Ordinanza n. 199 del 2007

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 199

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                       Presidente

- Giovanni Maria         FLICK                                     Giudice

- Francesco                 AMIRANTE                                 "

- Ugo                          DE SIERVO                                 "

- Paolo                        MADDALENA                             "

- Alfio                        FINOCCHIARO                           "

- Alfonso                    QUARANTA                                "

- Franco                      GALLO                                        "

- Luigi                        MAZZELLA                                 "

- Gaetano                    SILVESTRI                                  "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                SAULLE                                      "

- Giuseppe                  TESAURO                                    "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, promosso con ordinanza del 18 novembre 2004 dal Tribunale di Verona nel procedimento penale a carico di A. A. ed altri iscritta al n. 80 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di costituzione di M.T.;

udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

udito l’avvocato Emanuele Fracasso jr. per M.T.;

udito nuovamente nell’udienza pubblica del 5 giugno 2007, rifissata in ragione della intervenuta modifica della composizione del collegio, il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in cui – stabilendo che per i reati indicati all’art. 5, comma 1, del medesimo decreto-legge, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall’art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini – non prevede, «secondo l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità, […] che l’imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni dall’arresto o dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato»;

che il giudice a quo premette che nel corso di un giudizio direttissimo, instaurato in base alla norma censurata nei confronti di numerose persone imputate di reati in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, il Tribunale di Verona aveva disposto, ai sensi dell’art. 452 cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinché procedesse nelle forme ordinarie;

che l’ordinanza era stata adottata in accoglimento dell’eccezione proposta dai difensori degli imputati, relativa alla necessità di rispettare, anche nelle ipotesi di giudizio direttissimo cosiddetto «atipico» – quale quella in esame – il termine di quindici giorni, stabilito dall’art. 449, commi 4 e 5, cod. proc. pen. per l’instaurazione del rito: nella specie, difatti, il pubblico ministero aveva richiesto il giudizio direttissimo dopo circa sessanta giorni dall’arresto in flagranza degli imputati, e dunque ben oltre il predetto termine;

che, tuttavia, a seguito del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, la Corte di cassazione aveva annullato la predetta ordinanza, disponendo la restituzione degli atti al Tribunale;

che, a fronte della nuova instaurazione del giudizio nelle forme del rito speciale, il giudice a quo – recependo la relativa eccezione della difesa – solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge n. 122 del 1993, ventilandone il contrasto con plurimi parametri costituzionali;

che il rimettente muove dalla considerazione che, in base alla disciplina del codice di procedura penale, il giudizio direttissimo – rito che, implicando la diretta presentazione dell’imputato al giudice dibattimentale, mira a realizzare «un’economia di tempo e di attività processuale» – ha come presupposto una particolare situazione di evidenza della prova, correlata all’avvenuto arresto in flagranza o alla confessione resa dall’indagato nel corso dell’interrogatorio: situazione che deve peraltro coniugarsi al rispetto dello stringente termine di quindici giorni per l’instaurazione del rito, decorrente dall’arresto o dalla «notitia criminis» (art. 449 cod. proc. pen.);

che, inoltre, l’utilizzazione del rito speciale, pur in presenza dei relativi presupposti, si connota sempre come discrezionale, potendo il pubblico ministero comunque promuovere l’azione penale nelle forme ordinarie;

che, peraltro, a fianco del giudizio direttissimo «tipico» (quello disciplinato, per l’appunto, dal codice di rito), l’ordinamento conosce ipotesi «atipiche» di giudizio direttissimo, introdotte da leggi speciali – tra cui quella regolata dalla norma denunciata – nelle quali il rito speciale, per un verso, prescinde dall’arresto in flagranza o dalla confessione dell’indagato, e dunque dal presupposto dell’evidenza della prova; e, per un altro verso, viene a configurarsi come obbligatorio: giustificandosi, in tali ipotesi, l’adozione del modulo in questione «con le esigenze di celerità, immediatezza ed esemplarità del processo»;

che, non potendo, tuttavia, «l’accelerazione del rito […] comunque comportare una attenuazione delle garanzie difensive», anche nei casi di giudizio direttissimo «atipico» dovrebbe ritenersi richiesta l’osservanza del termine di quindici giorni, di cui al citato art. 449 cod. proc. pen.: prospettiva nella quale il rito in parola dovrebbe considerarsi obbligatorio solo «in via tendenziale», vale a dire nei soli limiti in cui non siano necessarie «speciali indagini», incompatibili con l’inderogabile rispetto del predetto termine;

che tale soluzione interpretativa – condivisa da un ampio settore della dottrina – risulterebbe, tuttavia, «assolutamente minoritaria nella giurisprudenza di legittimità», come del resto attesterebbe la sentenza di annullamento emessa dalla Corte di cassazione nel giudizio a quo;

che – ove interpretata in conformità all’indirizzo giurisprudenziale dominante, assunto dal giudice a quo quale «diritto vivente» – la disposizione dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge n. 122 del 1993 si rivelerebbe lesiva, sotto più aspetti, della Carta costituzionale;

che, in particolare, l’esenzione dell’organo dell’accusa dal rispetto del termine di quindici giorni determinerebbe «un grave sbilanciamento tra i poteri del pubblico ministero e i diritti dell’imputato in danno di quest’ultimo»: in tal modo, infatti, si consentirebbe al pubblico ministero di procedere ad indagini preliminari prolungate nel tempo e «approfondite nel merito», portandole a conoscenza dell’imputato solo nel momento in cui lo stesso venga presentato al giudice del dibattimento;

che «un tale esito» si giustificherebbe nei casi previsti dall’art. 449, comma 5, cod. proc. pen., nei quali proprio la brevità del termine di quindici giorni impedisce lo svolgimento di indagini di notevole complessità ed il sistema è riequilibrato dalla facoltà dell’imputato di ottenere un corrispondente termine di dieci giorni per approntare la sua difesa (art. 451, comma 6, cod. proc. pen.); mentre altrettanto non potrebbe dirsi allorché il pubblico ministero venga abilitato a compiere atti di indagine senza limitazioni temporali, diverse da quelle previste dall’art. 405, comma 2, cod. proc. pen.;

che tale rilievo sarebbe sufficiente a far ritenere violati sia l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra coloro che vengono sottoposti a giudizio direttissimo nei casi indicati dall’art. 449 cod. proc. pen. e coloro che sono sottoposti al medesimo giudizio nelle ipotesi di cui al decreto-legge n. 122 del 1993; sia l’art. 24 Cost., sotto il profilo della compressione delle garanzie difensive; sia, infine, l’art. 111 Cost., sotto il profilo della alterazione della condizione di parità delle parti e della lesione del diritto dell’imputato ad essere informato, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e, conseguentemente, del diritto a disporre di un tempo adeguato per preparare la propria difesa;

che nel giudizio di costituzionalità si è costituito M. T., imputato nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione.

Considerato che il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in cui – stabilendo che per i reati previsti dall’art. 5, comma 1, del medesimo decreto-legge si procede con giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall’art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini – non prevede, «secondo l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità» – interpretazione cui il rimettente è tenuto ad uniformarsi, a fronte del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione con sentenza di annullamento – «che l’imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni dall’arresto o dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato»;

che il rimettente censura, in specie, lo squilibrio che – alla luce di detta interpretazione – verrebbe a determinarsi fra la posizione del pubblico ministero, il quale sarebbe libero di svolgere attività investigativa senza altro limite temporale che quello generale di durata delle indagini preliminari; e la posizione dell’imputato, che – posto a conoscenza dei risultati di detta attività investigativa unicamente in occasione della presentazione al giudice del dibattimento – disporrebbe, invece, per approntare la propria difesa, solo del ristretto termine di dieci giorni contemplato dall’art. 451, comma 6, cod. proc. pen.;

che – ad avviso del giudice a quo – la compressione dei tempi per la predisposizione della difesa rispetto a quelli previsti nel rito ordinario, che caratterizza il giudizio direttissimo, si giustificherebbe solo quando l’attività di indagine del pubblico ministero non abbia carattere complesso: condizione, questa, che verrebbe assicurata – nell’ambito del giudizio direttissimo «tipico» – proprio dalla brevità dello spatium temporis di cui l’organo dell’accusa dispone per l’instaurazione del rito speciale; ma che, in assenza di omologo sbarramento temporale, potrebbe rimanere viceversa elusa nell’ipotesi di giudizio direttissimo «atipico» oggetto di scrutinio;

che da tali considerazioni il rimettente fa quindi discendere la violazione tanto dell’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento tra coloro che sono sottoposti a giudizio direttissimo nei casi previsti dall’art. 449 cod. proc. pen. e coloro che sono assoggettati a tale rito ai sensi della norma censurata; quanto degli artt. 24 e 111 Cost., in ragione della compromissione del diritto di difesa, della parità delle parti nel processo, del diritto dell’imputato ad essere informato nel più breve tempo possibile dell’accusa a suo carico e a disporre di un tempo adeguato per preparare la difesa;

che, tuttavia, è lo stesso giudice a quo a sottolineare – quale premessa alle proprie argomentazioni – la differenza esistente, sul piano dei presupposti, fra il giudizio direttissimo «tipico», disciplinato dal codice di rito, e la figura «atipica» del medesimo rito regolata dalla norma denunciata: il Tribunale rimettente rimarca, infatti, come il primo postuli una «particolare […] situazione di evidenza della prova», connessa all’avvenuto arresto in flagranza o alla confessione dell’indagato nel corso dell’interrogatorio; mentre la seconda si leghi alla semplice assenza della necessità di «speciali indagini»: essendo il rito speciale giustificato, in tale seconda ipotesi, da esigenze di «immediatezza ed esemplarità del processo» relativo a particolari categorie di illeciti;

che è palese, per altro verso, come il concetto di “prova evidente” (il quale evoca una prognosi di accertamento fortemente semplificato della responsabilità dell’imputato) si ponga, rispetto al paradigma della “non necessità di speciali indagini” (che richiama, in negativo, la sola non complessità dell’attività investigativa), in un rapporto di species ad genus: se, infatti, l’esistenza di una “prova evidente” implica sempre la “non necessità di speciali indagini”, non è vero l’inverso;

che, in simile prospettiva, l’allineamento, invocato dal rimettente, delle due ipotesi poste a confronto quanto ai termini di instaurazione del rito – allineamento che una parte della giurisprudenza di legittimità ritiene peraltro praticabile già in via interpretativa, come lo stesso rimettente ricorda – non potrebbe essere comunque considerato come l’unica soluzione, costituzionalmente obbligata, onde eliminare i possibili squilibri che la disposizione denunciata, nella diversa interpretazione oggetto di censura, risulterebbe in assunto idonea a produrre;

che, difatti, il rimettente denuncia l’inadeguatezza dei termini di difesa non in assoluto, ma solo in un’ottica comparativa rispetto alla “consistenza” delle indagini svolte dal pubblico ministero e avendo di mira, in sostanza, una ipotesi “patologica” rispetto al sistema: quella, cioè, del mancato rispetto, da parte del pubblico ministero, della condizione legale di instaurazione del giudizio direttissimo «atipico» de quo, rappresentata dalla “non necessità di speciali indagini”;

che, in tale ottica, l’esigenza di evitare che l’organo dell’accusa concretamente promuova il suddetto giudizio dopo aver esperito investigazioni complesse, potrebbe essere soddisfatta anche con strumenti diversi dalla previsione di uno sbarramento temporale “preventivo” (e, a fortiori, di uno sbarramento temporale identico a quello stabilito per il giudizio direttissimo «tipico», che poggia su un presupposto non omologo): essendo ipotizzabili anche controlli successivi, ovvero sanzioni processuali, collegate all’accertamento di una concreta lesione del diritto di difesa, quale conseguenza dell’elusione del presupposto legale di instaurazione del rito;

che l’individuazione di siffatti rimedi implicherebbe, peraltro, scelte discrezionali, che esulano dai poteri di questa Corte, restando necessariamente rimesse al legislatore;

che, pertanto – a prescindere da ogni possibile rilievo circa il carattere meramente astratto della violazione del diritto di difesa ventilata dal rimettente, il quale non precisa quali strumenti defensionali sarebbero stati concretamente sacrificati nel caso di specie, in dipendenza del modello processuale censurato – la richiesta di pronuncia additiva rivolta dal rimettente medesimo a questa Corte si palesa manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2007.