Ordinanza n. 193 del 2006

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ORDINANZA N. 193

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale                   MARINI                                  Presidente

- Franco                      BILE                                       Giudice

- Giovanni Maria         FLICK                                          "

- Francesco                 AMIRANTE                                 "

- Ugo                          DE SIERVO                                 "

- Romano                    VACCARELLA                            "

- Paolo                        MADDALENA                             "

- Alfio                        FINOCCHIARO                           "

- Alfonso                    QUARANTA                                "

- Franco                      GALLO                                        "

- Luigi                        MAZZELLA                                 "

- Gaetano                    SILVESTRI                                  "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                SAULLE                                      "

- Giuseppe                  TESAURO                                    "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 203 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 18 febbraio 2004 dal Tribunale di Catania, nel procedimento penale a carico di P.C. ed altro, iscritta al n. 584 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 203 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente, in dibattimento, l’acquisizione o l’utilizzabilità delle informazioni fornite agli ufficiali di polizia giudiziaria se gli informatori non siano esaminati come testimoni, anche nell’ipotesi in cui l’informatore sia deceduto prima della avvenuta verbalizzazione delle sue dichiarazioni;

che il giudice a quo premette che, nel corso del dibattimento, un ufficiale di polizia giudiziaria, che deponeva quale testimone indicato dalla difesa, stava riferendo in merito al contenuto di informazioni ricevute da una fonte confidenziale, da ritenersi decisive per l’accertamento dei fatti oggetto dell’imputazione: nondimeno, essendo stato l’informatore assassinato «mentre era in corso di preparazione il suo ingresso nel programma di protezione» per divenire collaboratore di giustizia, le suddette informazioni «non erano state ancora ritualmente assunte, né formalmente verbalizzate», come evidenziato dal teste medesimo, unico ad averne diretta conoscenza;

che, a fronte di tale evenienza processuale – prosegue il rimettente – il difensore di uno degli imputati aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 203 cod. proc. pen., sul presupposto che dal disposto della citata norma – ed, in particolare, dalla circostanza che l’informatore non fosse stato esaminato come testimone – discendesse l’inutilizzabilità del contenuto delle informazioni riferite nel corso della testimonianza dibattimentale, così  frustrando le garanzie della difesa, nel cui interesse il teste medesimo era stato escusso;

che il Tribunale ritiene la questione di legittimità costituzionale dell’art. 203 cod. proc. pen. rilevante, poiché l’utilizzabilità di quanto riferito all’ufficiale di polizia dall’informatore – nell’impossibilità di escutere quest’ultimo, deceduto – risulterebbe «pregiudiziale alla decisione finale del processo», stante la diretta incidenza, su di essa, di tale materiale probatorio;

che, quanto al profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo – richiamato l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale sarebbe pienamente legittima l’utilizzazione, in sede di indagini preliminari, delle dichiarazioni assunte da confidente poi deceduto – rileva come le medesime informazioni non possano, invece, essere acquisite o utilizzate nel corso del dibattimento, nell’ipotesi in cui, come nella specie, il confidente non possa essere escusso, così violando il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.;

che, inoltre, la norma censurata contrasterebbe con l’art. 24 Cost., risultando compromesso il diritto di difesa dalla impossibilità di «ingresso nel processo penale» di dichiarazioni che − ancorché favorevoli all’imputato − non sarebbero utilizzabili, neppure in forza dell’art. 512 cod. proc. pen., per essere il loro autore deceduto prima della possibilità di verbalizzazione: così consentendo, peraltro, la possibilità ai poteri criminali di eliminare gli informatori di polizia «prima che gli stessi possano ribadire le loro dichiarazioni in dibattimento» ;

che, infine, per le medesime ragioni, l’art. 203 cod.proc.pen. si porrebbe in contrasto con l’art. 111, commi quinto e sesto, della Costituzione, posto che la citata norma costituzionale, nell’affermare il principio del contraddittorio nella formazione della prova, regola altresì «i casi in cui la stessa non possa aver luogo nel pieno rispetto dello stesso contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva»;

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

Considerato che il rimettente dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 203 del codice di procedura penale, nella parte in cui vieta l’utilizzabilità, in dibattimento, delle dichiarazioni assunte da informatore che non sia stato esaminato come testimone, anche nell’ipotesi in cui egli sia deceduto prima della verbalizzazione di tali dichiarazioni;

che, ad avviso del rimettente, la disciplina censurata − vietando l’utilizzabilità delle dichiarazioni ricevute da informatore, poi deceduto, limitatamente alla sede dibattimentale e consentendola invece, secondo la corrente interpretazione giurisprudenziale, nella fase delle indagini preliminari − sarebbe in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza; violerebbe, altresì, l’art. 24 della Carta fondamentale, attesa la menomazione al diritto di difesa derivante dal divieto, per l’ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a testimoniare, di riferire circostanze anche decisive per l’innocenza dell’imputato apprese dal confidente poi deceduto; violerebbe, infine, l’art. 111, commi quinto e sesto, Cost., nella parte in cui tale norma costituzionale demanda alla legge di regolare i casi in cui la formazione della prova non possa aver luogo «nel pieno rispetto dello stesso contraddittorio», per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva;

che il giudice rimettente ha tuttavia articolato la propria censura su di una norma  non pertinente alla fattispecie sottoposta al suo giudizio, posto che la dedotta preclusione all’utilizzabilità delle dichiarazioni in oggetto, nei termini in cui è denunciata dal rimettente, non è in realtà riconducibile al disposto dell’art. 203 cod. proc. pen.;

che, invero, tale norma, stabilendo il divieto  di acquisizione ed utilizzazione delle informazioni  fornite agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dagli informatori che non siano stati esaminati come testimoni, connette tale regime normativo al perdurare del carattere di anonimato della fonte informativa; se, per contro, subentra ad opera del medesimo ufficiale di polizia giudiziaria la rivelazione dell’identità dell’informatore anche in conseguenza della sua morte, le relative notizie perdono, evidentemente, la connotazione di informazioni confidenziali;

che, nella vicenda in esame, lo stesso Tribunale rimettente evidenzia come l’ufficiale di polizia giudiziaria, chiamato a testimoniare, avesse rivelato, stante l’avvenuto decesso, l’identità della fonte già confidenziale, delineandosi così una situazione processuale che − lungi dal ricadere nell’ambito di efficacia dell’art. 203 cod. proc. pen. − non mostra apprezzabili diversità rispetto a quella che trova disciplina normativa nell’art. 195 cod. proc. pen. e, segnatamente, nelle regole di rito che attengono alla testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria: non senza considerare, inoltre, ai fini del concreto reperimento della regula iuris da applicare, che, nella specie, l’esame della fonte diretta risulta impossibile per la sopravvenuta morte della stessa;

che, dunque, non soltanto il giudice rimettente focalizza la propria censura su norma eccentrica rispetto alla fattispecie al suo esame, ma non mostra di compiere alcuno sforzo ricostruttivo idoneo a rendere praticabili diverse e più congrue opzioni ermeneutiche;

che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 203 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Catania, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2006.