Ordinanza n. 189 del 2006

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ORDINANZA N. 189

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale               MARINI                 Presidente

- Franco                  BILE                        Giudice

- Giovanni Maria     FLICK                           "

- Francesco             AMIRANTE                   "

- Ugo                      DE SIERVO                   "

- Romano                VACCARELLA             "

- Paolo                    MADDALENA              "

- Alfio                    FINOCCHIARO            "

- Alfonso                QUARANTA                 "

- Franco                  GALLO                         "

- Luigi                    MAZZELLA                  "

- Gaetano                SILVESTRI                   "

- Sabino                  CASSESE                      "

- Maria Rita            SAULLE                       "

- Giuseppe              TESAURO                     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall'art. 1, comma 6, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in tema di immigrazione), promosso con ordinanza del 28 settembre 2004 dal Tribunale di Firenze, nel procedimento penale a carico di A.D., iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2005.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dal decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in tema di immigrazione), nella parte in cui prevede il giudizio direttissimo per il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter, del medesimo decreto legislativo;

    che il giudice a quo premette, in punto di fatto, di essere investito della richiesta di giudizio direttissimo proposta dal pubblico ministero nei confronti di persona imputata del reato di cui all'art. 14, comma 5-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998;

    che, ad avviso del rimettente, il fatto contestato all'imputato – consistente nell'essersi trattenuto nel territorio dello Stato a fronte di un secondo «ordine di espulsione» (rectius: di allontanamento dal predetto territorio), emesso dal Questore di Milano ai sensi del comma 5-bis del citato art. 14, a seguito dell'inottemperanza ad un precedente omologo ordine – dovrebbe essere in realtà ricondotto nell'ambito della previsione punitiva di cui al comma 5-ter del medesimo art. 14;

    che per configurare l'ipotesi criminosa di cui al comma 5-quater non sarebbe sufficiente, infatti, un duplice provvedimento di espulsione, ma occorrerebbe, da un lato, che l'ordine violato dallo straniero sia stato emesso ai sensi del comma 5-ter dell'art. 14 (e non, come nella specie, del comma 5-bis); dall'altro lato, e comunque, che si sia al cospetto di una espulsione effettiva – e non meramente «ordinata» – seguita dal rientro dello straniero nel territorio nazionale;

    che in forza del d.l. n. 241 del 2004, in relazione al reato effettivamente ravvisabile si dovrebbe, peraltro, procedere a giudizio direttissimo indipendentemente dalla convalida dell'arresto dell'imputato, non più possibile a seguito della dichiarazione di incostituzionalità – con sentenza di questa Corte n. 223 del 2004 – dell'art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui stabiliva l'arresto obbligatorio dell'autore del reato di cui al comma 5-ter, ad onta della natura contravvenzionale della fattispecie;

    che la previsione dianzi indicata si porrebbe tuttavia in contrasto con plurimi precetti costituzionali;

    che il citato decreto-legge avrebbe infatti introdotto una nuova ipotesi di giudizio direttissimo c.d. anomalo – che prescinde, cioè, dall'arresto in flagranza – per i soli cittadini extracomunitari, unici possibili autori della contravvenzione di cui si tratta;

    che, in tal modo, non si sarebbe peraltro tenuto conto né dell'art. 233 disp. att. cod. proc. pen., che ha abrogato tutte le disposizioni anteriori al nuovo codice che prevedevano il giudizio direttissimo per determinati reati, in assenza dei presupposti generali di ammissibilità del rito; né, soprattutto, della sentenza di questa Corte n. 98 del 1991, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 2 dello stesso art. 233, che consentiva il giudizio direttissimo, al di fuori delle ipotesi contemplate dal codice, per i reati concernenti le armi e gli esplosivi e per i reati commessi con il mezzo della stampa;

    che risulterebbero lesi, di conseguenza, i principi di eguaglianza e ragionevolezza, destinati a trovare applicazione – per il debito coordinamento dell'art. 3 Cost. con gli artt. 2 e 10 Cost. – anche in rapporto agli stranieri, quando si discuta di una disciplina attinente a diritti inviolabili o comunque a materie oggetto di trattati internazionali: ipotesi, questa, configurabile nella specie, a fronte delle ampie garanzie previste in materia di processo penale dagli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848;

    che dubbi di costituzionalità ancora maggiori emergerebbero, poi, in relazione allo svolgimento ed all'esito del giudizio direttissimo;

    che, a tal riguardo, il rimettente rileva come – non essendo consentita per il reato in questione l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, stante la sua natura contravvenzionale – nel caso di mancata conclusione del giudizio direttissimo in una sola udienza, lo straniero dovrebbe essere pressoché inevitabilmente espulso nelle more del processo;

    che a norma dell'art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, infatti, solo l'applicazione dell'indicata misura cautelare determina un impedimento assoluto all'espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale, mentre negli altri casi l'esecuzione dell'espulsione ha luogo previo nulla-osta del giudice;

    che il giudice fruisce, tuttavia, di ridottissimi margini di discrezionalità, potendo negare il rilascio del nulla-osta «solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati di procedimenti connessi, e all'interesse della persona offesa» (oltre che quando si tratti di reati previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a, del codice di procedura penale): esigenze, peraltro, assai difficilmente configurabili in rapporto alla fattispecie criminosa di cui si discute;

    che, a sua volta, il comma 3-quater dello stesso art. 13 prevede che, rilasciato il nulla-osta, il giudice, «se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio» – come avverrebbe necessariamente nel caso di instaurazione del giudizio direttissimo monocratico, che non conosce tale provvedimento, ben diverse essendo la forma e la natura del decreto di presentazione dell'arrestato da parte del pubblico ministero, di cui all'art. 558 cod. proc. pen. – «acquisita la prova dell'avvenuta espulsione […] pronuncia sentenza di non luogo a procedere»;

    che, di conseguenza, in tutti i casi di richiesta di termine a difesa, diverrebbe praticamente obbligatoria – a fronte della «circostanza estrinseca» dell'esecuzione dell'espulsione prima della conclusione del giudizio – la pronuncia di una sentenza di improcedibilità dell'azione penale;

    che, in questo modo, lo straniero verrebbe peraltro privato del diritto di accedere ad un giusto processo in ordine ai fatti contestati, con evidente violazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – cui andrebbe riconosciuto rango di norma costituzionale in forza del «richiamo» contenuto nell'art. 10, secondo comma, Cost. – il quale prevede il diritto, per ogni persona, a che la sua causa sia esaminata pubblicamente ed in un tempo ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, particolarmente quanto al fondamento delle accuse penali;

    che nel meccanismo creato in sede di novellazione del d.lgs. n. 286 del 1998, per converso, la richiesta di un termine a difesa – che realizza un altro dei diritti sanciti dall'art. 6 della Convenzione, ossia quello dell'imputato di «disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa» – finirebbe per impedire una decisione di merito, compromettendo così il diritto dell'imputato a provare la propria innocenza;

    che ove, peraltro, si volesse dare dell'espressione «provvedimento che dispone il giudizio», di cui al comma 3-quater dell'art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, una interpretazione estensiva – tale da comprendere anche la presentazione dell'imputato al giudice monocratico da parte del pubblico ministero – si risolverebbe bensì il problema della lesione del diritto alla decisione di merito, dato che, in tale ottica, lo straniero verrebbe espulso dopo l'emissione del suddetto provvedimento, onde non si realizzerebbe la condizione temporale per la pronuncia di non luogo a procedere; ma si lascerebbe comunque irrisolto il problema della compressione del diritto di difesa;

    che tutte le volte in cui il giudizio direttissimo non si concludesse, per qualunque ragione, in una sola udienza, lo straniero verrebbe difatti subito espulso e non avrebbe dunque modo di difendersi: egli sarebbe processato, cioè, «in absentia» per un «fatto esterno» – l'esecuzione dell'espulsione – non equiparabile in alcun modo alla contumacia, che deriva dalla volontà dello stesso imputato;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

    Considerato che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è intervenuta la legge 12 novembre 2004, n. 271, la quale, in sede di conversione del decreto legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in tema di immigrazione), ha modificato tanto la norma processuale impugnata – il comma 5-quinquies dell'art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – quanto la disposizione incriminatrice di cui al comma 5-ter del medesimo articolo, strettamente collegata nel quesito di costituzionalità;

    che, in particolare, l'art. 1, comma 5-bis, del d.l. n. 241 del 2004 – aggiunto dalla legge di conversione – ha sostituito il citato comma 5-ter dell'art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), trasformando il reato di ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato da contravvenzione in delitto, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni – configurazione che consente, ai sensi dell'art. 280 cod. proc. pen., l'applicazione di misure coercitive – fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'ordine di allontanamento del questore consegua ad espulsione disposta perché il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo: ipotesi che mantiene l'originaria natura contravvenzionale;

    che, correlativamente, l'art. 1, comma 6, del d.l. n. 241 del 2004 – nel testo risultante dopo la conversione in legge – novellando il comma 5-quinquies dell'art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, ha ripristinato l'arresto obbligatorio per le ipotesi di ingiustificato trattenimento che hanno assunto connotazione delittuosa, ferma rimanendo la previsione in forza della quale per il reato in questione si procede in ogni caso con rito direttissimo;

    che il ripristino dell'arresto obbligatorio, in connessione col nuovo assetto sanzionatorio della fattispecie criminosa, ha dunque rimosso l'«anomalia» ravvisata dal giudice rimettente con la prima delle censure – vale a dire la previsione di un giudizio direttissimo svincolato dal presupposto dell'avvenuto arresto dell'imputato – salvo che per l'ipotesi di cui al secondo periodo dell'art. 14, comma 5-ter, nella quale il reato di ingiustificato trattenimento conserva l'iniziale fisionomia contravvenzionale: ipotesi la cui configurabilità nel caso oggetto del giudizio a quo non è dato peraltro desumere, alla luce del tenore dell'ordinanza di rimessione;

    che quanto, poi, alle censure residue, vale osservare come – secondo quanto già rilevato da questa Corte in rapporto ad analoghe questioni (v. ordinanza n. 206 del 2005) – l'applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere per il reato di cui si discute, conseguente alla sua trasformazione in delitto – misura che impedisce il rilascio del nulla-osta all'espulsione, ai sensi dell'art. 13, commi 3 e 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 –, venga ad incidere sul denunciato «automatismo» del meccanismo di espulsione degli stranieri imputati del reato stesso (oltre a modificare, più in generale, gli equilibri normativi tra le esigenze di immediato allontanamento dello straniero illegalmente presente sul territorio dello Stato e quelle connesse alla celebrazione del processo a suo carico);

    che, a seguito delle modifiche normative, non è quindi più valido, nella sua assolutezza, il postulato da cui muove il Tribunale rimettente, stando al quale – nel caso di mancato esaurimento del giudizio direttissimo in una sola udienza, segnatamente a seguito di richiesta di termini a difesa – l'imputato sarebbe destinato ad essere inevitabilmente estromesso dai confini nazionali prima della decisione sul merito dell'accusa;

    che gli atti vanno pertanto restituiti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione della rilevanza della questione, alla luce dei sopravvenuti mutamenti del quadro normativo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Firenze.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 5 maggio 2006.