Sentenza n. 309 del 2008

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SENTENZA N. 309

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Franco                      BILE                              Presidente

-    Giovanni Maria         FLICK                             Giudice

-    Francesco                  AMIRANTE                         "

-    Ugo                          DE SIERVO                        "

-    Paolo                        MADDALENA                    "

-    Alfio                        FINOCCHIARO                  "

-    Alfonso                    QUARANTA                       "

-    Franco                      GALLO                               "

-    Luigi                        MAZZELLA                        "

-    Gaetano                    SILVESTRI                         "

-    Sabino                      CASSESE                            "

-    Maria Rita                 SAULLE                              "

-    Paolo Maria               NAPOLITANO                    "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice di procedura civile e dell’art. 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall’art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall’art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51, promosso dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma nei giudizi riuniti di opposizione agli atti esecutivi instaurati dalla Assimobil di Assennato Maria Laura & c. s.a.s. contro la Capitalia s.p.a. ed altri, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

1.–– Nel corso di un giudizio di opposizione agli atti esecutivi (in cui l’opponente aveva impugnato il provvedimento con il quale era stato dichiarato inammissibile un suo precedente ricorso, volto alla revoca dell’aggiudicazione per avere egli presentato istanza di conversione del pignoramento) il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 495 del codice di procedura civile e 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall’art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall’art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51. Tali disposizioni sono censurate nella parte in cui, fissando – a partire dal 1° marzo 2006 – in un momento anteriore all’emissione dell’ordinanza di vendita la preclusione alla presentazione dell’istanza di conversione, non fanno salvo il diritto del debitore a fare affidamento sulla posizione giuridica acquisita nel previgente regime, secondo cui egli avrebbe potuto presentare detta istanza fino al giorno dell’udienza in cui si teneva la vendita. Nel giudizio a quo l’opponente aveva depositato istanza di conversione lo stesso giorno (12 maggio 2006) in cui il notaio delegato aveva redatto il verbale di vendita .

Precisa il remittente che il nuovo testo dell’art. 495 cod. proc. civ. consente la conversione del pignoramento soltanto prima che sia disposta la vendita e che il tenore letterale dettato nel regime transitorio – secondo cui «questa disposizione entra in vigore il 1° marzo 2006 e si applica anche alle procedure esecutive pendenti a tale data di entrata in vigore» – non lascia dubbi interpretativi sulla scelta retroattiva operata dal legislatore della riforma, tanto è vero che è fatta salva l’applicazione delle norme precedentemente in vigore solo per la fase relativa alla vendita, laddove già sia stata emanata la relativa ordinanza; è così, infatti, che testualmente ha dichiarato il legislatore «...nel prevedere che, quando è già stata ordinata la vendita, la stessa ha luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore». La chiara espressione «la stessa», contenuta nella citata disposizione, non potrebbe che rivolgersi alla fase della sola vendita, vale a dire allo svolgimento di ognuna delle attività che conducono alla definizione del procedimento di vendita che avviene con l’emissione del decreto di trasferimento, con preclusione dell’applicazione della disciplina previgente ad ogni diversa attività processuale delle procedure pendenti.

Osserva quindi il giudice a quo (il quale ricorda che il processo esecutivo è strutturato non come una sequenza di atti preordinati ad un unico provvedimento finale, secondo il modello del processo ordinario di cognizione, ma come una serie autonoma di atti ordinati a successivi e distinti provvedimenti) come l’ultrattività della disciplina previgente residui soltanto per la fase della vendita già disposta, mentre il nuovo regime risulta applicabile a tutte le procedure per le quali non sia stata emessa l’ordinanza di vendita ovvero, anche quando essa è stata emessa, per tutte le fasi anteriori alla vendita stessa. Ne consegue che, ogni volta che l’istanza di conversione venga proposta dal debitore esecutato in una procedura in cui la vendita sia già stata disposta, l’istanza medesima deve essere dichiarata inammissibile e ciò anche se l’immobile non sia stato venduto a causa delle vicende processuali concrete.

Ciò appare al Tribunale lesivo dell’affidamento del debitore circa le posizioni giuridiche processuali acquisite, secondo cui egli avrebbe potuto presentare domanda di conversione del pignoramento, e così recuperare l’immobile, fino al giorno dell’udienza in cui si teneva la vendita. Infatti, secondo il  previgente testo dell’art. 495 cod. proc. civ., il debitore poteva chiedere la conversione «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», dove per vendita si intendeva l’udienza di vendita e non il provvedimento che la disponeva, anche sulla scorta dell’orientamento della Corte di cassazione.

A parere del Tribunale, la mera applicazione della disciplina nuova alle procedure pendenti potrebbe risultare in conflitto con posizioni legittimamente acquisite dalle parti in virtù del vecchio regime, così dando luogo a problemi di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. Al legislatore della riforma il remittente riconosce ampia discrezionalità nel dettare un regime transitorio, purché esso si conformi ai fondamentali principi costituzionali sulla tutela dei diritti. Nel caso specifico, però, la distinzione tra le fasi soggette ad ultrattività della disciplina abrogata e quelle soggette a retroattività della disciplina di nuova introduzione non  terrebbe conto dell’esigenza di certezza che si pone per il cittadino non solo con riferimento al contenuto di una legge ma anche riguardo alla normativa processuale, dovendo egli conoscere, nella dinamica dei suoi diritti processuali, quali principi sono applicabili a tutela delle sue aspettative.

Secondo il remittente – che richiama la giurisprudenza di questa Corte in tema di retroattività della legge – il cittadino ha il diritto alla ragionevole aspettativa che la corretta applicazione della norma, che ha consacrato una determinata modalità di difesa processuale, non verrà riconsiderata a posteriori a causa del cambiamento della legge che regola quell’atto e quella attività processuale: pur non essendo la regola dell’efficacia irretroattiva della legge intangibile per il legislatore – che può dettare apposita normativa transitoria in ragione delle sue insindacabili scelte politiche – tuttavia questi dovrà pur sempre creare tra i vari atti processuali un rapporto tale da consentire il rispetto dell’unità, della coerenza interna del sistema processuale nel rispetto dei diritti costituzionali di azione e di difesa.

2.–– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione, preliminarmente osservando come la disciplina previgente, nel disporre che l’istanza di conversione potesse essere presentata «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», avesse dato luogo a diverse discussioni interpretative che avevano trovato, infine, un punto di arrivo in quella giurisprudenza che individuava l’ultimo momento utile nell’aggiudicazione definitiva del bene. Interpretazione, questa, poco sollecita nei confronti della situazione dell’aggiudicatario alla cui posizione conferiva una connotazione di particolare precarietà, in quanto esposta al rischio della sospensione dell’emissione del provvedimento di trasferimento del bene proprio in ragione di quegli eventi processuali indicati dal Tribunale rimettente (rinvio dell’udienza di vendita, differimento della vendita a causa dell’asta andata deserta ecc.).

Con la modifica in esame, dunque, si conferisce certezza e stabilità al momento temporale entro il quale il debitore può presentare l’istanza di conversione del pignoramento, identificandolo con il provvedimento attraverso il quale il giudice dell’esecuzione, sentite le parti, dispone la vendita o l’assegnazione, autorizzando altresì la liberazione delle cose pignorate. La disposizione risponde perciò pienamente, secondo l’interveniente, alla ratio del processo esecutivo di attuare, con celerità e certezza, la pretesa del creditore ed è, d’altra parte, bilanciata, dal punto di vista dell’interesse del debitore a presentare istanza di conversione del pignoramento, dall’ulteriore modifica introdotta dalla novella del codice di procedura civile sempre con riferimento all’art. 495 con cui, secondo la nuova formulazione del quarto comma, il termine per la rateizzazione delle somme versate dal debitore in sostituzione del bene pignorato è raddoppiato dai nove mesi di cui alla originaria formulazione agli attuali diciotto.

Premesso che la Costituzione non impone un modello vincolante di processo, l’Avvocatura ricorda, con riferimento alla emanazione di norme transitorie volte a segnare il passaggio da un sistema processuale ad un altro, come sia stata più volte da questa Corte affermata la discrezionalità del legislatore, in ragione dei fini che intende perseguire, nel regolare il passaggio da una vecchia ad una nuova disciplina. Inoltre la doglianza, nei termini in cui è stata formulata dal remittente, potrebbe riguardare, secondo l’Avvocatura, tutte le norme di diritto transitorio che accompagnano il passaggio da un ordinamento processuale ad un altro, nella misura in cui dalle stesse discenda l’applicazione per un certo lasso di tempo di un regime processuale differenziato, allorché il legislatore – nell’ambito di un giudizio pendente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina normativa – disponga che certe situazioni rimangono disciplinate dalle disposizioni previgenti ed altre possano già seguire la disciplina sopravvenuta.

Con particolare riferimento alla parte della disposizione transitoria in esame che dispone l’ultrattività della disciplina anteriore alla novella (per la sola fase attinente alla vendita), la stessa si tradurrebbe in una sostanziale applicazione della regola generale secondo cui le disposizioni processuali rispondono al principio del tempus regit actum: disposta la vendita da parte del giudice prima dell’entrata in vigore della riforma in virtù del citato principio, non potrebbero che applicarsi le regole vigenti nel momento in cui la vendita è stata ordinata, l’effetto di tale decisione del giudice dell’esecuzione essendo quello di aprire una nuova e specifica fase del processo esecutivo (conformato in una serie di fasi, come sottolineato nella stessa ordinanza di rimessione). In particolare, con l’ordinanza che dispone la vendita, si apre una fase subprocedimentale che, in base al principio menzionato, non può che essere regolata dalle norme vigenti al momento in cui detta fase sia stata dichiarata aperta.

La prospettata violazione dell’art. 24 Cost. sarebbe infine esclusa ove si consideri che tale precetto non impone affatto – come chiarito da questa Corte in molteplici occasioni – che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti,  purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale. Del resto, le garanzie proprie delle parti del giudizio di esecuzione non sarebbero comparabili con quelle proprie del giudizio di cognizione.

Considerato in diritto

1.–– Questa Corte è chiamata dal Tribunale di Roma, sezione delle esecuzioni immobiliari, a scrutinare, con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la legittimità costituzionale degli artt. 495 cod. proc. civ. e 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall’art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall’art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51.

Secondo il remittente le suddette disposizioni sono illegittime anche per violazione «dei principi costituzionali impliciti della ragionevolezza delle statuizioni legislative e dell’affidamento del soggetto processuale all’azione secondo la legge processuale vigente, nella parte in cui le censurate disposizioni non fanno salvo il diritto del debitore a fare affidamento sulla posizione giuridica processualmente acquisita secondo cui egli poteva presentare domanda di conversione del pignoramento, e così recuperare l’immobile, fino al giorno dell’udienza in cui si teneva la vendita».

Il remittente espone che davanti a lui pende un procedimento esecutivo immobiliare nel corso del quale, in data 12 maggio 2006, il notaio delegato ha proceduto alla vendita dell’immobile pignorato e alla aggiudicazione provvisoria e la debitrice esecutata ha presentato istanza di conversione del pignoramento; che il 15 maggio 2006 il giudice ha dichiarato l’inmamissibilità di tale istanza; che la debitrice ha impugnato il 16 maggio l’aggiudicazione provvisoria e il 18 maggio il provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità dell’istanza di conversione del pignoramento.

Nell’ordinanza di rimessione si premette che il testo originario dell’art. 495 cod. proc. civ. consentiva al debitore assoggettato ad esecuzione di presentare l’istanza di conversione del pignoramento «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», e che tale espressione era stata costantemente interpretata nel senso che neppure l’aggiudicazione provvisoria avesse effetti preclusivi. Si premette, altresì, che, secondo le norme censurate, l’istanza di conversione può essere presentata fino a che non sia «disposta la vendita o l’aggiudicazione a norma degli artt. 530, 552 e 569 cod. proc. civ.» e che esse, entrate in vigore il 1° marzo 2006, per espressa disposizione si applicano alla procedure esecutive in corso, con la precisazione che: «quando, tuttavia, è già stata ordinata la vendita, la stessa ha luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore».

Siffatta ultima disposizione concerne soltanto le modalità di svolgimento della procedura di vendita, di per sé considerata, e non anche la fissazione del termine entro il quale può essere proposta l’istanza di conversione anche nell’ipotesi – implicitamente presupposta e pacificamente ricorrente nel caso in esame – di vendita disposta prima dell’entrata in vigore delle modifiche normative.

Ritenuta, sulla base delle considerazioni e dei fatti esposti, la rilevanza della questione, il Tribunale remittente ne argomenta la non manifesta infondatezza, sostenendo che la discrezionalità che spetta al legislatore, in specie nel regolare il trapasso da un regime processuale ad un altro e nel dettare quindi le norme transitorie che ritiene opportune, non può essere mai esercitata in modo irragionevole e tale da compromettere l’affidamento delle parti nel rispetto delle posizioni legittimamente acquisite. Con specifico riferimento alla questione sollevata, il remittente afferma che il legislatore avrebbe dovuto, nelle ipotesi di procedure esecutive nelle quali la vendita era stata già disposta, come in quella davanti a lui pendente, stabilire l’applicabilità a tutti gli effetti della previgente disciplina e non limitarla alle mere modalità dello svolgimento della vendita. Ciò per il principio secondo cui la validità e l’efficacia degli atti processuali devono essere stabilite alla stregua della legge vigente al momento del loro compimento. Nella specie, l’atto idoneo a identificare il regolamento delle facoltà delle parti era il provvedimento di disposizione della vendita. Intervenuto questo, la parte legittimamente poteva elaborare la propria condotta processuale secondo la originaria disciplina, che consentiva la conversione del pignoramento anche dopo l’aggiudicazione provvisoria.

Si verificherebbe, quindi, una disparità di trattamento tra debitori esecutati in procedure in cui la vendita non era stata ancora disposta anteriormente all’entrata in vigore della nuova normativa e debitori assoggettati ad esecuzione nella quale il medesimo provvedimento era stato emesso precedentemente.

2.–– La motivazione sulla rilevanza della questione non è implausibile, sicché l’ammissibilità di questa non è dubbia.

Nel merito, le argomentazioni del remittente sono da condividere soltanto per quanto concerne il richiamo al principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite, ma non con riguardo all’applicazione dei detti principi alla questione in esame.

Ai fini della risoluzione della questione in scrutinio, non è il provvedimento che dispone la vendita dei beni pignorati l’atto con riguardo al quale va identificata la normativa applicabile nel passaggio dal previgente al nuovo regime processuale, secondo il principio tempus regit actum, bensì l’istanza di conversione del pignoramento.

La tesi del remittente – secondo la quale, una volta disposta la vendita, il debitore poteva fare legittimo affidamento sul fatto che i tempi e le modalità da rispettare nell’esercitare il diritto alla conversione del pignoramento sarebbero rimasti quelli stabiliti dalla previgente disciplina e non dalla nuova – non ha un condivisibile fondamento. Il collegamento che la normativa stabilisce tra la fase cui è pervenuta la procedura esecutiva e la facoltà accordata al debitore di chiedere la conversione del pignoramento istituisce una preclusione all’esercizio di quest’ultima, i cui termini possono liberamente essere modificati dal legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza della disciplina dettata e, quindi, della sua idoneità a non pregiudicare o gravemente comprimere posizioni soggettive preesistenti.

In tale valutazione si deve tener conto non soltanto del contenuto della nuova normativa, ma anche delle modalità e dei tempi della sua introduzione, riferiti all’atto processuale di cui si tratta, e cioè all’istanza di conversione del pignoramento e non alla vendita, come vorrebbe il remittente. Quest’ultima, infatti, nei vari momenti in cui la relativa procedura si svolge, ai fini che qui interessano, ha soltanto la funzione di fornire al legislatore i termini delle possibili opzioni riguardo alla suddetta preclusione.

Tutto ciò premesso, si rileva che, nel caso in esame, la modifica, che ha anticipato al momento in cui la vendita viene disposta la preclusione per l’istanza di conversione del pignoramento rispetto alla previgente disciplina, è stata introdotta con l’art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 35 del 2005, convertito dalla legge n. 80 del 2005, e la sua entrata in vigore era differita alla scadenza di centoventi giorni dalla pubblicazione della legge di conversione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 maggio 2005. Successivamente, la data di entrata in vigore è stata ulteriormente differita al 15 novembre 2005 (art. 8 del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115) e, poi, con la legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, al 1° gennaio 2006, scadenza mantenuta nell’impugnato art. 1, comma 6, della legge n. 263 del 2005 e, infine, prorogata al 1° marzo 2006 dall’art. 39-quater del decreto-legge n. 273 del 2005, convertito dalla legge n. 51 del 2006).

Da quanto esposto emerge che i debitori assoggettati a procedure esecutive, nelle quali la vendita era stata disposta prima della modifica legislativa, già dalla pubblicazione del primo provvedimento erano consapevoli di avere ancora centoventi giorni per fruire dell’allora vigente regime normativo, termine che poi, per i differimenti dell’entrata in vigore della nuova normativa, ha superato i nove mesi. Non vi è stata, quindi, alcuna compressione di posizioni soggettive processuali acquisite; né varrebbe obiettare che soltanto l’art. 1, comma 6, della legge  n. 263 del 2005 contiene l’espressa previsione dell’applicazione della novella processuale alle procedure esecutive in corso. Con tale previsione, infatti, si è reso esplicito ciò che era già conseguenza dei principi generali in tema di passaggio dall’una ad altra disciplina processuale per quanto non regolato da disposizioni transitorie. Anche volendo ammettere che soltanto con il citato ultimo provvedimento del dicembre 2005 i debitori assoggettati a procedura esecutiva siano stati resi definitivamente edotti dell’applicabilità ad essi della nuova normativa, è innegabile che costoro abbiano pur sempre potuto disporre di un termine di circa due mesi, tale da non incidere gravemente sulla facoltà di presentare l’istanza di conversione del pignoramento (del resto proponibile subito dopo il pignoramento stesso).

In realtà, la tesi del remittente si basa sul convincimento che, una volta che una procedura sia iniziata, le decadenze e le preclusioni processuali non possano che essere regolate dalla disciplina vigente al momento della sua instaurazione. Si tratta, però, di una tesi infondata alla stregua delle osservazioni svolte, costituente quindi una mera petizione di principio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice di procedura civile e dell’art. 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall’art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall’art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008.