Sentenza n. 146 del 2008

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 146

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                BILE                     Presidente

- Giovanni Maria    FLICK                  Giudice

- Francesco AMIRANTE                             "

- Ugo           DE SIERVO                             "

- Alfonso      QUARANTA                            "

- Franco       GALLO                                    "

- Luigi          MAZZELLA                             "

- Gaetano     SILVESTRI                              "

- Sabino       CASSESE                                "

- Maria Rita  SAULLE                                  "

- Giuseppe   TESAURO                               "

- Paolo Maria         NAPOLITANO               "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Torino nel procedimento civile vertente tra Arace Luigi e la Provincia di Torino, iscritta al n. 542 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visto l’atto di costituzione di Arace Luigi nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi l’avvocato Marco Pizzetti per Arace Luigi e l’avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 febbraio 2007, il Tribunale di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), nella parte in cui prevede che «Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall'articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica», per violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Il Tribunale di Torino sottolinea che il giudizio a quo ha ad oggetto la domanda del ricorrente, lavoratore dipendente della Provincia di Torino, di ricevere dall’amministrazione il pagamento dell’aliquota giornaliera di retribuzione prevista dall’art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), in relazione alle coincidenza con la domenica delle giornate del 2 giugno 2002 e del 25 aprile 2004.

Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente afferma che, in applicazione dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, lo Stato, gli enti pubblici e gli imprenditori privati devono corrispondere ai salariati retribuiti in misura fissa, qualora le festività previste dal primo comma del medesimo art. 5 ricorrano di domenica, oltre alla retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, anche un’ulteriore retribuzione corrispondente all’aliquota giornaliera

Sostiene altresì che la giurisprudenza della Corte di cassazione si è consolidata nel senso di ritenere che con l’espressione «salariati» si deve far riferimento all’intera categoria dei lavoratori subordinati, senza alcuna distinzione tra operai e impiegati e che la spettanza di tale compenso aggiuntivo fisso deve essere condizionata soltanto dalla coincidenza della festività con la domenica e non anche dalla circostanza che in tale giornata il dipendente abbia effettuato prestazioni lavorative, essendo la sua ratio quella di compensare quest’ultimo della perdita di un giorno di riposo. Il riferimento allo Stato e agli altri enti pubblici – sempre secondo il rimettente – non lascia alcun dubbio sull’applicabilità della norma anche al pubblico impiego.

Ad avviso del Tribunale di Torino, l’unico ostacolo all’accoglimento della domanda,  ricorrendo altrimenti tutti i presupposti per l’applicazione dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, è costituito dall’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005. Tale disposizione avrebbe un contenuto innovativo con effetto retroattivo in quanto l’affermazione che l’art. 5 rientra tra le norme generali e speciali del pubblico impiego di cui all’art. 69 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), non costituirebbe opera di interpretazione dell’art. 69 stesso, ma, piuttosto, una qualificazione giuridica dell’art. 5 come norma del pubblico impiego.

A tale proposito, il rimettente osserva che l’art. 69 sopra indicato si riferisce alla preesistente normativa speciale del pubblico impiego di cui prevede la progressiva inapplicabilità a seguito della contrattazione collettiva, mentre l’art. 5 della legge n. 260 del 1949 è una norma dettata per ogni rapporto di lavoro subordinato, pubblico e privato, e, dunque, da ricondurre alla previsione di incondizionata applicabilità sancita dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Da questa ricostruzione risulterebbe evidente la volontà del legislatore di escludere, con effetto retroattivo, l’applicabilità dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ai dipendenti pubblici.

Il rimettente afferma, sempre al fine della rilevanza, che nessuna diversa disciplina del diritto rivendicato dal ricorrente è rinvenibile nei contratti collettivi alla cui stipulazione l’art. 69 ha subordinato l’inapplicabilità delle norme previgenti. La contrattazione collettiva, infatti, non avrebbe affrontato la materia delle festività, con ogni probabilità proprio perché disciplinata da una norma di legge relativa a tutti i rapporti di lavoro pubblici e privati. In ogni caso i contratti collettivi nazionali, sia quello relativo al 1994–1997, sia quello per il periodo 1998–2001, rimanderebbero, per tutto quello dagli stessi non previsto, alle previgenti norme di legge (art. 43 e art. 26).

A parere del Tribunale di Torino, la questione non è manifestamente infondata in quanto la norma censurata introduce una inequivocabile disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati retribuiti in maniera fissa, disparità che, a seguito della riforma del pubblico impiego, potrebbe ritenersi legittima solo qualora si fosse in presenza di una effettiva  sostanziale non omogeneità delle situazioni poste a raffronto, secondo quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 89 del 2003).

Nel caso di specie, secondo il rimettente, non è possibile rinvenire alcuna ragione per ritenere che la situazione del dipendente privato abbia caratteristiche che la differenzino da quella del dipendente pubblico, dato che in entrambi i casi si verifica la perdita di una giornata di riposo per effetto della coincidenza di una festività civile con la domenica. L’assenza di profili distintivi tra tali situazioni appare, sempre secondo il giudice a quo, di tutta evidenza, ove si consideri che lo stesso legislatore del 1949 le aveva disciplinate allo stesso modo, dettando un’unica norma indirizzata agli imprenditori privati, allo Stato e agli altri enti pubblici.

L’unica ragione giustificatrice della scelta legislativa di differenziare la posizione dei dipendenti pubblici potrebbe essere quella del risanamento della finanza pubblica, che impone di contemperare con le disponibilità di questa la tutela del pubblico dipendente. Tuttavia tale ultima esigenza, anche se seria e condivisibile, non sarebbe di per sé sufficiente a giustificare una differenziazione della condizione del dipendente pubblico da quella del dipendente privato.

Tra l’altro, l’esigenza di salvaguardia della finanza pubblica sarebbe così generale che potrebbe giustificare qualsiasi differenziazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico da quello privato.

2.– Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale, Arace Luigi, che, nell’atto di intervento, evidenzia la correttezza dell’interpretazione data dal giudice rimettente all’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in conformità all’indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la norma è volta ad indennizzare, attraverso il pagamento di una retribuzione aggiuntiva corrispondente all’aliquota giornaliera, la mancata fruizione di una giornata di riposo in conseguenza della coincidenza con la domenica di talune festività.

Altrettanto condivisibile, sempre secondo la difesa dell’interveniente, è l’interpretazione circa l’applicabilità della norma tanto al lavoro privato che al pubblico impiego e la conseguente impossibilità che la stessa possa essere qualificata quale «norma generale e speciale del pubblico impiego» divenuta oggi inapplicabile per il particolare meccanismo previsto dall’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001. La norma oggetto di censura, pertanto, non sarebbe affatto una norma interpretativa ma, invece, innovativa con effetti retroattivi, avendo reso inapplicabile ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni il più volte citato art. 5 della legge n. 260 del 1949.

Quanto alla non manifesta infondatezza, l’interveniente ancora una volta condivide le considerazioni addotte dal rimettente. In particolare evidenzia come la norma si ponga in contrasto con l’art. 3 della Costituzione e con il principio di ragionevolezza per l’ingiustificata disparità di trattamento che determinerebbe tra i lavoratori pubblici e quelli privati.

Con la privatizzazione del pubblico impiego, infatti, il legislatore ha voluto uniformare il rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Conseguentemente, si giustificherebbero differenze nella disciplina solo per esigenze specifiche relative alle peculiarità del pubblico impiego

In questo contesto, a parere della parte privata, una regolamentazione diversa di singoli aspetti del rapporto di lavoro pubblico da quello privato potrebbe ritenersi legittima solo se trovasse la sua giustificazione nei principi costituzionali che regolano l’attività della pubblica amministrazione.

Tali peculiarità sono state evidenziate dalla Corte costituzionale in tema di reclutamento del personale in forza del principio del pubblico concorso stabilito dall’art. 97 Cost., nella disciplina dello svolgimento di mansioni superiori e nel conferimento e nella revoca di incarichi dirigenziali, al fine di evitare abusi nella progressione in carriera in violazione dei principi di imparzialità e legalità che reggono l’agire delle pubbliche amministrazioni.

Con riguardo al caso in oggetto, invece, la disparità di trattamento operata dall’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 risulterebbe del tutto ingiustificata in quanto la situazione di fatto si presenterebbe del tutto identica sia nel lavoro pubblico che in quello privato e la ratio sottesa all’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 sarebbe indifferentemente applicabile ad entrambi i tipi di rapporto.

Infine, l’interveniente ribadisce che l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica non può da solo giustificare l’indicata disparità di trattamento, tanto più che, in base alla previsione degli artt. 45, 46, 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001, esso deve essere efficacemente perseguito in sede di stipulazione della contrattazione collettiva.

3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, costituitosi a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, eccepisce l'inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità.

Preliminarmente, l’Avvocatura dello Stato afferma che l’ordinanza di rimessione non è sufficientemente dettagliata in merito alla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Dalla semplice lettura della norma censurata risulterebbe evidente, infatti, che essa disciplina l’ipotesi di coloro che hanno prestato attività lavorativa in una delle indicate festività casualmente coincidente con la domenica, mentre nell’ordinanza del Tribunale di Torino non è in alcun modo specificato se effettivamente il dipendente abbia prestato la propria attività lavorativa nei giorni indicati. A colmare questa lacuna non sarebbe sufficiente neanche il richiamo operato dal rimettente all’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il compenso aggiuntivo di cui al terzo comma dell’art. 5 è subordinato alla sola circostanza della coincidenza della festività con la domenica, in quanto tale indirizzo non può ritenersi “diritto vivente”, dato che vi sarebbero numerose pronunce di segno opposto. Sotto questo profilo, pertanto, la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione sul requisito della rilevanza.

La prospettata questione di costituzionalità sarebbe altresì inammissibile in quanto dall’ordinanza non emergerebbe quale contratto collettivo sia applicabile al caso di specie.

Nel merito, infine, la questione sarebbe infondata.

A parere dell’Avvocatura, la premessa da cui muove il Tribunale di Torino, vale a dire che con la riforma di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 sarebbe stato operato un assoggettamento del rapporto di lavoro pubblico alla disciplina del rapporto di lavoro privato, anche se esatta, non può essere considerata in senso assoluto. La Corte costituzionale, infatti, ha affermato che rientra nella discrezionalità del legislatore disegnare l’ambito di estensione di tale privatizzazione, con il limite del rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e della non irragionevolezza della disciplina differenziata. La stessa disciplina contenuta nel citato d.lgs. n. 165 del 2001 dimostrerebbe che alcune differenziazioni sono giustificate dalla particolare natura del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti.

La norma in esame, pertanto, frutto di una scelta discrezionale del legislatore in considerazione delle particolari caratteristiche del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, non si porrebbe in contrasto con la Costituzione.

In prossimità dell’udienza l’Avvocatura dello Stato e la parte interveniente, mediante il deposito di memorie, hanno ribadito le rispettive richieste.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Torino, sezione lavoro, dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), nella parte in cui prevede che «Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall'articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica».

1.1.– Preliminarmente, occorre prendere in considerazione l’eccezione di inammissibilità dedotta dall’Avvocatura dello Stato in relazione alla insufficiente descrizione della fattispecie che sarebbe stata operata dal giudice a quo.

Secondo la difesa statale l’ordinanza di rimessione non chiarirebbe se il ricorrente abbia o meno lavorato nelle giornate del 2 giugno 2002 e 25 aprile 2004, allorché la festa nazionale e l’anniversario della liberazione hanno coinciso con la domenica. La conoscenza di tale circostanza sarebbe necessaria ai fini della valutazione della rilevanza, in quanto l’art. 5, terzo comma, secondo periodo, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), andrebbe interpretato nel senso che il beneficio da esso concesso è applicabile solo ai lavoratori salariati retribuiti in misura fissa che abbiano effettivamente lavorato in una giornata festiva coincidente con la domenica. L’indirizzo giurisprudenziale contrario, secondo il quale non sarebbe necessario che il dipendente abbia lavorato nella giornata festiva coincidente con la domenica per maturare l’incremento retributivo, non essendo sufficientemente consolidato, non costituirebbe diritto vivente.

L’Avvocatura dello Stato, inoltre, ritiene insufficiente la descrizione della fattispecie operata dal rimettente anche relativamente alla mancata precisazione di quale contratto collettivo sia applicabile al caso di specie, se quello del comparto Regioni e autonomie locali del quadriennio 1994–1997, ovvero quello del quadriennio 1998–2001.

L’eccezione dell’Avvocatura dello Stato è da respingere sotto entrambi i profili.

Quanto al primo, deve rilevarsi che il rimettente espressamente afferma di voler aderire all’interpretazione della Corte di cassazione che ritiene debba essere corrisposta un’aliquota giornaliera aggiuntiva a tutti i lavoratori salariati in misura fissa per il solo fatto che la festività coincida con la domenica, in quanto la finalità del legislatore è quella di compensare il lavoratore della giornata di riposo persa. Detto orientamento, contrariamente a quanto affermato dalla difesa erariale, è adottato stabilmente dalla Corte di cassazione da più di un decennio e può dirsi costituire “diritto vivente”.

Con riferimento al secondo profilo di inammissibilità, è sufficiente rilevare come dall’ordinanza emerga in modo chiaro che il periodo di contrattazione collettiva preso a riferimento è quello che disciplina il contratto di lavoro vigente alle date del 2 giugno 2002 e del 25 aprile 2004. Risulta altresì che in tali date la festività nazionale abbia coinciso con la domenica.

2.– A parere del rimettente, dopo la riforma del pubblico impiego culminata con il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è assimilata a quella  del rapporto di lavoro svolto alle dipendenze di datori di lavoro privati e, pertanto, la norma denunciata contrasterebbe con il principio di eguaglianza, non essendo costituzionalmente legittimo differenziare, in mancanza di ragioni che possano giustificarlo, due situazioni identiche in relazione al trattamento delle festività coincidenti con la domenica.

2.1.– La questione non è fondata.

La stessa premessa da cui muove il rimettente non può ritenersi corretta dal momento che,  malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee.

Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003).

Ha altresì già precisato che la specificità del «lavoro pubblico, per il quale rileva l’art. 97 Cost.» (sentenza n. 367 del 2006) legittima differenziazioni di trattamento rispetto al lavoro privato, e che «le peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego [che è] “efficace erga omnes”, “funzionale all’interesse pubblico di cui all’art. 97  Cost.”, inderogabile sia in peius che in melius, oggetto di diretto sindacato da parte della Corte di cassazione per violazione o falsa applicazione» influiscono anche sul piano processuale determinando «l’impossibilità di ritenere a priori irrazionali le peculiarità» della diversa disciplina (sentenza n. 199 del 2003).

Anche con riferimento alla norma denunciata, relativa al compenso per la perdita di un giorno di riposo nel caso in cui la festività civile coincida con la domenica, non è possibile effettuare una comparazione tra la categoria dei lavoratori che prestano la loro attività nelle pubbliche amministrazioni  e quella dei dipendenti dai datori di lavoro privati, non sussistendo quella omogeneità di situazioni normative che renderebbe ingiustificata la diversa regolamentazione adottata.

A tale proposito, va evidenziato che la norma oggetto di censura ha come finalità il contenimento e la razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego, finalità questa che è imposta dall’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), e ribadita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001.

In particolare il d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 1, comma 1, lettera b), individua, tra gli scopi che detta normativa generale sul pubblico impiego si prefigge, l’esigenza di «razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica». Il rinvio, operato dal successivo comma 2, alle «leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa» per ciò che concerne i «rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche» subisce il limite delle «diverse disposizioni contenute [in tale] decreto». Detto vincolo, nell’ulteriore comma 3, viene specificato prevedendo che «l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale».

Il legislatore, dunque, ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem. Lo stesso controllo sulla spesa pubblica per il personale viene quindi incentrato sulla contrattazione collettiva. A tal fine sono disposti i controlli della Corte dei conti sull’ipotesi di contratto collettivo nazionale, ai sensi dell’art. 47, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, ed è stabilito il rispetto del vincolo risultante dai contratti collettivi.

D’altra parte, con riferimento alla questione in oggetto, gli stessi contratti collettivi, oltre a ribadire il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, hanno previsto una dettagliata regolamentazione del godimento delle ferie, delle festività e degli eventuali riposi compensativi, con il risultato che, se si applicasse oltre al contratto collettivo quanto prevede l’art. 5 della legge n. 260 del 1949, si avrebbe una almeno parziale duplicazione dello stesso beneficio.

La disposizione legislativa innanzi citata prevedeva, infatti, il beneficio dell’attribuzione di «una ulteriore retribuzione corrispondente all’aliquota giornaliera» nell’ipotesi in cui la festività nazionale della Repubblica (2 giugno), l’anniversario della liberazione (25 aprile), la festa del lavoro (1° maggio) ed il giorno dell’unità nazionale (4 novembre) avessero coinciso con la festività domenicale. Ma, avendo la legge 5 marzo 1977, n. 54 (Disposizioni in materia di giorni festivi), spostato, per ciò che interessa la presente questione, la celebrazione della festività nazionale della Repubblica e quella dell’unità nazionale, rispettivamente, alla prima domenica di giugno e alla prima domenica di novembre, con contestuale cessazione delle festività del 2 giugno e del 4 novembre, la legge 23 dicembre 1977, n. 937 (Attribuzione di giornate di riposo ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni), ha previsto per i «dipendenti civili e militari delle pubbliche amministrazioni centrali e locali […] in aggiunta ai periodi di congedo previsti dalle norme [allora] vigenti sei giornate complessive di riposo», di cui due in aggiunta al congedo ordinario e quattro con una disciplina particolare. E’ appena il caso di dire che, ai fini delle presenti considerazioni, è irrilevante la modifica normativa apportata con l’art. 1 della legge 20 novembre 2000, n. 336 (Ripristino della festività nazionale del 2 giugno, data di fondazione della Repubblica), poiché questo intervento legislativo non ha determinato una riconsiderazione della materia. Il contenuto sostanziale della disciplina prevista dalla legge n. 937 del 1977 è stato, successivamente, trasferito nei contratti collettivi.

In particolare, l’art. 18 del contratto collettivo nazionale del comparto Regioni-Enti locali del 6 luglio 1995 prevede al comma 2 dell’art. 18 che «La durata delle ferie è di 32 giorni lavorativi comprensivi delle due giornate previste dall’articolo 1, comma 1, lettera “a”, della L. 23 dicembre 1977, n. 937» ed al successivo comma 6 che  «a tutti i dipendenti sono attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell’anno solare ai sensi e alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937 del 1977». Identica disciplina è stata prevista dall’art. 10 dell’ultimo contratto collettivo.

Infine, il contratto collettivo nazionale «per il personale del comparto regioni autonomie locali successivo a quello dell’1 aprile 1999», all’art. 24, disciplina il trattamento per l’attività prestata in giorno festivo e il diritto al riposo compensativo e, al successivo art. 52, nel fornire la nozione di retribuzione, prevede espressamente che, nell’ipotesi di mancata fruizione delle quattro giornate di riposo di cui all’art. 18, comma 6, del contratto collettivo del 6 luglio 1995, al dipendente debba essere riconosciuto lo stesso trattamento economico previsto per i giorni di ferie.

Da tale descrizione del quadro normativo e negoziale emerge che, contrariamente a quanto affermato dal rimettente, la materia delle festività è stata oggetto della contrattazione collettiva sin dalla prima stipulazione relativa al quadriennio 1994–1998, tanto che al dipendente pubblico del comparto regioni-autonomie locali sono tuttora riconosciuti i trattamenti di favore previsti dalla legge n. 937 del 1977 che aveva ad oggetto i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e non si applicava al rapporto di lavoro privato. Ne consegue che, nell’ipotesi di accoglimento della prospettata questione di illegittimità costituzionale, si avrebbe una sovrapposizione di benefici dello stesso genere.

Più in generale, va ribadito che le differenze ancora esistenti tra il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e il rapporto di lavoro alle dipendenze dei datori di lavoro privati rendono ingiustificata la pretesa di estendere, in nome del principio di eguaglianza, l’attribuzione di una singola disposizione, quale quella oggetto di censura, senza tenere conto del quadro complessivo del trattamento economico-normativo dei dipendenti della pubblica amministrazione, quale risulta a seguito dell’applicazione delle procedure di contrattazione collettiva previste dal legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Torino, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.