Ordinanza n. 389 del 2007

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ORDINANZA N. 389

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                        BILE                                       Presidente

- Giovanni Maria            FLICK                                     Giudice

- Francesco                    AMIRANTE                                 "

- Ugo                            DE SIERVO                                 "

- Paolo                          MADDALENA                             "

- Alfio                           FINOCCHIARO                           "

- Alfonso                       QUARANTA                                "

- Franco                        GALLO                                        "

- Luigi                           MAZZELLA                                 "

- Gaetano                      SILVESTRI                                  "

- Sabino                        CASSESE                                     "

- Maria Rita                   SAULLE                                      "

- Giuseppe                     TESAURO                                    "

- Paolo Maria                NAPOLITANO                             "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 4 e 6 della legge 20 giugno 2003 n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 15 ottobre 2004 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siracusa nel procedimento penale a carico di G.G. ed altri, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.8, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siracusa ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 68, secondo e terzo comma, 101 (recte: 111), secondo e terzo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4 e 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dal giudice a quo – stabilisce che, ai fini dell’utilizzazione delle conversazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, intercettate in qualsiasi forma sia nell’ambito di procedimenti nei quali il parlamentare è indagato che nell’ambito di procedimenti riguardanti terzi, è necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare anche quando quest’ultimo ha acquisito la qualità di membro del Parlamento in data successiva a quella di esecuzione delle operazioni;

che il rimettente riferisce che, nel procedimento a quo, erano state eseguite intercettazioni telefoniche su utenze intestate o in uso alla persona sottoposta alle indagini G. G., nonché su utenze intestate o in uso ad altri soggetti, i quali, nel corso delle conversazioni, avevano riferito di condotte poste in essere da detta persona;

che, all’esito delle indagini preliminari, il pubblico ministero aveva ritenuto di dover procedere nei confronti di detto indagato e di altre persone per i reati di cui agli artt. 319 e 326 del codice penale e all’art. 96 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

che, peraltro, avendo l’indagato acquisito la qualità di parlamentare – in quanto eletto alla Camera dei deputati – successivamente alle intercettazioni, il pubblico ministero aveva fatto istanza al giudice a quo, affinché richiedesse alla Camera di appartenenza del predetto l’autorizzazione ad utilizzare i risultati delle intercettazioni stesse, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003;

che, al riguardo, il rimettente dichiara di condividere l’interpretazione posta a base dell’istanza, stando alla quale la disciplina dettata dagli artt. 4 e 6 della citata legge si applicherebbe non solo alle intercettazioni di conversazioni della persona che abbia già la qualifica di parlamentare al momento di esecuzione delle operazioni; ma anche alle intercettazioni di chi acquisisca tale qualifica solo successivamente, nel corso del procedimento: e ciò a prescindere dal fatto che si tratti di intercettazioni «dirette» (eseguite, cioè, su utenza telefonica del parlamentare), ovvero «indirette» (effettuate, cioè, su utenze di altri soggetti, quando il parlamentare partecipi comunque alla conversazione);

che detta interpretazione – «condivisa incidentalmente», secondo il giudice a quo, dalla stessa Camera dei deputati, nel pronunciarsi su una precedente richiesta di autorizzazione, erroneamente avanzata dal pubblico ministero nel medesimo procedimento ai sensi dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003 – sarebbe, infatti, «l’unica possibile alla stregua dei criteri ermeneutici dettati dall’ordinamento»: risultando «illuminanti», in proposito, sia le osservazioni contenute nell’ordinanza della Corte di cassazione 4 febbraio-9 marzo 2004, n. 10772 (con la quale è stata sollevata una diversa questione di legittimità costituzionale della disciplina dettata dalla legge n. 140 del 2003); sia le indicazioni ricavabili dai lavori preparatori della legge in questione;

che nella predetta lettura, tuttavia, il combinato disposto degli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003 verrebbe a porsi in contrasto con plurimi parametri costituzionali;

che sarebbe violato, anzitutto, l’art. 68, secondo e terzo e comma, Cost., il quale – richiedendo l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare solo per il compimento di alcuni atti, tassativamente elencati – mirerebbe a tutelare non già la persona fisica, il prestigio o il «buon nome» dei singoli parlamentari; quanto piuttosto la funzione costituzionale da essi svolta, onde evitare che la medesima venga condizionata, controllata o limitata dall’espletamento di atti di indagine invasivi;

che, per contro, le disposizioni impugnate – con l’estendere la predetta tutela, di carattere eccezionale e derogatorio di altri principi costituzionali, anche alle conversazioni di persona priva della qualifica di parlamentare al momento di esecuzione delle intercettazioni – non tutelerebbero più la funzione, non essendo le conversazioni in parola riferibili all’attività di un soggetto che riveste un ruolo di rilievo costituzionale;

che le medesime norme – interpretate nei termini dianzi indicati – violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., il quale sancisce il principio di parità di trattamento dei cittadini anche rispetto alla giurisdizione, esigendo che le eventuali diversità di regime stabilite dalla legge ordinaria trovino fondamento nella necessità di tutela di valori sopraordinati o, comunque, di pari rango;

che nella specie, per contro, il diverso trattamento riservato ai membri del Parlamento – quanto all’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche eseguite prima della loro elezione – non potrebbe trovare giustificazione nella specialità delle funzioni svolte, ma sarebbe diretto unicamente a tutelare beni non garantiti né esplicitamente né implicitamente dalla Costituzione: quali il prestigio del parlamentare o l’interesse ad evitare che quest’ultimo «utilizzi parte del suo tempo per partecipare all’attività giurisdizionale come qualunque altro cittadino»;

che sarebbero lesi, ancora, il diritto di difesa e il diritto alla prova delle parti del processo, riconosciuti, rispettivamente, dagli artt. 24 e 101 (recte: 111), terzo comma, in relazione all’art. 3 Cost.;

che la disciplina di cui all’art. 6 della legge n. 140 del 2003 – la quale prevede l’immediata distruzione della documentazione delle operazioni, nel caso di diniego dell’autorizzazione, e l’inutilizzabilità delle registrazioni di comunicazioni e dei verbali acquisiti in violazione del disposto del medesimo articolo – introdurrebbe, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento tra le parti processuali e limiti insuperabili al diritto di difesa: e ciò con riferimento non soltanto alle eventuali parti civili, ma anche alle altre persone indagate nell’ambito del medesimo procedimento, le quali abbiano interesse all’utilizzazione delle conversazioni, in quanto contenenti elementi decisivi ai fini della dimostrazione della propria innocenza;

che – coeteris paribus – la perseguibilità e la condanna della persona sottoposta a procedimento penale, così come il conseguimento del risarcimento del danno e delle restituzioni a favore della parte civile, verrebbero quindi a dipendere da un fatto puramente casuale: quale la presenza o meno, tra le fonti di prova, dell’intercettazione di comunicazioni o conversazioni cui ha «preso parte» una persona che, al momento della raccolta del mezzo di prova, non aveva alcuna qualifica pubblicistica di rango costituzionale, ma ha acquisito tale qualifica nel corso del procedimento;

che sarebbero compromessi, infine, i principi di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza delle parti del processo, previsti dagli artt. 112 e 101 (recte: 111), secondo comma, Cost.: e ciò perché le previsioni degli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003 – lette nei sensi in precedenza precisati – comprimerebbero l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale non solo e non tanto nei confronti del membro del Parlamento, il quale abbia preso parte a conversazioni intercettate prima della sua elezione, ma anche nei confronti degli indagati o coindagati nel procedimento in cui sono state raccolte le fonti di prova tutelate; questi ultimi verrebbero dunque a beneficiare di una vera e propria «immunità», non potendo essere utilizzati nei loro confronti i risultati di prove ordinariamente utilizzabili in tutti i procedimenti penali;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Considerato che la premessa interpretativa posta dal giudice rimettente a base dei propri dubbi di costituzionalità – vale a dire la asserita applicabilità della disciplina, di cui agli artt. 4 e 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140, anche alle intercettazioni delle conversazioni di persona che acquisisca la qualità di parlamentare solo in epoca successiva all’espletamento del mezzo di ricerca della prova – si presenta priva di ogni argomento di supporto;

che il giudice a quo qualifica, difatti, l’anzidetta esegesi come «l’unica possibile alla stregua dei criteri ermeneutici dettati dall’ordinamento», senza fornire altra giustificazione del proprio assunto che un generico riferimento alle «osservazioni» contenute, in tesi, in una pronuncia della Corte di cassazione (l’ordinanza 4 febbraio-9 marzo 2004, n. 10772) e nei lavori preparatori della legge n. 140 del 2003;

che, per contro, la Corte di cassazione ha sollevato, con la citata ordinanza, una questione di legittimità costituzionale del tutto distinta da quella odierna (questione dichiarata tra l’altro inammissibile da questa Corte per essere la motivazione in punto di rilevanza fondata su una premessa interpretativa non condivisibile e contraddittoria: sentenza n. 163 del 2005); e, d’altra parte, il rimettente non ha indicato a quali specifici passaggi dell’iter parlamentare della legge de qua intenda riferirsi;

che, in fatto, l’interpretazione in parola non trova riscontro nel testo delle norme censurate, le quali individuano le conversazioni “protette” con formule che, di per sé, evocano l’attualità della qualifica parlamentare del soggetto intercettato («quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento [ …] intercettazioni, in qualsiasi forma»; «conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma [… ] alle quali hanno preso parte membri del Parlamento»): rilievo, questo, tanto più significativo, in quanto si discute di una tutela che – secondo lo stesso giudice a quo – ha «carattere eccezionale e derogatorio di altri principi costituzionali»; così da rendere le norme che la contemplano di stretta interpretazione;

che, d’altro canto, con particolare riguardo all’ipotesi regolata dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003 – la quale prevede, relativamente alle cosiddette intercettazioni «dirette», un’autorizzazione di tipo preventivo (condizionante, cioè, la stessa esecuzione dell’atto) – è del tutto evidente come una simile autorizzazione non sia concepibile, anche sul piano logico, rispetto alle conversazioni di persona che sia divenuta parlamentare solo dopo l’esecuzione delle operazioni;

che, se così è, la medesima soluzione vale anche per l’ipotesi regolata dall’art. 6, che contempla – per le cosiddette intercettazioni «indirette» – un’autorizzazione successiva (condizionante, cioè, non l’esecuzione, ma l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni); non potendosi presumere, fino a quando non consti una espressa indicazione normativa di segno contrario, che il legislatore abbia inteso accordare alle intercettazioni «indirette» una protezione più incisiva di quella prefigurata per le intercettazioni «dirette»;

che, a tale proposito, l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 – nel prevedere che l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» è data dalla Camera alla quale il parlamentare «appartiene o apparteneva» al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate – può ritenersi riferito all’ipotesi inversa a quella oggetto del giudizio a quo: vale a dire al caso del parlamentare che, dopo l’esecuzione delle intercettazioni, abbia perso tale qualità;

che il giudice a quo accenna, sotto diverso profilo, al fatto che l’interpretazione di cui si discute sarebbe stata «condivisa incidentalmente» dalla Camera di deputati, in sede di esame della richiesta di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni, in precedenza erroneamente presentata dal pubblico ministero nello stesso procedimento, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003;

che l’affermazione non trova riscontro negli atti parlamentari relativi a tale richiesta di autorizzazione (relazione della Giunta per le autorizzazioni e dibattito in Aula); al contrario, la Camera dei deputati ha posto in evidenza – quale profilo pregiudiziale ostativo all’esame del merito della domanda – la circostanza che, nel caso di specie, le intercettazioni erano state eseguite prima della proclamazione del deputato intercettato;

che l’impossibilità di estendere la normativa in questione alle intercettazioni di persone ancora prive dello status di parlamentare è stata confermata, altresì, dalla successiva prassi parlamentare in tema di autorizzazioni (si veda, in particolare, la relazione della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati presentata alla Presidenza il 25 luglio 2007, doc. IV, n. 9-A);

che, pertanto, a prescindere da ogni ulteriore rilievo, la questione va dichiarata manifestamente infondata, in quanto basata su un erroneo presupposto interpretativo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 68, secondo e terzo comma, 111, secondo e terzo comma, e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 novembre 2007.