Sentenza n. 67 del 2006

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SENTENZA N. 67

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Annibale                  MARINI                    Presidente

-  Franco                     BILE                             Giudice

-  Giovanni Maria       FLICK                                   “

-  Francesco                AMIRANTE                          “

-  Ugo                         DE SIERVO                          “

-  Romano                   VACCARELLA                   “

-  Paolo                       MADDALENA                     “

-  Alfio                        FINOCCHIARO                   “

-  Alfonso                   QUARANTA                        “

-  Franco                     GALLO                                 “

-  Luigi                        MAZZELLA                         “

-  Gaetano                   SILVESTRI                           “

-  Sabino                     CASSESE                              “

-  Maria Rita               SAULLE                               “

-  Giuseppe                 TESAURO                            “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, commi 3 e 4, e 11, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promosso con ordinanza del 19 settembre 2003 dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona, nelle controversie tributarie riunite vertenti tra la s.n.c. Grandinetti di Grandinetti Enrico & C. ed il Comune di Ancona, iscritta al n. 431 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie specie, dell'anno 2005.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 2006 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

    1.– La Commissione tributaria provinciale di Ancona, con ordinanza del 19 settembre 2003 (pervenuta a questa Corte il 29 luglio 2005), nel corso di cinque giudizi riuniti promossi dalla s.n.c. Grandinetti di Grandinetti Enrico & C. nei confronti del Comune di Ancona ed aventi ad oggetto l'impugnazione degli avvisi di liquidazione dell'ICI emessi dal Comune per gli anni dal 1995 al 1999,  ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 4 e 53 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, commi 3 e 4, e 11, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

    In punto di fatto, il giudice rimettente premette che: a) la società aveva acquistato, in data 1° giugno 1994, un fabbricato ancora privo di rendita catastale, censito al Catasto dei fabbricati nel gruppo e nella categoria catastali “D/8”; b) l'Ufficio del territorio aveva attribuito al fabbricato la rendita di lire 5.780.000 solo in data 25 giugno 1999; c) nelle more, per gli anni dal 1995 al 1999, la società aveva presentato al Comune di Ancona la dichiarazione ai fini dell'ICI ed aveva versato l'imposta nella misura di lire 2.084.000, calcolata in base alla rendita “presunta” del fabbricato; d) il Comune aveva tuttavia notificato alla contribuente, in relazione agli stessi anni, avvisi di liquidazione per una maggiore imposta di lire 1.403.000, oltre interessi e sanzioni; e) la società aveva impugnato tali avvisi di liquidazione, eccependo l'illegittimità costituzionale delle citate disposizioni del decreto legislativo n. 504 del 1992.

    In punto di diritto, la Commissione tributaria provinciale, sostanzialmente accogliendo la prospettazione della contribuente, afferma che l'applicazione delle norme denunciate comporta arbitrarie sperequazioni perché, in forza di tali norme, mentre per i fabbricati classificabili nel gruppo catastale “D”, se privi di rendita e se interamente posseduti da imprese (come nella specie), l'ICI è dovuta «a titolo definitivo» – fino all'anno di accatastamento compreso – sulla base del costo di acquisto risultante dalle scritture contabili e rivalutato annualmente, viceversa: (a) per i fabbricati del citato gruppo, se iscritti in catasto con attribuzione di rendita e se interamente posseduti da imprese, l'ICI è dovuta in base alla rendita catastale; (b) per i fabbricati privi di rendita, se classificabili nel predetto gruppo catastale e se non posseduti o non interamente posseduti da imprese, oppure se classificabili in un diverso gruppo catastale (posseduti o no da imprese), l'ICI è dovuta, «in via provvisoria», sulla base della rendita catastale “presunta” e, «in via definitiva», sulla base della rendita catastale poi attribuita. Secondo il giudice a quo, tale disparità di trattamento fiscale nelle indicate fattispecie non sarebbe invece riscontrabile nell'applicazione dell'imposta di registro, basata sulla rendita catastale anche per i fabbricati non ancora accatastati, in qualsiasi gruppo siano essi classificabili. Da tutto ciò la Commissione tributaria provinciale trae la conseguenza che la denunciata disciplina dell'ICI, nell'ipotesi di cui al comma 3 dell'art. 5 del d.lgs. n. 504 del 1992, discrimina irragionevolmente i fabbricati  di gruppo “D”, violando i princípi costituzionali di parità ed eguaglianza (art. 3 Cost.), di capacità contributiva (art. 53 Cost.), nonché i diritti dei cittadini che svolgono attività lavorativa, anche sotto forma d'impresa (art. 4 Cost.).

    2.– E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo una pronuncia di inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione.

    La difesa erariale, quanto all'inammissibilità, osserva che il giudice rimettente non indica le ragioni per le quali il differenziato trattamento fiscale delle fattispecie da lui descritte violerebbe gli evocati artt. 3, 4 e 53 Cost.

    Nel merito, l'Avvocatura generale dello Stato afferma che le fattispecie esaminate dal rimettente possono ridursi: a) a quella relativa agli immobili iscritti in catasto, per i quali l'ICI è calcolata in base alla rendita attribuita; b) a quella relativa agli immobili ancora privi di rendita catastale, ipotesi che a sua volta si suddivide (b.1.) in quella relativa agli immobili classificabili nel gruppo catastale “D”, che siano interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, per i quali la base imponibile è costituita dal valore contabile attualizzato, fino a tutto l'anno nel corso del quale si procede all'iscrizione in catasto con l'attribuzione della rendita (ovvero all'annotazione della rendita proposta dal contribuente con la procedura DOC-FA, ai sensi del decreto ministeriale 19 aprile 1994, n. 701), e (b.2.) in quella relativa agli altri immobili, ai quali si applica il regime di imposizione fondato sulla rendita “presunta”, cioè sulla rendita dei fabbricati similari già iscritti in catasto, fatta salva la determinazione definitiva dell'imposta, ai sensi dell'art. 11, comma 1, del decreto legislativo n. 504 del 1992, sulla base della rendita catastale successivamente attribuita.

    Da tale ricostruzione delle fattispecie prospettabili, l'Avvocatura erariale deduce che le ipotesi tra loro omogenee e, quindi, effettivamente confrontabili sarebbero solo quelle concernenti gli immobili privi di rendita catastale (ipotesi sub b.1. e sub b.2.), data la loro eterogeneità rispetto all'ipotesi di immobili già accatastati. In forza di tale premessa, l'Avvocatura, dopo aver sottolineato che nessun principio generale (tanto meno di rango costituzionale) esige di riferirsi alla rendita catastale per la determinazione della base imponibile dell'ICI, afferma che la scelta legislativa di differenziare la disciplina dell'imposta nelle indicate ipotesi di immobili ancora privi di rendita trova razionale giustificazione nell'intento del legislatore di utilizzare, quale base imponibile per gli immobili di cui al comma 3 dell'art. 5 del d.lgs. n. 504 del 1992, un valore che risulti immediatamente dalle scritture contabili (in particolare, dal registro dei beni ammortizzabili); che non sia suscettibile di essere successivamente corretto, a séguito dell'attribuzione (avente, secondo la stessa difesa erariale, effetti costitutivi e non retroattivi) della rendita catastale; che sia specifico per ciascun fabbricato, secondo le speciali caratteristiche dell'immobile; che non sia necessariamente maggiore di quello calcolato con riferimento alla rendita catastale dei fabbricati similari.

    Sempre nel merito, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che non è pertinente il riferimento del giudice a quo alla disciplina dell'imposta di registro, quale tertium comparationis, perché tale tributo è diverso dall'ICI per presupposto e per criteri di determinazione della base imponibile.

    Per la difesa erariale, infine, la questione sollevata in riferimento agli artt. 4 e 53 Cost. è manifestamente infondata, perché le norme censurate non incidono sul diritto al lavoro o sul dovere di concorrere al progresso materiale e spirituale della società e perché il valore del fabbricato risultante dalle scritture contabili dell'imprenditore costituisce espressione immediata e diretta di capacità contributiva.

Considerato in diritto

    1.– La Commissione tributaria provinciale di Ancona dubita – in riferimento agli artt. 3, 4 e 53 della Costituzione – della legittimità del combinato disposto degli artt. 5, commi 3 e 4, e 11, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nella parte in cui prevede, per i fabbricati ancora privi di rendita catastale e classificabili nel gruppo catastale “D”, ove interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, che la base imponibile dell'ICI sia costituita dal valore determinato secondo i criteri stabiliti dal penultimo periodo del comma 3 dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, e cioè «dall'ammontare, al lordo delle quote di ammortamento, che risulta dalle scritture contabili applicando per ciascun anno di formazione dello stesso» i coefficienti indicati dalla legge, soggetti ad aggiornamento con decreto ministeriale.

            Secondo il giudice rimettente, le disposizioni denunciate sarebbero in contrasto con i  princípi costituzionali di parità ed eguaglianza sanciti dall'art. 3 della Costituzione, perché tale determinazione della base imponibile dell'ICI comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento dei suddetti fabbricati rispetto: (a) ai fabbricati del medesimo gruppo catastale “D”, ove già iscritti in catasto con attribuzione di rendita, per i quali l'ICI è, invece, dovuta in base a tale rendita; (b) ai fabbricati ancora privi di rendita catastale, sia se classificabili nel predetto gruppo “D” e non posseduti o non interamente posseduti da imprese, sia se classificabili in un diverso gruppo (siano essi posseduti o no da imprese), per i quali l'ICI è dovuta, «in via provvisoria», con riferimento alla rendita “presunta”, cioè alla rendita attribuita a fabbricati similari; (c) ai fabbricati assoggettati all'imposta di registro, per i quali l'imponibile si determina – sempre ad avviso del rimettente – con riferimento alla rendita catastale, in qualunque gruppo siano classificabili. Inoltre, per la stessa Commissione tributaria provinciale, le medesime disposizioni violerebbero sia l'art. 4 Cost., perché sarebbero in contrasto con i «diritti di quanti, cittadini, svolgono attività lavorativa, anche sotto forma d'impresa», sia  l'art. 53 Cost., perché sarebbero in contrasto con il principio di capacità contributiva.

    Il giudice rimettente precisa, in punto di rilevanza, che le disposizioni censurate sono applicabili nel giudizio a quo, il quale ha ad oggetto l'impugnazione degli avvisi di liquidazione dell'ICI relativi agli anni dal 1995 al 1999, emessi dal Comune con riferimento al valore contabile attualizzato di un fabbricato privo di rendita catastale per quegli anni, classificabile nel gruppo catastale “D”, interamente posseduto da un'impresa e distintamente contabilizzato, recanti un ammontare dell'imposta superiore a quello già corrisposto dalla contribuente e da questa calcolato con riferimento alla rendita catastale di fabbricati ritenuti similari.

    2.–   La difesa erariale eccepisce l'inammissibilità della questione perché l'ordinanza di rimessione sarebbe carente di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

    L'eccezione non è fondata.

    Le censure del giudice a quo si basano sulla mancanza di ragionevolezza  della suddetta disciplina differenziata dell'imponibile dell'ICI, per i fabbricati di gruppo “D”, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati. Da tale irragionevolezza il rimettente fa discendere, quale mero corollario, la violazione anche degli altri parametri costituzionali evocati (artt. 4 e 53 Cost.), in quanto le disposizioni denunciate, nell'imporre per i suddetti fabbricati criteri di determinazione dell'imponibile ritenuti dal rimettente comparativamente piú gravosi per i contribuenti, discriminerebbero ingiustificatamente il lavoro d'impresa e la capacità contributiva degli imprenditori. In questo quadro argomentativo, la prospettazione da parte della Commissione tributaria provinciale di ipotesi ritenute omogenee a quelle oggetto dei giudizi principali, ma assoggettate ad un diverso e piú favorevole trattamento fiscale, costituisce sufficiente motivazione della prospettata irragionevolezza delle disposizioni censurate e dell'ingiustificata disparità di trattamento conseguentemente dedotta. La questione è pertanto ammissibile, restando riservata all'esame di merito la valutazione della effettiva comparabilità delle fattispecie poste a raffronto e, quindi, della fondatezza delle censure.

    3.–  Nel merito, la questione non è fondata.

    Il decreto legislativo n. 504 del 1992 prevede una disciplina differenziata per la determinazione della base imponibile dell'ICI sui fabbricati, distinguendo i fabbricati iscritti in catasto con attribuzione di rendita da quelli che ne sono ancora privi. In particolare, per i fabbricati provvisti di rendita viene stabilito che la base imponibile è costituita dal valore risultante dall'applicazione, all'ammontare delle rendite catastali vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione, dei moltiplicatori determinati con i criteri e le modalità previsti dal primo periodo dell'ultimo comma dell'art. 52 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro» (art. 5, comma 2, del citato decreto legislativo). Per i fabbricati ancora privi di rendita, la suddetta normativa sull'ICI distingue ulteriormente da tutte le altre ipotesi quella dei fabbricati a destinazione speciale, classificabili nel gruppo catastale “D”, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati. Con riguardo a questa ultima ipotesi, l'art. 5, comma 3, del citato d.lgs. n. 504 del 1992 prevede che la base imponibile è costituita dal valore determinato secondo i criteri stabiliti dal penultimo periodo del comma 3 dell'art. 7 del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 e cioè «dall'ammontare, al lordo delle quote di ammortamento, che risulta dalle scritture contabili applicando per ciascun anno di formazione dello stesso» i coefficienti indicati dal medesimo comma 3 dell'art. 5, soggetti ad aggiornamento con decreto ministeriale. Con riguardo alle altre ipotesi di fabbricati ancora privi di rendita, il successivo comma 4 dello stesso articolo 5 individua tale base imponibile nel valore determinato con riferimento alla cosiddetta rendita presunta e, cioè, alla rendita dei fabbricati similari già iscritti in catasto.

    La fattispecie oggetto del giudizio a quo rientra nell'ipotesi dei fabbricati classificabili nel gruppo catastale “D”, che sono interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, la cui base imponibile è calcolata con riferimento al cosiddetto “valore contabilizzato”,  prescindendo dalla rendita catastale.

    Secondo il rimettente, la scelta del legislatore di non applicare il criterio del valore fondato sulla rendita sarebbe irragionevole, perché – in violazione dell'art. 3 Cost. – creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento fiscale tra ipotesi ritenute equivalenti, quali quelle riguardanti i fabbricati: a) iscritti a catasto, con attribuzione di rendita; b) privi di rendita e classificabili in gruppi catastali diversi dal gruppo “D”, posseduti o no da imprese; c) privi di rendita, anch'essi classificabili nel gruppo “D”, ma non posseduti o non interamente posseduti da imprese; d) assoggettati ad imposta di registro.

    È erroneo il presupposto da cui muove il rimettente, e cioè che tali ipotesi siano omogenee rispetto a quella prevista dal censurato comma 3 dell'art. 5 del d.lgs. n. 504 del 1992.

    In particolare, l'ipotesi sub a) è evidentemente diversa, in quanto presuppone l'attribuzione della rendita catastale del fabbricato e la conseguente possibilità di determinare l'imponibile con riferimento a detta rendita, mentre  nell'ipotesi oggetto del giudizio a quo tale rendita non è stata ancora attribuita.

    Neppure l'ipotesi  sub b) è comparabile con quella di cui alla norma denunciata. Infatti, i fabbricati soggetti ad ICI, privi di rendita e classificabili in gruppi catastali diversi dal gruppo “D”, in quanto «a destinazione ordinaria», sono ordinati in catasto per tariffe d'estimo, con la conseguenza che, in attesa dell'attribuzione della rendita, la loro base imponibile è agevolmente determinabile in relazione alla rendita “presunta”, e cioè alla rendita di fabbricati similari già iscritti in catasto. Viceversa, i fabbricati di cui al gruppo catastale “D” – nel quale è classificabile il fabbricato di cui al giudizio a quo – sono, per le loro caratteristiche funzionali e tipologiche, «a destinazione speciale» e, quindi, sono ordinati per rendita catastale ottenuta con stima diretta (art. 7, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 604, recante «Revisione degli estimi e del classamento del catasto terreni e del catasto edilizio urbano»); con la conseguenza che, in mancanza di tale stima, si è preferito  il criterio – già sperimentato per l'imposta straordinaria sugli immobili (ISI) –  del costo rivalutato di acquisizione del bene ricavabile dalle scritture contabili, in luogo di quello basato sulla rendita “presunta”, di più difficile applicazione. Ciò è confermato anche dalla relazione governativa al d.lgs. n. 504 del 1992, che ha giustificato, appunto, tale scelta in ragione della «estrema difficoltà di attribuire in tempi ragionevolmente brevi ai numerosi fabbricati di gruppo D) la rendita catastale la quale, come è noto, si basa su stima diretta». La differenziazione della disciplina della base imponibile non è pertanto irragionevole e rientra nell'àmbito delle legittime scelte del legislatore.

    Non v'è omogeneità neanche tra il caso all'esame del giudice a quo e quello sub c), in cui i fabbricati di gruppo “D” privi di rendita non sono posseduti o non sono interamente posseduti da imprese. Riguardo ai fabbricati non posseduti da imprese, la mancanza di un obbligo di tenuta di scritture contabili a carico del possessore non ha, infatti,  consentito al legislatore di utilizzare il più agevole criterio del valore contabilizzato e, quindi, gli ha imposto di adottare, quale alternativa e in attesa dell'attribuzione della rendita, il criterio interinale della rendita “presunta”, ancorché di difficile applicazione. Anche riguardo ai fabbricati non interamente posseduti da imprese, il legislatore ha preferito, nella sua discrezionalità, utilizzare quale criterio unitario di valutazione quello, oggettivo e suscettibile di essere applicato sia agli imprenditori che ai non imprenditori, della rendita “presunta”, piuttosto che imporre ai soggetti non imprenditori il criterio del valore contabilizzato, proprio delle imprese obbligate alla tenuta delle scritture contabili.

    Infine, neppure la fattispecie sub d), relativa ai fabbricati assoggettati all'imposta di registro, può essere assimilata a quella oggetto del giudizio a quo, perché detto tributo è diverso dall'ICI, non solo per quanto attiene alla natura e al presupposto, ma anche – almeno secondo il testo vigente al momento dell'applicazione dell'ICI nel caso di specie (articoli 43, 51 e 52 del d.P.R. n. 131 del 1986) – per quanto attiene ai criteri di determinazione della base imponibile. Questa, nella disciplina dell'imposta di registro, è costituita, infatti, dal valore del bene dichiarato o (se superiore) dal prezzo pattuito e il riferimento alla rendita catastale rileva ai fini non della determinazione della base imponibile, ma solo dell'esercizio del potere di rettifica in aumento da parte dell'ufficio finanziario, nell'ipotesi in cui il valore o il corrispettivo dell'immobile siano inferiori all'ammontare della rendita catastale moltiplicata e aggiornata ai sensi degli articoli 52, comma 4, del d.P.R. n. 131 del  1986 e 12 del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70 (Norme in materia tributaria nonché per la semplificazione delle procedure di accatastamento degli immobili urbani), convertito con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154.

    L'evidenziata eterogeneità delle predette ipotesi rispetto alla fattispecie oggetto del  giudizio a quo, nonché la sottolineata non palese irragionevolezza della disciplina differenziata dell'imponibile dell'ICI comportano, dunque, la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 3 Cost.

    4. – Ad identica conclusione di non fondatezza della questione deve giungersi con riguardo agli altri parametri evocati, perché il criterio di calcolo dell'ICI previsto dalle disposizioni censurate e basato sul valore dei fabbricati risultante dalle scritture contabili dell'imprenditore – cioè sul costo di acquisto, aumentato degli eventuali costi incrementativi – non solo non è irragionevole, ma neppure comporta un tributo necessariamente maggiore di quello calcolato in base alla rendita catastale “effettiva” o “presunta” degli stessi fabbricati. Le disposizioni denunciate, pertanto, non incidono negativamente sul diritto al lavoro (art. 4 Cost.), inteso dal rimettente come lavoro di impresa, né discriminano sfavorevolmente la capacità contributiva degli imprenditori, della quale il valore contabilizzato del fabbricato costituisce – anzi – sicura espressione (art. 53 Cost.).

    PER QUESTI MOTIVI

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, commi 3 e 4, e 11, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 febbraio 2006.