Ordinanza n. 4 del 2008

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ORDINANZA N. 4

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                        Presidente

- Giovanni Maria          FLICK                                     Giudice

- Francesco                 AMIRANTE                                  "

- Ugo                          DE SIERVO                                  "

- Paolo                        MADDALENA                               "

- Alfio                         FINOCCHIARO                            "

- Alfonso                     QUARANTA                                 "

- Franco                      GALLO                                         "

- Luigi                         MAZZELLA                                  "

- Gaetano                    SILVESTRI                                   "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                 SAULLE                                       "

- Giuseppe                   TESAURO                                     "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell’art. 10 della stessa legge n. 46 del 2006, promossi con ordinanze del 15 marzo 2006 dalla Corte militare d’appello di Verona nel procedimento penale a carico di D.F.F. e del 5 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Salerno nel procedimento penale a carico di D.L.V., iscritte ai nn. 276 e 490 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 36 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Visto l’atto di costituzione di G. A.;

         udito nell’udienza pubblica dell’11 dicembre 2007 e nella camera di consiglio del 12 dicembre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

         Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui ha soppresso la facoltà del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere;

         che la Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza emessa l’8 marzo 2005, con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Padova ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un vice brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, imputato del reato di diffamazione aggravata continuata (artt. 227 e 47, numeri 2 e 4, del codice penale militare di pace), perché il fatto non costituisce reato, stante la ritenuta applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 del codice penale;

         che il gravame – prosegue il giudice a quo – benché perfettamente rituale alla stregua della legge processuale vigente al tempo della sua proposizione, sarebbe destinato ad una declaratoria di inammissibilità a fronte della sopravvenuta legge n. 46 del 2006; quest’ultima, novellando l’art. 428 cod. proc. pen., ha reso inappellabili le sentenze di non luogo a procedere, stabilendo, altresì, all’art. 10, che gli appelli proposti contro sentenze di proscioglimento anteriormente all’entrata in vigore della novella sono dichiarati inammissibili;

         che, ad avviso del rimettente, il nuovo art. 428 cod. proc. pen. – nella parte in cui sottrae al pubblico ministero la facoltà di appellare le sentenze di non luogo a procedere – si porrebbe in contrasto con plurimi parametri costituzionali;

         che risulterebbe leso, anzitutto, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto la norma censurata introdurrebbe uno «sbarramento» privo di giustificazione razionale, tale da impedire alla parte pubblica di coltivare la propria domanda di giudizio in modo completo ed efficace;

che la nuova disciplina priverebbe, difatti, il pubblico ministero della possibilità di chiedere ad un ulteriore giudice il riesame delle risultanze processuali «nella totalità del loro significato e della loro consistenza», imponendogli di esperire un mezzo di impugnazione – il ricorso per cassazione – non coerente con il tipo di valutazione che sovrintende alla decisione di rinvio a giudizio e con la natura dell’udienza preliminare: udienza nella quale il giudice è chiamato ad una deliberazione di carattere processuale riguardo alla necessità di procedere al dibattimento;

         che ne deriverebbe, in pari tempo, una irragionevole discriminazione tra i procedimenti che richiedono l’udienza preliminare e i procedimenti a citazione diretta, nei quali la domanda di giudizio del pubblico ministero trova, invece, immediato riscontro della fissazione dell’udienza dibattimentale, senza correre il rischio di venire «prematuramente bloccata»;

         che nei procedimenti in cui è prevista l’udienza preliminare – ossia nella totalità dei casi, quanto alla giurisdizione penale militare (davanti alla quale non trovano applicazione le disposizioni del Libro VIII del codice di rito, sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica) – si verificherebbe, altresì, avuto riguardo alle conseguenze del provvedimento conclusivo della fase, un irragionevole «sbilanciamento» delle posizioni delle parti, lesivo del principio di parità enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost.;

che, infatti – mentre per l’imputato il più sfavorevole degli esiti è rappresentato dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice naturale, ossia da un provvedimento «meramente interlocutorio» – per l’accusa, la sentenza di non luogo a procedere comporterebbe il pressoché definitivo «affossamento» delle ragioni pubblicistiche sottese all’esercizio dell’azione penale: giacché il ricorso per cassazione, consentendo di dedurre solo vizi circoscritti e tassativi, si rivelerebbe assai «poco congeniale» alle censure che possono venir mosse all’anzidetta sentenza, la quali troverebbero nell’appello il loro «naturale» veicolo;

         che altrettanto evidente risulterebbe il pregiudizio recato al principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, seconda parte, Cost.;

che – come evidenziato nel messaggio del Presidente della Repubblica del 20 gennaio 2006, di rinvio della legge alle Camere – il trasferimento dalla corte d’appello alla Corte di cassazione dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere determinerebbe non soltanto un aumento di lavoro per il giudice di legittimità, ma anche, nel caso di mancata conferma della sentenza, una regressione del procedimento, che ne allungherebbe i tempi di definizione;

che, ove ritenesse fondate le ragioni dell’impugnazione del pubblico ministero, la Corte di cassazione non potrebbe, infatti, emettere il decreto che dispone il giudizio, ma dovrebbe annullare la sentenza impugnata con rinvio al giudice dell’udienza preliminare: quest’ultimo, pur mutato nella persona, potrebbe peraltro adottare una ulteriore decisione liberatoria, a sua volta ricorribile per cassazione, in una sequenza suscettibile teoricamente di protrarsi «quasi all’infinito»;

         che, da ultimo, la norma censurata contrasterebbe con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.);

che, al riguardo, il rimettente ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia ravvisato nel potere di impugnazione del pubblico ministero una delle espressioni dell’anzidetto principio, puntualizzando, altresì, che la disciplina processuale non può essere congegnata in modo tale da vanificare il complessivo assolvimento delle funzioni dell’accusa;

che tale affermazione – ad avviso del giudice a quo – non sarebbe stata superata dalle successive decisioni, nelle quali questa Corte ha escluso una diretta e generale correlazione tra potere di impugnazione della parte pubblica e obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale: tali decisioni riguarderebbero, infatti, un’ipotesi ben diversa da quella oggi in esame, essendo riferite alla norma che impediva al pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di condanna emesse a conclusione del giudizio abbreviato; vale a dire nell’ambito di un rito che – dopo il positivo esercizio dell’azione penale – persegue obiettivi di semplificazione processuale, in relazione ai quali può considerarsi «appagante» un epilogo «comunque coincidente con le essenziali finalità perseguite dall’accusa»;

         che nella specie, per contro, verrebbe in rilievo un limite direttamente incidente sull’atto di esercizio dell’azione penale, che non ha realizzato il proprio obiettivo del giudizio dibattimentale: onde non si comprenderebbe «con quale coerenza “costituzionale”» la legge ordinaria possa interdire al pubblico ministero di chiedere al superiore giudice di merito una diversa valutazione circa la non superfluità del dibattimento;

che tale conclusione si imporrebbe a maggior ragione ove si consideri che la preclusione all’appello concerne una sentenza di carattere processuale, emessa nell’ambito di un giudizio «essenzialmente cartolare»: sicché, rispetto alla preclusione censurata, non potrebbero valere le ragioni che sono alla base dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, introdotta dalla stessa legge n. 46 del 2006, non sussistendo il rischio che il giudice di appello capovolga, «leggendo solo le carte», la decisione che il primo giudice ha adottato dopo aver assistito alla formazione della prova in contraddittorio;

         che nel giudizio di costituzionalità si è costituito A. G., parte civile nel processo a quo, il quale – condividendo i dubbi di costituzionalità del giudice imettente – ha chiesto l’accoglimento della questione;

         che con l’ulteriore ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Salerno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa proporre appello contro la sentenza di non luogo a procedere; nonché dell’art. 10 della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui rende applicabile tale nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo, altresì, che l’appello anteriormente proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, salva la facoltà dell’appellante di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità;

         che la Corte rimettente riferisce che, con sentenza dell’11 ottobre 2001, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 317 cod. pen., perché il fatto non sussiste; e che avverso la decisione è stato proposto ricorso per cassazione, da parte del Procuratore della Repubblica, e appello, da parte del Procuratore generale;

che detto appello – di cui la Corte rimettente è investita – dovrebbe essere dichiarato, ad avviso della Corte stessa, inammissibile ai sensi del citato art. 10 della legge n. 46 del 2006, sopravvenuta alla proposizione del gravame;

         che il giudice a quo dubita, peraltro, della legittimità costituzionale tanto della disciplina «a regime», introdotta con il nuovo art. 428 cod. proc. pen., che di quella transitoria stabilita dall’art. 10 della legge n. 46 del 2006;

         che il novellato art. 428 cod. proc. pen. risulterebbe lesivo, anzitutto, del principio di parità delle parti nel processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost.;

che la norma denunciata, difatti – stabilendo che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa al termine dell’udienza preliminare – porrebbe solo formalmente le parti su uno stesso piano; essendo evidente come, in realtà, la disposizione limiti il potere di impugnazione della sola parte che vi ha interesse, in quanto soccombente rispetto alla pretesa punitiva azionata: ossia il pubblico ministero, al quale verrebbe impedito di pervenire, attraverso l’appello, all’accertamento della verità materiale, cui il processo penale dovrebbe tendere;

         che, anche dopo la riforma operata dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, la sentenza di non luogo a procedere ha mantenuto la natura di pronuncia «processuale», essendo destinata esclusivamente a «paralizzare» la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero sulla base di una prognosi di inutilità del dibattimento.

         che, in modo del tutto coerente, l’art. 428 cod. proc. pen., nel testo anteriore alla legge n. 46 del 2006, riconosceva quindi al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere, consentendogli, così, di provocare una «rivalutazione» nel merito della fondatezza della propria richiesta di rinvio a giudizio: possibilità, per contro, irragionevolmente rimossa dalla novella, posto che il ricorso per cassazione è ammesso solo per specifici motivi (art. 606 cod. proc. pen.), tra i quali non rientra «la “sufficienza o meno” degli elementi per il giudizio»;

         che l’«anomalia» risulterebbe ancor più grave, ove si consideri che – come affermato da questa Corte (sentenza n. 115 del 2001) – il pubblico ministero, prima dell’udienza preliminare, è tenuto a svolgere indagini complete, stante anche la facoltà dell’imputato di chiedere di essere giudicato con rito abbreviato, sulla base degli elementi raccolti;

che, in tale situazione, il giudizio del giudice dell’udienza preliminare, circa l’inutilità del dibattimento, verrebbe ad incidere, con evidente vulnus dell’art. 112 Cost., sullo stesso esercizio dell’azione penale: giacché, in pratica, la scelta tra il perseguimento della pretesa punitiva e il suo definitivo abbandono risulterebbe sottratta all’organo dell’accusa e rimessa all’apprezzamento inappellabile del giudice dell’udienza preliminare; assetto, questo, tanto più irragionevole, in quanto, per taluni reati, anche di rilevante gravità (art. 550 cod. proc. pen.), detta pretesa viene esercitata senza alcun «filtro» e in forma diretta;

         che la norma impugnata sarebbe lesiva, ancora, del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), apparendo sostanzialmente priva di scopo;

che la soppressione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento pronunciate a seguito del giudizio di primo grado – disposta dalla stessa legge n. 46 del 2006 – è stata giustificata, difatti, con la necessità di evitare che la decisione emessa da un giudice, che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, possa venir ribaltata da altro giudice – quale quello di appello – che solo eccezionalmente procede alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale;

che tale giustificazione non potrebbe valere, tuttavia, in rapporto alla sentenza di proscioglimento pronunciata all’esito dell’udienza preliminare, nel corso della quale non vi è ancora una formazione della prova «nella sua pienezza», ma solo una valutazione della sua idoneità a sostenere l’ipotesi accusatoria;

         che la disciplina transitoria dettata dall’art. 10 della legge n. 46 del 2006 si porrebbe, a sua volta, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), determinando una ingiustificata dilatazione dei tempi di definizione dei procedimenti in corso, nei quali sia già stato proposto appello ai sensi dell’art. 428 cod. proc. pen.;

che detta disciplina innescherebbe, infatti, una sequenza procedimentale che, dopo la dichiarazione di inammissibilità del gravame, comporterebbe la proposizione del ricorso per cassazione entro il termine di quarantacinque giorni (ove ne sussistano i presupposti); la celebrazione del giudizio di cassazione; l’eventuale annullamento con rinvio della sentenza impugnata; la fissazione, infine, di una nuova udienza preliminare;

che l’allungamento dei tempi processuali – risultando evidente anche in rapporto alla disciplina a regime (stante il carattere solo rescindente della pronuncia della Corte di cassazione) – assumerebbe i tratti dell’irragionevolezza quanto meno in relazione ai processi – come quello a quo – nei quali il giudice di appello avrebbe dovuto solo pronunciarsi con immediatezza sull’eventuale rinvio a giudizio dell’imputato, fissando l’udienza dinanzi al tribunale.

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni in larga parte analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;

che entrambi i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa in esito all’udienza preliminare;

che i rimettenti sollevano la questione sul presupposto che la norma censurata sia applicabile nei giudizi a quibus – ancorché concernenti appelli avverso sentenze di non luogo a procedere proposti prima dell’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006 – in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 10 della legge stessa: disposizione che viene fatta quindi oggetto di autonoma denuncia di incostituzionalità, in parte qua, dalla Corte d’appello di Salerno;

che, peraltro, il comma 1 del citato art. 10 – nello stabilire che «la presente legge si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima» – si limita, di per sé, a ribadire il principio tempus regit actum, che disciplina in via generale la successione di leggi nel settore processuale penale;

che una deroga a detto principio è invece introdotta dal comma 2 dell’art. 10, il quale – incidendo sull’atto processuale già compiuto (nella specie, l’impugnazione) – stabilisce che «l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall’imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile»;

che, correlativamente, il successivo comma 3 accorda alla parte, il cui appello sia stato dichiarato inammissibile, la facoltà di proporre ricorso per cassazione «contro le sentenze di primo grado» entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità;

che il comma 2 dell’art. 10 – successivamente alle ordinanze di rimessione – è stato oggetto di dichiarazioni di parziale incostituzionalità, che non interferiscono, peraltro, con l’odierno thema decidendum, in quanto correlate alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di disposizioni «a regime» distinte da quella oggi impugnata (gli artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen., come novellati dalla legge n. 46 del 2006) (sentenze n. 26 e n. 320 del 2007);

che, ciò premesso, i rimettenti danno per scontato che la formula «sentenza di proscioglimento», impiegata nell’art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, abbracci anche le sentenze di non luogo a procedere;

che l’indirizzo allo stato prevalente nella giurisprudenza di legittimità è, peraltro, di segno opposto;

che, al riguardo, si rileva, infatti, che la formula «sentenza di proscioglimento» designa, nella sua accezione tecnica, la sentenza liberatoria pronunciata da un giudice chiamato a decidere sul merito: comprendendo, in specie – come si desume dall’intitolazione della sezione I, capo II, titolo III del libro VII del codice di procedura penale – le (sole) sentenze «di non doversi procedere» e di «assoluzione»;

che, a sostegno dell’indirizzo in questione, si osserva, altresì, come la contrapposizione terminologica fra «sentenza di proscioglimento» e «sentenza di non luogo a procedere» – la quale rispecchia la diversa natura delle due pronunce (quanto ad oggetto dell’accertamento, base decisionale, regime di stabilità ed efficacia extrapenale) – sia già stata valorizzata da questa Corte, al fine di dichiarare non fondata altra questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 428 cod. proc. pen. (nel testo originario), nella parte in cui non prevedeva la facoltà della parte civile di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere per il reato di diffamazione a mezzo stampa (sentenza n. 381 del 1992);

che – sempre a supporto dell’orientamento in discorso – si rileva, ancora, come la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 abbia natura di norma eccezionale, proprio perché derogatoria del generale principio tempus regit actum: onde essa andrebbe interpretata restrittivamente, rimanendo comunque insuscettibile di applicazione analogica;

che, da ultimo, tale orientamento evidenzia come la previsione di un trattamento differenziato della sentenza di non luogo a procedere rispetto alla sentenza di proscioglimento – quanto alla disciplina transitoria che accompagna il nuovo regime di inappellabilità delle decisioni liberatorie - introdotto dalla legge n. 46 del 2006, possa giustificarsi proprio alla luce di una delle considerazioni svolte dagli odierni rimettenti: e, cioè, alla luce della non riferibilità alle sentenze di non luogo a procedere delle rationes che, sulla base dei lavori preparatori della novella, sono alla base della scelta di rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento (rationes consistenti nel garantire all’imputato un doppio grado di merito sulla pronuncia di condanna; nell’impossibilità di escludere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza, dopo una sentenza di proscioglimento; nell’opportunità di evitare che la decisione di proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione della prova in contraddittorio – quale quello di primo grado – possa essere ribaltata da altro giudice – quello di appello – che ha una cognizione prevalentemente «cartolare» del materiale probatorio);

che la prospettiva interpretativa ora ricordata – la quale renderebbe irrilevanti le questioni nei giudizi a quibus – non è stata, peraltro, affatto presa in esame dai giudici rimettenti, anche solo per negarne eventualmente la praticabilità;

che, d’altro canto – con riguardo all’autonoma questione sollevata dalla Corte d’appello di Salerno nei confronti dello stesso art. 10, nella parte in cui (con asserita irrazionale dilatazione dei tempi processuali) estenderebbe la disciplina transitoria anche agli appelli anteriormente proposti contro le sentenze di non luogo a procedere – l’omesso esame della soluzione ermeneutica in discorso equivale a mancato adempimento dell’onere, che grava sul giudice rimettente, di verificare preventivamente se la norma impugnata sia suscettibile di interpretazioni alternative, atte ad escludere i dubbi di costituzionalità (ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 32 del 2007);

che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10 delle medesima legge n. 46 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, e dalla Corte d’appello di Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2008.