Ordinanza n. 253 del 2008

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ORDINANZA N. 253

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                    BILE                       Presidente

- Giovanni Maria        FLICK                      Giudice

- Francesco                      AMIRANTE                          "

- Ugo                                DE SIERVO                           "

- Paolo                      MADDALENA              "

- Alfio                       FINOCCHIARO            "

- Alfonso                   QUARANTA                 "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                       MAZZELLA                  "

- Gaetano                  SILVESTRI                          "

- Sabino                    CASSESE                     "

- Maria Rita               SAULLE                       "

- Giuseppe                 TESAURO                    "

- Paolo Maria             NAPOLITANO             "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con ordinanza del 13 gennaio 2006 dalla Corte di appello di Palermo nel procedimento penale a carico di B. L. P. ed altri, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2006.

       Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che la Corte d’appello di Palermo, con ordinanza del 13 gennaio 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale «dell'art. 12-quinquies, comma 1, della legge 7 agosto 1992 n. 356» (recte: dell’art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla legge n. 356 del 1992), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione;

che il rimettente premette che nel procedimento penale a carico di B. L. P. ed altri, la difesa di alcuni degli imputati ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-quinquies, comma 1, della legge 7 agosto 1992 n. 356;

che la difesa degli imputati, sempre secondo quanto riferisce il rimettente,  ha affermato che i dubbi sulla compatibilità dell'art. 12-quinquies con numerosi principi costituzionali, emersi nel corso dei lavori parlamentari di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992, hanno trovato riscontro nella sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 1994, con la quale si era posta in evidenza «la confusa interferenza operata dal legislatore tra la norma incriminatrice ed il diverso istituto delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale, con particolare riferimento sia all'identità della qualifica soggettiva rivestita dal proposto per l'applicazione di una misura di prevenzione ed il soggetto imputato del reato di cui all'articolo citato, sia alla identità delle situazioni costituenti elemento di sospetto in un caso e condotta della norma incriminatrice nell'altro»;

che, proseguendo nell’illustrare la tesi della difesa degli imputati, il rimettente osserva che le argomentazioni della sentenza n. 48 del 1994 della Corte costituzionale, formulate con riferimento al comma 2 dell'art. 12-quinquies, possono essere applicate anche al comma 1 il quale, pertanto, presenta gli stessi vizi di costituzionalità: in particolare, laddove si ribadisce che il costituente ha inteso separare nettamente le posizioni processuali dell'imputato da quelle del condannato, in quanto anche nella fattispecie in esame basterebbe una semplice notitia criminis, pur se priva di fondamento, a determinare la sussistenza della qualità di indagato che renderebbe punibile quella condotta, con evidenti gravi conseguenze discriminatorie;

che, inoltre, la difesa degli imputati ha «evidenziato conseguenze rilevanti in relazione al diritto di difesa (art. 24 Cost.) e di giusto processo (art. 111 Cost.), con particolare riferimento alla violazione del principio relativo alla ripartizione dell'onere della prova, non potendosi spostare sull'imputato il compito di fornire la prova di una capacità patrimoniale atta a giustificare il possesso dei beni senza violare il citato principio costituzionale»;

che la difesa degli imputati ritiene altresì estendibili i rilievi citati anche in riferimento alla posizione dei soggetti cui fittiziamente sarebbe intestata la proprietà dei beni, con conseguenziale violazione del principio di tassatività, posto che la mancata indicazione dell'elemento psicologico che deve sorreggere la condotta del cosiddetto extraneus potrebbe sottendere una forma di responsabilità oggettiva, palesemente contraria al principio della personalità della responsabilità penale;

che la Corte rimettente ritiene l’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla difesa rilevante ai fini del giudizio e meritevole del vaglio della Corte costituzionale essendo non palesemente infondata e sostenuta dal decisivo riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 48 del 1994;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare la questione inammissibile o infondata;

che, a parere dell’Avvocatura dello Stato – la quale afferma che «si può supporre, ma, appunto, solo supporre, che ad uno o più imputati di quel giudizio sia contestato il delitto di cui al comma 1 dell'art. 12-quinquies d. l. 306/92 conv. L. 356/92» – la questione è inammissibile, in quanto nell'ordinanza di rimessione manca del tutto la descrizione della fattispecie, oltre che la motivazione in ordine alla rilevanza nel giudizio a quo;

che, sempre secondo l’Avvocatura generale, solo per taluni dei parametri costituzionali evocati (artt. 24, 27 e 111 Cost.) sono evidenziate le ragioni del sospettato contrasto con la norma censurata e, comunque, nel merito la questione sarebbe infondata in quanto il giudice rimettente parte dal presupposto, del tutto erroneo, che le questioni esaminate dalla Corte con la sentenza n. 48 del 1994, siano perfettamente sovrapponibili a quelle che possono sollevarsi con riferimento al comma 1 dell'art. 12-quinquies, mentre le due fattispecie presentano caratteri radicalmente difformi;

che, in particolare, il comma 2 dell’art. 12-quinquies, dichiarato incostituzionale, puniva la disponibilità di beni di valore sproporzionato al reddito o all'attività economica svolta, ove di tale disponibilità non venisse giustificata la legittima provenienza da parte di coloro nei cui confronti «pendesse procedimento penale» per determinati reati o fosse in corso di applicazione una misura di prevenzione personale o si procedesse per l'applicazione di questa, mentre il comma 1 punisce l’attribuzione fittizia ad altri di denaro o altre utilità, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del codice penale;

che, sempre a giudizio della difesa statale, «è palese che la sentenza della Corte si riferisce esclusivamente alla fattispecie di cui al secondo comma che presentava quella commistione fra diritto penale sostanziale e diritto delle misure di prevenzione che faceva sì che una medesima condotta potesse dar luogo, indifferentemente, all’applicazione di una misura di tipo preventivo o di una pena detentiva», mentre il delitto di cui al comma 1 può essere realizzato – indifferentemente – tanto da chi riveste la qualità di indagato quanto da chi non la riveste ed è onere del pubblico ministero provare – in ogni suo elemento costitutivo – una fattispecie (intestazione fittizia diretta ad eludere norme o ad agevolare la commissione dei predetti reati) che ha un suo proprio e preciso disvalore giuridico e sociale.

Considerato che la Corte d’appello di Palermo con ordinanza del 13 gennaio 2006 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356  in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione;

che al rimettente «appaiono rilevanti ai fini del giudizio e meritevoli dell’autorevole vaglio della Corte Costituzionale» le argomentazioni con le quali la difesa degli imputati nel processo a quo sostiene che la norma censurata, nel disciplinare la fattispecie incriminatrice del «trasferimento fraudolento di valori», violerebbe, in particolare, l’art. 27, secondo comma, della Costituzione, perché punisce una determinata condotta in quanto posta in essere da soggetti che si qualificano per il solo fatto di rivestire una condizione processuale quale quella dell’indagato o dell’imputato, del tutto inidonea ad assegnare al soggetto attivo connotazioni di intrinseco disvalore, in violazione del principio per cui questo apprezzamento è riservato esclusivamente alla sentenza irrevocabile di condanna, e perché, con riferimento alla posizione dei soggetti cui fittiziamente è intestata la proprietà dei beni, la mancata indicazione dell'elemento psicologico che deve sorreggere la condotta potrebbe sottendere una forma di responsabilità oggettiva, palesemente contraria al principio della personalità della responsabilità penale;

che la norma denunciata, infine, contrasterebbe anche con gli artt. 24 e 111 della Costituzione, perché trasferirebbe sull'imputato il compito di fornire la prova di una capacità patrimoniale atta a giustificare il possesso dei beni con un’inammissibile inversione dell'onere della prova;

che la questione è manifestamente inammissibile;

che l’ordinanza non contiene alcuna motivazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, e difetta anche della descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, neppure esattamente identificata nei suoi requisiti minimi;

che non può valere a colmare tali lacune il semplice rinvio alle motivazioni della richiesta di sollevare questione di costituzionalità fatta dalla difesa dell'imputato, giacché il giudice deve rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con una motivazione autosufficiente (ex plurimis ordinanza n. 312 del 2005);

che, inoltre, la Corte rimettente muove dalla premessa interpretativa secondo la quale il comma 1 dell’art. 12-quinquies del decreto-legge n. 306 del 1992 presenterebbe gli stessi profili di incostituzionalità affermati dalla Corte con la sentenza n. 48 del 1994 in riferimento al comma 2 dello stesso articolo;

che il rimettente non tiene conto di quella giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di delineare la fattispecie di reato del trasferimento di valori in termini tali da soddisfare il petitum dell’odierna questione, in quanto è stato evidenziato che la posizione di indagato o imputato non è elemento caratterizzante la rilevanza penale della condotta, venendo solo a definire l’ambito temporale di operatività del divieto, così da ritenere che la portata incriminatrice della norma si estende anche nei confronti di chi non è sottoposto ad alcuna misura di prevenzione ma può prevedere che sia imminente una tale evenienza (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 2 marzo 2004, n. 19537) ;

che anche la premessa interpretativa dell’inversione dell’onere della prova non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità secondo la quale spetta alla pubblica accusa provare, sia nei confronti di colui che si rende fittiziamente titolare di beni, sia nei confronti di chi opera la fittizia attribuzione, tutti gli elementi costitutivi del reato, vale a dire il carattere fittizio di tale attribuzione e il dolo specifico di elusione delle misure di prevenzione o di  contrabbando ovvero di agevolazione della commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter del codice penale;

che, infine, la Corte rimettente si è limitata ad aderire alla prospettazione della difesa non tenendo conto, anche al fine di confutarla, dell’elaborazione giurisprudenziale in materia, sulla base della quale la Corte di cassazione ha, invece, affermato la manifesta infondatezza di un’identica richiesta di sollevare questione di costituzionalità  dell’art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge n. 306 del 1992 (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 settembre 2007, n. 39992).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Palermo con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008.