrasterebbe con il principio di ragionevolezza, anche perché, secondo le Corti d’appello di Torino e di Brescia, nessun applicazione di tale criterio, né alcuna peculiare finalità riconosciuta dal legislatore appare giustificare una disciplina che squilibra così fortemente i rapporti tra accusa e difesa e che, secondo la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, non troverebbe ragionevole giustificazione né nella peculiare posizione della parte pubblica, né nella funzione ad essa attribuita, né in esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

che, secondo la Corte d’appello di Torino, la limitazione all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento per entrambe le parti «solo apparentemente soddisfa l’esigenza di parità garantita dalla disposizione costituzionale», mentre sarebbe del tutto irragionevole posto che, in realtà, è solo con riferimento all’organo dell’accusa che tale limitazione «assume preponderanza e rilievo centrale», avendo solo il pubblico ministero l’interesse ad impugnare le sentenze di proscioglimento ed essendo già in precedenza inibita all’imputato l’impugnazione della sentenza di proscioglimento con formula piena;

che, secondo la Corte d’appello di Bari, sarebbe palese la totale irragionevolezza di un processo che, nato come penale con l'appendice eventuale e meramente sussidiaria di una domanda di risarcimento, prosegua in appello come processo esclusivamente civile, celebrato dinanzi al giudice penale per iniziativa e volontà di una parte privata che, pur non avendo il potere di promuovere l'azione autonomamente in sede penale, ha il potere esclusivo di proseguirla dinnanzi al giudice di appello penale;

che, quanto alla violazione del principio di uguaglianza, sarebbe, secondo la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, evidente la disparità di trattamento «tra l’imputato assolto all’esito del giudizio abbreviato e l’imputato assolto all’esito del giudizio ordinario», posto che nella seconda ipotesi il divieto di appellare per il pubblico ministero trova un’eccezione nel caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove decisive a carico dell’imputato; con la conseguenza che l’imputato nel giudizio abbreviato godrebbe di un ulteriore ingiustificato beneficio, oltre che di un trattamento sanzionatorio premiale;

che, secondo la  Corte d’appello di Bari, la norma censurata, nell’attribuire alla parte civile la facoltà di impugnazione negata alla pubblica accusa, determinerebbe una ulteriore evidente disparità di trattamento tra le parti private con una ulteriore inaccettabile prevalenza attribuita all'interesse privato rispetto all'interesse pubblico;

che tutte le Corti d’appello rimettenti, ad eccezione della Corte d’appello di Torino, evocano a parametro della questione di costituzionalità anche l’art. 112 Cost., assumendo il contrasto della disciplina censurata con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sul presupposto che tale principio, espressione dell’interesse punitivo dello Stato, implichi, logicamente e coerentemente, anche il potere di impugnazione;

che anche se la Corte costituzionale ha affermato che il potere di appello del pubblico ministero non può essere ricondotto all’obbligo di esercitare l’azione penale, nel senso che la facoltà di impugnazione non costituisce “estrinsecazione necessaria” dell’esercizio dell’azione penale, tuttavia, secondo la Corte d’appello di Brescia, una così ampia limitazione al potere di impugnazione, certamente, inciderebbe anche sulla completezza delle possibilità di esercizio dell’azione penale;

che, sempre a parere della Corte d’appello di Brescia, risulterebbe leso anche il diritto di difesa che l’art. 24 Cost. garantisce anche alle parti offese dei reati, e che non può ritenersi soddisfatto dalla possibilità di appello della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile, in quanto solo l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero può offrire alle vittime dei reati l’essenziale tutela del loro legittimo interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dalle possibilità che dette vittime in concreto abbiano di accedere al processo nelle forme dell’azione civile ivi direttamente intrapresa;

che, secondo la Corte d’appello di Palermo, la disciplina transitoria di cui all’art. 10 della legge n. 46 del 2006 violerebbe anche l’art. 97 Cost., essendo contraria al principio del buon andamento dell' attività giudiziaria la mancata previsione di norme di salvaguardia delle attività processuali compiute dalle parti prima dell'entrata in vigore della legge.

Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione – conseguente alla sostituzione dell’art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) – dell’appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l’immediata applicabilità di tale regime, in forza dell’art. 10 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima;

che, stante l’identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell’art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;

che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti alle Corti d’appello di Palermo, Torino, Brescia, Lecce, sezione distaccata di Taranto, e Bari.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008.