Ordinanza n. 244 del 2008

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ORDINANZA N. 244

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                              BILE                                                   Presidente

- Giovanni Maria                 FLICK                                                Giudice

- Francesco                         AMIRANTE                                             "

- Ugo                                  DE SIERVO                                             "

- Paolo                                MADDALENA                                         "

- Alfio                                 FINOCCHIARO                                      "

- Alfonso                             QUARANTA                                            "

- Franco                              GALLO                                                    "

- Luigi                                 MAZZELLA                                             "

- Gaetano                            SILVESTRI                                              "

- Sabino                              CASSESE                                                 "

- Maria Rita                        SAULLE                                                   "

- Giuseppe                          TESAURO                                                "

- Paolo Maria                     NAPOLITANO                                         "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 2 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art 10, commi 1 e 2, della stessa legge, promosso con ordinanza del 29 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Roma nel procedimento penale a carico di G. D. ed altri, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che la Corte d’appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge, «nella parte in cui, limitando l’appello alle ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc.  pen., non prevedono l’omessa e l’erronea valutazione della prova decisiva e nella parte in cui prevedono dichiararsi l’inammissibilità dell’appello»;

che la Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto da un imputato avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma che – in ordine al reato di corruzione aggravata per atti contrari ai doveri di ufficio – aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per essere il reato estinto per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche;

che, con i motivi di appello, l’imputato chiedeva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, in quanto non attinto da chiamata in correità da parte di alcun coimputato e non avendo ricevuto alcuna somma di denaro da parte del soggetto per il quale era stata adottata identica pronuncia per il medesimo fatto;

che, secondo la Corte rimettente, l’appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, non essendo più consentito l'appello quale mezzo di impugnazione delle sentenze di proscioglimento;

che, tuttavia, il rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale disciplina;

che la Corte rimettente − muovendo dalla constatazione che il capoverso dell’art. 593 cod. proc. pen., in esito alla modifica operata con l’art. 1 della legge n. 46 del 2006, statuisce che imputato e pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle ipotesi di cui all’art. 603, secondo comma, cod. proc. pen., se la nuova prova decisiva è sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado − osserva che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la “prova decisiva” «non può soggiacere ad alcuna preclusione di carattere temporale»;

che, pertanto, la norma censurata, «subordinando […] la sopravvenienza o la scoperta della nuova prova decisiva ai termini variabili di proposizione dell’appello» conseguenti all’applicazione di altre norme processuali (e, in particolare, dell’art. 544, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen., che disciplina i termini di deposito delle motivazioni della sentenza), violerebbe il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.;

che la disciplina censurata si porrebbe altresì in contrasto con il principio della parità fra le parti di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., posto che i diversi termini per la “scoperta” della nuova prova decisiva si traducono in un ampliamento o, viceversa, in un restringimento delle possibilità per le parti di addurre ed articolare la prova stessa;

che, inoltre, la norma censurata, riferendosi esclusivamente alla «prova nuova» − intesa quest’ultima come vera e propria insorgenza, in senso stretto, della nuova prova decisiva  − esclude che ai fini dell’appellabilità della sentenza possano aver rilievo «la omessa valutazione di quella decisiva o specificamente la sua erronea valutazione, nonché la mancata ammissione di una prova decisiva e l’esclusione della stessa non portata alla cognizione del giudice, indipendentemente da motivi di preclusione processuale, tutte ipotesi […] riconducibili nell’alveo dell’appello»;

che, sotto quest’ultimo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con ulteriori parametri costituzionali: innanzitutto, con l’art. 24 della Costituzione attesa la lesione del diritto di difesa, derivante da tale «condizionamento probatorio in contrapposizione oggettiva con il diritto al pieno riconoscimento dell’innocenza»; poi, con l’art. 3 della Carta, atteso che – allorquando la concorrenza delle attenuanti si risolve in un proscioglimento che implica, tuttavia, l’affermazione di responsabilità – la limitazione probatoria in questione  pone «i prosciolti in condizioni disomogenee e non portatori di una differenziata considerazione processuale»; infine, con l’art. 111, primo comma, Cost., «per la non ragionevole discriminazione del canone di coerenza tra prove a sostegno dell’appello»;

che, nella seconda parte della complessa ordinanza di rimessione, il giudice a quo prospetta quindi le censure inerenti alla “forma” del provvedimento di inammissibilità previsto dalla norma impugnata: censure che, anche in tal caso, attingono a diversi parametri costituzionali;

che, in proposito, la Corte rimettente lamenta innanzitutto che il termine molto breve per il deposito del provvedimento di inammissibilità confligge con la natura “sostanziale” di esso, che dovrebbe fornire «la dimostrazione dell’assorbente concludenza delle prove già acquisite ovvero l’esposizione della sentenza, non già un mero esame di influenza della nuova prova sull’atto gravato»;

che, sotto tale profilo, l’ordinanza di inammissibilità di cui all’art. 593 cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111, primo, sesto e settimo comma, Cost.;

che invero, se la predetta ordinanza viene ad essere pronunciata prima della instaurazione del rapporto processuale di impugnazione, ne verrebbe esclusa la possibilità della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità: con la conseguenza di una disparità di trattamento «tra imputati per i quali non può allo stato degli atti pronunciarsi più favorevole proscioglimento, pur ricorrendone le condizioni, e gli imputati che lo conseguono in virtù della nuova prova ammessa»;

che, inoltre, il contrasto con l’art. 111, primo, sesto e settimo comma, Cost., discenderebbe dalla violazione dei princípi secondo i quali il «“processo è regolato dalla legge” e la regola ordinaria  per cui “contro le sentenze” è dato il ricorso per cassazione, in quanto sono queste i provvedimenti conclusivi del merito»;

che, d’altra parte, l’ampliamento della tipologia decisoria nel giudizio d’appello conseguente alla novella − ordinanza di inammissibilità  e sentenza di annullamento della condanna di primo grado − comporterebbe «la duplicazione dei processi, in contrasto con la ragionevole durata di cui all’art. 111, secondo comma, della Costituzione».

Considerato che la Corte d’appello di Roma dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionaledell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell’art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge, nella parte in cui, limitando l’appello delle sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la prova nuova è decisiva, non prevedono, quali eccezioni alla inappellabilità della sentenza di proscioglimento, anche «l’omessa e l’erronea valutazione della prova decisiva», e nella parte in cui «prevedono dichiararsi l’inammissibilità dell’appello»;

che, come risulta dall’ordinanza di rimessione, la Corte rimettente è investita dell’appello proposto dall’imputato avverso sentenza di non doversi procedere pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale di Roma, per essere il reato estinto per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche e solleva la questione sul presupposto di doverne dichiarare l’inammissibilità ai sensi degli artt. 593 cod. proc. pen. e 10 della legge n. 46 del 2006;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 85 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sia dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva»; sia dell’art. 10, comma 2, della medesima legge, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della medesima legge dall’imputato, a norma dell’art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile»;

che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti alla Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.