Ordinanza n. 155 del 2008

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ORDINANZA N. 155

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                        Presidente

- Giovanni Maria          FLICK                                     Giudice

- Ugo                          DE SIERVO                                  "

- Paolo                        MADDALENA                               "

- Alfio                         FINOCCHIARO                            "

- Alfonso                     QUARANTA                                 "

- Franco                      GALLO                                         "

- Luigi                         MAZZELLA                                  "

- Gaetano                    SILVESTRI                                   "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Giuseppe                   TESAURO                                     "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), anche in relazione all’art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 14 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Catanzaro, del 15 marzo 2005 dalla Corte d’appello di Lecce, dell’8 maggio 2006 dalla Corte d’assise d’appello di Venezia, del 27 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Lecce, del 23 maggio, del 20 aprile e del 5 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Brescia, rispettivamente iscritte ai nn. 272, 346, 460, 480, 521, 528 e 674 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 39, 44, 45, 47 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2006 e n. 6 prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con tre ordinanze, identiche nella parte motiva – rispettivamente del 20 aprile 2006 (r.o. n. 528 del 2006), del 5 maggio 2006 (r.o. 674 del 2006) e del 23 maggio 2006 (r.o. n. 521 del 2006) – la Corte d’appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 576, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46  (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui limita la possibilità dell’appello della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, nonché dell’art. 10 della medesima legge, nella parte in cui non prevede un regime transitorio per l’appello proposto dalla parte civile contro una sentenza di proscioglimento, analogo a quello contemplato dai commi 2 e 3 dell’art. 10 per l’imputato e per il pubblico ministero;

che la Corte – premesso che, in esito ad altrettante sentenze di assoluzione pronunciate dal Tribunale di Bergamo per insussistenza del fatto o perché il fatto non costituisce reato, ciascuna delle costituite parti civili aveva proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, che fosse affermata la penale responsabilità degli imputati, con la loro condanna alle pene di legge ed al risarcimento del danno – evidenzia come, nelle more, fosse entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, precludendo alla parte civile – sempre a parere della rimettente – la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione dell’imputato;

che il giudice a quo ritiene che la nuova formulazione dell’art. 576 cod. proc. pen. − soppresso il riferimento al «mezzo previsto per il pubblico ministero», costituente, prima della novella, il solo elemento testuale idoneo a legittimare l’appello della parte civile, non contemplato autonomamente − avrebbe «ora completamente svincolato il potere di impugnativa della parte civile da quello del pubblico ministero, sicché ad essa non può più essere riconosciuta la facoltà di appello, né contro le sentenze di condanna, né contro le sentenze di assoluzione», stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione;

che, alla luce di tale premessa, la Corte d’appello di Brescia rileva come l’eliminazione del potere di impugnazione in capo alla parte civile configuri, innanzitutto, una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della lesione del principio di eguaglianza e del contrasto con quello di ragionevolezza;

che, sotto il primo aspetto, l’esercizio dell’azione civile nell’ambito del processo penale si porrebbe quale «deroga rispetto ai normali strumenti di impugnazione previsti in sede civile», impedendo alla parte civile di chiedere – a differenza di quanto avviene nell’ambito del processo civile – «il riesame nel merito di decisioni che potrebbero esserle irreparabilmente pregiudizievoli»;

che, sotto il profilo dell’irragionevolezza, la novella legislativa, se da un lato mantiene inalterata la possibilità di azionare la pretesa civilistica nel processo penale, dall’altro lato «scoraggia tale scelta, deprivandola degli adeguati strumenti di tutela giuridica»: tanto più che la deminutio per la parte civile non appare giustificata da alcuna esigenza meritevole di considerazione, non potendo per essa di certo valere le ragioni avanzate per limitare il potere di appello in capo al pubblico ministero;

che la disciplina censurata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 24 Cost., il cui disposto tutela il diritto di difesa anche della parte offesa dal reato, che risulta frustrato dalla radicale inappellabilità conseguente alla novella legislativa;

che, infine, la normativa in questione violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., per il quale il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parità fra le stesse: entrambi questi principi risulterebbero radicalmente negati alla parte civile nella fase dell’appello, posto che essa è oggi privata del potere di proporre impugnazione, con un evidente squilibrio tra le parti ed alterazione del contraddittorio nella fase dell’appello;

che la Corte rimettente assume poi come anche la disposizione transitoria dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 si ponga in contrasto con i medesimi parametri costituzionali evocati, nella parte in cui non prevede, per la parte civile, alcun regime transitorio, contemplato invece nei commi 2 e 3 dell’art. 10, per il pubblico ministero e l’imputato: con la conseguenza che alla parte civile non competerebbe né la notifica dell’ordinanza di inammissibilità, né la possibilità di proporre ricorso per cassazione;

che la disciplina censurata determinerebbe una evidente disparità di trattamento fra pubblico ministero ed imputato, da un lato, e parte civile, dall’altro; una disparità manifestamente priva di qualsiasi ragionevole giustificazione, con violazione anche del principio di parità fra le parti di cui all’art. 111 Cost., oltre che del già richiamato diritto di difesa in capo alla parte civile;

che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 97 e 111 Cost., dalla Corte d’appello di Lecce con ordinanza del 15 marzo 2006 (r.o. n. 346 del 2006), con la quale sono censurati l’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, «in relazione all’art. 593 dello stesso codice, nella parte in cui non consente alla parte civile di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento», e l’art. 10 della medesima legge, quest’ultimo nella parte in cui «anche con riferimento alla parte civile, dichiara applicabile la disciplina da essa introdotta ai processi in corso»;

che la Corte rimettente − premesso che la difesa della parte civile aveva proposto rituale impugnazione ai fini civili avverso la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Brindisi, e che, tuttavia, dopo la proposizione di essa, era entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 − in esito alla ricognizione del nuovo quadro normativo, perviene alla conclusione che la novella in oggetto abbia escluso la possibilità, per la parte civile, di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione dell’imputato;

che, in particolare, il giudice a quo – muovendo dal principio di tassatività delle impugnazioni evocato dall’art. 568 cod. proc. pen. – constata l’assenza, nel testo novellato dell’art. 576 cod. proc. pen., di ogni riferimento ad uno specifico mezzo di impugnazione per la parte civile: con la conseguenza che tale mezzo dovrebbe essere individuato sulla base delle specifiche norme in tema di appello e di ricorso per cassazione;

che, al riguardo, la Corte rimettente osserva tuttavia come sia inconferente, al fine di tale individuazione, il richiamo alle varie norme del codice di rito; e, tanto meno, quello alla perdurante vigenza dell’art. 600 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma prevede il diritto della parte civile di appellare contro il punto della sentenza di primo grado che attiene alla provvisoria esecuzione delle condanne in materia risarcitoria; 

che, d’altra parte, la Corte rimettente rileva come – eliminato il suddetto potere per la parte civile – il legislatore non abbia previsto, per questa parte processuale, alcun regime transitorio, contemplato, invece, nei commi 2 e 3 dell’art. 10, per il pubblico ministero e l’imputato: con la conseguenza che alla parte civile, la quale abbia  già proposto impugnazione al momento dell’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, non è consentito proporre ricorso per cassazione, entro i quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento dichiarativo della inammissibilità, «non risultando possibile, sempre in ragione del principio di tassatività delle impugnazioni, un’interpretazione estensiva» di questa disciplina transitoria anche alla parte civile;

che – alla luce di tali premesse di ricostruzione del sistema – la Corte d’appello di Lecce ritiene fondati i dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento, innanzitutto, all’art. 111 Cost. ed ai principi della parità tra le parti e del contraddittorio; da intendersi, questi ultimi, riferiti non alla sola fase del giudizio, ma anche al «successivo momento, di reazione avverso la statuizione con cui è stato definito il giudizio medesimo»;

che la parte civile – oltre ad essere discriminata rispetto alle altre parti processuali (segnatamente, rispetto al danneggiante-imputato) – verrebbe irragionevolmente privata di uno strumento di doglianza nel merito, nei confronti della decisione del primo giudice; strumento riconosciuto, invece, allorquando l’azione civile venga esercitata dinnanzi al giudice civile;

che tale ultima constatazione − argomenta ancora la Corte rimettente − «involge, quale inevitabile ricaduta anche la lesione del principio di eguaglianza e del diritto di agire in giudizio a salvaguardia dei propri diritti, sanciti, rispettivamente, dagli artt. 3 e 24 della Carta costituzionale» (parametri che, nondimeno, non vengono espressamente indicati nel dispositivo);

che, infine, la disciplina censurata violerebbe anche l’art. 97 Cost., sotto un duplice profilo: per il «sensibile carico di lavoro» di cui viene gravata, in esito alla novella censurata, la Corte di cassazione; e per la circostanza che essa diviene «giudice della legalità non più della sentenza, ma dell’intero processo», così mutando la sua stessa natura di giudice del diritto;

che, con altra ordinanza del 27 marzo 2006 (r.o. 480 del 2006), la Corte d’appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale identica, quanto ad oggetto dell’impugnativa, rispetto a quella appena sopra esaminata;

che, anche nell’ordinanza di rimessione in esame, la Corte d’appello di Lecce − chiamata a delibare l’ammissibilità di un appello proposto, agli effetti civili, dalla parte civile avverso una sentenza assolutoria − muove dal presupposto della inammissibilità della proposta impugnazione, sulla scorta di argomentazioni analoghe a quelle svolte nell’ordinanza iscritta al n. 346 del registro ordinanze del 2006;

che la soppressione del potere di impugnazione in capo alla parte privata compromette, a giudizio della Corte rimettente, il principio di parità delle parti nel processo penale, garantito dall’art. 111 Cost.: ciò in ragione della circostanza che, mentre ad una delle parti, l’imputato, «è giustamente  garantita la possibilità di un nuovo giudizio di merito», nell’ipotesi «speculare» di assoluzione dell’imputato «analoga possibilità non è data − con violazione anche del principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 Cost. − alla persona offesa  dal reato che si è costituita parte civile, e con ingiustificato sacrificio anche del diritto della parte civile di far valere in giudizio le proprie ragioni, garantito dall’art. 24 della Costituzione»;

che analoghe considerazioni varrebbero poi in relazione all’art. 10 della legge n 46 del 2006, atteso che il regime transitorio in esso disciplinato (e, in particolare, la prevista possibilità di ricorso per cassazione) si applicherebbe solo − dato l’inequivoco tenore letterale del comma 2 − agli appelli già proposti dal pubblico ministero e dall’imputato, ma non a quelli avanzati dalla parte civile;

che, pertanto, per gli appelli della parte civile dovrebbe trovare applicazione il disposto dell’ultimo comma dell’art. 568 cod. proc. pen., vale a dire la conversione automatica dell’impugnazione in ricorso per cassazione: interpretazione, questa, che, sebbene ritenuta dal giudice rimettente l’unica consentita dal testo della legge, comporterebbe quale inevitabile − ma inaccettabile − conseguenza che un appello, del tutto legittimo, divenga inammissibile in forza dell’applicazione retroattiva della novella; con conseguente contrasto con i parametri costituzionali già sopra specificati;

che, con ordinanza del 14 marzo 2006 (r.o. n. 272 del 2006), la Corte d’appello di Catanzaro censura, in riferimento agli artt. 3 e 111, settimo comma, Cost., gli artt. 6 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui «non esplicitano il mezzo di impugnazione esperibile dalla parte civile avverso pregiudizievoli pronunce di primo grado e nulla dispongono circa il regime applicabile in via transitoria, agli appelli proposti dalla parte civile avverso le sentenze di assoluzione»;

che la Corte rimettente − premesso di dover delibare un appello, ritualmente proposto dalla parte civile avverso una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme in composizione monocratica;  e ritenuta la rilevanza della questione medesima, «in quanto le disposizioni impugnate dovrebbero trovare immediata applicazione al giudizio» − osserva che le disposizioni transitorie della legge n. 46 del 2006 «nulla dicono sulla ammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile»; e che – seppure si dovesse ritenere «immediatamente applicabile» il disposto dell’art. 6 della novella del 2006, che ha modificato l’art. 576 cod. proc. pen. – non verrebbe risolto il problema, alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, di quale debba essere il mezzo di impugnazione nel caso di specie: se, cioè, l’appello o il ricorso per cassazione;

che − a parere del giudice a quo − la prima soluzione «determinerebbe una palese ed irragionevole disparità di trattamento tra la pretesa privata e la pretesa pubblica, in quanto la parte civile sarebbe abilitata a proporre appello, per fini civilistici, avverso sentenze che il P.M. per fini penali non può appellare»; mentre, optando per la seconda soluzione, si porrebbe il problema di una conversione dell’impugnazione in ricorso per cassazione non disciplinata in via transitoria, ciò che «non consentirebbe alla parte di modulare i parametri in funzione dei poteri del giudice di legittimità»;

che ciò si tradurrebbe sia in una violazione dell’art. 3 Cost., per intrinseca irragionevolezza e disparità di trattamento, quanto in un contrasto con il disposto dell’art. 111, settimo comma, Cost., «perché sarebbe precluso il potere di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, nelle corrette forme previste»;

che, con ordinanza dell’8 maggio 2006 (r.o. n. 460 del 2006), la Corte d’assise d’appello di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 10, comma 1, della legge n. 46 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., «nella parte in cui prevede l’applicazione della nuova disciplina anche all’appello proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento pronunciato nel giudizio, già pendente all’atto della sua entrata in vigore»; ed, in via subordinata, del medesimo art. 10, commi 2 e 3, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., «nella parte in cui non prevedono la loro applicazione anche all’appello proposto dalla parte civile contro una sentenza di proscioglimento»;

che la Corte rimettente − chiamata a delibare l’appello proposto dalla parte civile avverso una sentenza di assoluzione dai reati di omicidio volontario e detenzione e porto di arma da fuoco, emessa dalla Corte d’assise di Treviso − muove dalla constatazione che, in esito all’entrata in vigore della novella n. 46 del 2006, risulterebbe non più ammesso, nel rito penale, l’appello della parte civile avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento: e ciò sulla base di argomentazioni del tutto analoghe a quelle sviluppate dalle altre Corti rimettenti nelle ordinanze sopra richiamate;

che, allo stesso modo, la Corte d’assise d’appello di Venezia ritiene che l’art. 10, commi 2 e 3, della legge n. 46 del 2006 non si applichi alla parte civile, la quale, pertanto, potrebbe essere ammessa a proporre ricorso per cassazione solo in forza del disposto dell’ultimo comma dell’art. 568 cod. proc. pen.;

che – a giudizio della Corte rimettente – mentre l’eliminazione “a regime” del potere di impugnazione in capo alla parte civile non porrebbe alcun problema di compatibilità costituzionale, proprio con riferimento alla citata disciplina transitoria verrebbe in evidenza un profilo di disarmonia con alcuni principi della Carta fondamentale;

che, infatti, «la retroattività dell’inammissibilità dell’appello, già tempestivamente e ritualmente proposto», configurerebbe una violazione del diritto di difesa della parte danneggiata garantito dall’art. 24 Cost.; infatti – mentre l’abolizione dell’appello per i nuovi processi lascerebbe alla parte danneggiata la piena valutazione circa il rapporto tra vantaggi ed inconvenienti derivanti dall’esercizio dell’azione civile nel processo penale – la disciplina contenuta nel comma 1 dell’art. 10 «confisca di fatto il diritto di azione già esercitato, vanificandolo senza rimedi e senza alcuna ragionevolezza»: così violando anche il disposto dell’art. 3 Cost., in relazione alla considerazione che la medesima azione, «se proposta nella sede civile, avrebbe tranquillamente potuto essere coltivata ulteriormente»;

che, quanto alla questione prospettata in via subordinata, la Corte rimettente evidenzia come, per la parte civile, la forzata conversione dell’appello in ricorso − conseguente alla mancanza di una disciplina transitoria applicabile all’impugnazione proposta da tale parte processuale − senza la possibilità di “emendare”, in alcun modo, gli aspetti formali e sostanziali dell’atto di impugnazione, si tradurrebbe «in una sostanziale espropriazione del diritto di difesa dell’appellante»;

che la disciplina censurata determinerebbe, sotto tale profilo, una irragionevole disparità di trattamento tra pubblico ministero e imputato, da un lato, e parte civile, dall’altro; con conseguente violazione tanto del principio di eguaglianza di cui all’art. 3, quanto di quello della parità delle parti sancito dall’art. 111 Cost.;

che in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio di ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza delle questioni;

che la difesa erariale assume, infatti, che il dubbio di costituzionalità originerebbe da un errato presupposto ermeneutico: vale a dire, che la disciplina introdotta con la legge n. 46 del 2006 avrebbe privato la parte civile della possibilità di appellare la sentenza di proscioglimento;

che, viceversa, l’art. 6 della legge citata si sarebbe limitato ad eliminare l’inciso contenuto nel testo originario («con il mezzo previsto per il pubblico ministero»), coerentemente con la scelta di limitare drasticamente la possibilità del pubblico ministero e dell’imputato di appellare contro le sentenze di proscioglimento; ma non avrebbe tuttavia pregiudicato, in alcun modo, l’esperibilità di tale rimedio, evidentemente ai soli effetti civili, dalla parte civile; e ciò sarebbe confermato anche dalla permanenza, nel sistema, di una norma come l’art. 600, comma 1, cod. proc. pen., che il legislatore della novella non avrebbe inteso abrogare ed il cui contenuto presupporrebbe, evidentemente, la permanenza del potere di appello della parte civile;

che l’Avvocatura deduce altresì l’inammissibilità delle questioni, sotto il profilo della mancata esplorazione – da parte dei giudici rimettenti – di una diversa possibilità ermeneutica, circa il presupposto interpretativo su cui si fonda la questione: ciò anche in ragione di uno degli orientamenti della Corte di cassazione, che afferma il perdurante potere di impugnazione in capo alla parte civile;

che, in particolare, in riferimento alla questione sollevata dalla Corte d’appello di Lecce (r.o. 480 del 2006) ed inerente l’art. 10 della legge n. 46 del 2006, l’Avvocatura ritiene che essa, per come prospettata, sia inammissibile «essendosi il giudice a quo limitato a denunciare il contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, senza minimamente argomentare nel senso della prospettata incostituzionalità»;

che, infine, in relazione alla questione prospettata dalla Corte d’appello di Catanzaro (r.o. n. 272 del 2006), la difesa erariale deduce, da un lato, l’assoluto difetto di motivazione sulla rilevanza, essendosi la Corte rimettente limitata ad affermare, apoditticamente, che le disposizioni impugnate «dovrebbero trovare applicazione nel presente giudizio»; eccepisce, dall’altro lato, il carattere del tutto ipotetico della questione, posto che il rimettente avrebbe omesso di indicare quale, tra le disposizioni enucleabili dalla norma impugnata, intendesse sottoporre allo scrutinio di costituzionalità.

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche e, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica decisione;

che i giudici a quibus dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), quest’ultimo direttamente censurato dalla Corte d’appello di Catanzaro, nella parte in cui escluderebbe, in capo alla parte civile, il potere di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato, e dell’art. 10 della medesima legge;

che comune a tutte le ordinanze di rimessione è la premessa interpretativa secondo cui la riforma delle impugnazioni del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello; deduzione, questa, cui i rimettenti − alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione espresso nell'art. 568, comma 1, cod. proc. pen. − pervengono in forza di una duplice considerazione: sia la constatazione che la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall'art. 593 cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell'art. 576 del codice di rito − nel corpo del quale è stata soppressa l'originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero − non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire;

che, peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (cfr. ordinanza n. 32 del 2007) − ha evidenziato che «deve registrasi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;

che, in particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;

che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda Cassazione, sezioni unite, 29 marzo 2007, n. 27614), la quale ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;

che, nell'affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;

che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messaggio presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;

che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque – contrariamente a quanto assumono i rimettenti – l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 – evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto – nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale principio tempus regit actum, tipico della materia processuale;

che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni impugnate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l’ordinanza n. 3 del 2008).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), anche in relazione all’art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Brescia, dalla Corte d’appello di Lecce, dalla Corte d’appello di Catanzaro e dalla Corte d’assise d’appello di Venezia, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.