Ordinanza n. 398 del 2005

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ORDINANZA N. 398

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Piero Alberto  CAPOTOSTI            Presidente

- Fernanda         CONTRI                   Giudice

- Annibale         MARINI                    "

- Franco             BILE                          "

- Giovanni  Maria FLICK                    "

- Francesco        AMIRANTE              "

- Ugo                 DE SIERVO              "

- Romano          VACCARELLA        "

- Paolo               MADDALENA         "

- Alfio               FINOCCHIARO       "

- Alfonso           QUARANTA            "

- Franco             GALLO                     "         

- Luigi               MAZZELLA             "

- Gaetano          SILVESTRI               "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera b) (sostitutivo dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 <<Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche>>) e comma 7 della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), promossi con ordinanze del 1° aprile, del 30 aprile, dell'11 maggio e del 14 giugno 2004 dal Tribunale di Roma, rispettivamente iscritte ai numeri 672, 673, 674 e 893 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 33 e 46, prima serie speciale, dell'anno 2004.

    Visti gli atti di costituzione di Bruno Salvi, Rossana Rummo, Michele Calascibetta e Eugenio Ceccotti, nonché gli atti di intervento di Vincenza Cesareo Grillo e del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 27 settembre 2005 il Giudice relatore Franco Bile;

    uditi gli avvocati Claudio Scognamiglio per Bruno Salvi, Amos Andreoni, Vittorio Angiolini e Luisa Torchia per Rossana Rummo, Michele Calascibetta e Eugenio Ceccotti, Massimo Luciani per Vincenza Cesareo Grillo e l'avvocato dello Stato Aldo Linguiti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che il Tribunale di Roma – chiamato a decidere, tra le altre, sulla domanda proposta (nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dei trasporti e della navigazione), dall'ex capo del Dipartimento dell'aviazione civile del Ministero dei trasporti e della navigazione, per l'accertamento del proprio diritto alla prosecuzione fino alla scadenza contrattualmente stabilita dell'incarico dirigenziale originariamente conferitogli, revocato in applicazione dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato) – con ordinanza emessa il 1° aprile 2004 (r.o. n. 672 del 2004), ha sollevato questione di legittimità costituzionale del menzionato art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui ha disposto che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e quelli di direttore generale degli enti pubblici vigilati dallo Stato cessano il sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della legge;

    che, secondo il rimettente, la norma impugnata (avente natura retroattiva) viola: a) gli artt. 2, 4 e 41 della Costituzione, che tutelano la libertà negoziale e l'autonomia privata dell'individuo e sono funzionali anche alla realizzazione dei valori della sua personalità, e che, come tali, ammettono interventi da parte di norme eteroformate soltanto nel rispetto della ragionevolezza; b) l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento dei soggetti cui la norma si applica, rispetto a “tutti gli altri” che hanno stipulato un contratto e che sono assoggettati alla regola fondamentale dell'art. 1372 del codice civile; c) l'art. 97 Cost., poiché lo scioglimento automatico e incondizionato di tutti i contratti, senza la previsione di qualsiasi motivazione costituisce un grave vulnus al principio di imparzialità, atteso che il meccanismo di cessazione automatica degli incarichi potrebbe essere agevolmente utilizzato dall'amministrazione per perseguire finalità ben diverse da quella della cura dell'interesse pubblico;

    che nel corso di analogo giudizio – proposto (nei confronti del Ministero per i beni e le attività culturali, della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Dipartimento della funzione pubblica e di altro controinteressato) da una dirigente generale, per ottenere tra l'altro il ripristino, fino alla naturale scadenza pattuita, nelle originarie funzioni di direttore della direzione generale per il cinema, da cui era cessata per effetto dell'applicazione della normativa de qua – il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 30 aprile 2004 (r.o. n. 673 del 2004), ha sollevato congiuntamente questione di legittimità costituzionale del citato art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui ha disposto la cessazione degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall'entrata in vigore di detta legge, e dell'art. 3, comma 1, lettera b), della stessa legge nella parte in cui, in relazione al nuovo regime della dirigenza, stabilisce un limite massimo triennale di durata di detti incarichi, in quanto – una volta dichiarata l'incostituzionalità del comma 7 – sarebbe d'ostacolo al ripristino dei rapporti cessati per la maggior durata convenzionale;

    che, a giudizio del rimettente, entrambe le norme confliggono con: a) l'art. 97 Cost., per lesione del principio di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione, in quanto, inducendo i dirigenti generali alla ricerca del gradimento politico, li distoglierebbero dal perseguimento di quelle finalità e consentirebbero al Ministro di assumere un ruolo gestionale non bilanciato dall'assunzione delle correlate responsabilità amministrative, contabili e penali; b) l'art. 98 Cost., che esige che i pubblici impiegati siano al servizio della Nazione; c) gli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36 e 97 Cost., poiché l'intervento su rapporti contrattuali in corso e la loro risoluzione senza motivazione ledono i principi di ragionevolezza, buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione e di affidamento, determinando un demansionamento dei dirigenti titolari di tali rapporti;

    che il solo art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 è censurato, altresì, per violazione: d) degli artt. 70 e 97, primo e secondo comma, Cost., in quanto si concreta nell'utilizzo dello strumento legislativo per raggiungere effetti propri di un atto amministrativo, e quindi implica eccesso di potere legislativo; e) dell'art. 3 Cost., per disparità di trattamento a favore dei dirigenti non di livello generale per i quali si è invece prevista la conferma automatica in caso di mancata tempestiva rotazione degli incarichi, debitamente motivata ed alle condizioni previste dal contratto collettivo;

    che, ancora – chiamato a decidere, tra le altre, sulla domanda proposta (nei confronti del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Dipartimento della funzione pubblica e di altro cointrointeressato) da un dirigente generale, per il suo reintegro, fino alla scadenza naturale del contratto, nelle originarie funzioni di direttore dell'Ufficio scolastico regionale della Sicilia, da cui era cessato per effetto dell'applicazione della normativa in esame – il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa l'11 maggio 2004 (r.o. n. 674 del 2004), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui ha disposto la cessazione degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall'entrata in vigore di detta legge, e, in subordine, dell'art. 3, comma 1, lettera b), della stessa legge, nella parte in cui, in relazione al nuovo regime della dirigenza, stabilisce un limite massimo triennale di durata di detti incarichi, ove si ritenesse che – una volta dichiarata l'incostituzionalità del comma 7 – la norma sarebbe d'ostacolo al ripristino dei rapporti cessati per la maggior durata convenzionale;

    che, secondo il rimettente, entrambe le norme impugnate violano: a) gli artt. 97 e 98 Cost., in quanto non garantiscono il rispetto dell'autonomia dell'amministrazione e, quindi, sono lesive del principio di buon andamento e di imparzialità della stessa e di quello per cui l'amministrazione deve essere al servizio esclusivo della Nazione e non della maggioranza di governo; b) l'art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza, ove si riconosca che i dirigenti generali hanno una natura che li avvicina ai segretari generali ed ai capi dipartimento, in quanto solo per essi è stata prevista la cessazione automatica del rapporto una tantum, ovvero per disparità di trattamento rispetto ai dirigenti di secondo livello, ove si riconosca loro una natura che ad essi li avvicini; c) gli artt. 1, 2, 3, 4 e 35 Cost., per lesione del principio di stabilità dei contratti di lavoro e dell'affidamento dei lavoratori, della loro personalità, e per disparità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori;

    che, infine – chiamato a decidere, tra le altre, sulla domanda proposta (nei confronti dell'ISFOL – Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori –  e di altro controinteressato) dall'ex direttore generale del suddetto istituto, per ottenere il ripristino, fino alla scadenza contrattuale nelle sue funzioni – il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 14 giugno 2004 (r.o. n. 893 del 2004), ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui ha disposto la cessazione degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall'entrata in vigore di detta legge;

    che la norma è censurata in riferimento: a) all'art. 3 Cost., per lesione della sicurezza delle situazioni giuridiche; b) all'art. 2 Cost., per lesione dell'autonomia negoziale; c) all'art. 41 Cost., per lesione della libertà di iniziativa economica privata; d) agli artt. 3, 70, 97 e 113 Cost., per eccesso di potere legislativo, sotto il profilo che avrebbe posto non una regola generale, ma una disposizione avente il contenuto obiettivo di un atto amministrativo; e) all'art. 3 Cost., per disparità di trattamento in relazione alla situazione di cui all'art. 6 della legge n. 145 del 2002; f) all'art. 33 Cost., per lesione dell'autonomia riconosciuta da tale norma costituzionale alle istituzioni cui fa riferimento;

    che, in tutti i giudizi, si sono costituite le parti private ricorrenti nei processi a quibus, che hanno concluso tutte per l'accoglimento delle sollevate questioni; ed è, altresì, intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità e la non fondatezza delle sollevate questioni;

    che, in tutti i giudizi, è intervenuto – concludendo per l'accoglimento delle sollevate questioni – altro soggetto privato, parte di un processo diverso da quelli nei quali sono state pronunciate le ordinanze di rimessione; e che detti interventi sono stati dichiarati inammissibili come da ordinanza presidenziale pronunciata in udienza.

    Considerato che tutte le ordinanze di rimessione propongono la questione di legittimità costituzionale – in riferimento a molteplici parametri – dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato) nella parte in cui prevede che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e quelli di direttore generale degli enti pubblici vigilati dallo Stato in corso all'entrata in vigore della legge medesima (che ha modificato la disciplina della dirigenza nella pubblica amministrazione) cessano il sessantesimo giorno da tale data;

    che, con le ordinanze iscritte al numeri r.o. 673 e 674 del 2004, i rimettenti censurano altresì, oltre la citata disposizione transitoria, anche l'art. 3, comma 1, lettera b), della stessa legge n. 145 del 2002, nella parte in cui, in relazione al nuovo regime della dirigenza, pone la disciplina a regime della durata degli incarichi in esame, prevedendo un limite massimo triennale, in quanto tale previsione – pur se il citato comma 7 fosse dichiarato incostituzionale – impedirebbe il ripristino dei rapporti cessati per la maggior durata convenzionalmente stabilita;

    che, data l'evidente connessione delle sollevate questioni – concernenti le stesse disposizioni, denunciate con riferimento a parametri in larga parte coincidenti – i relativi giudizi devono essere riuniti e congiuntamente decisi;

    che – successivamente alla proposizione delle ricordate questioni di legittimità costituzionale – l'art. 14-sexies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, inserito dalla legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, ha ulteriormente modificato la disciplina a regime della durata degli incarichi dirigenziali in esame posta dall'art. 19, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e già modificata dall'art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 145 del 2002, impugnato dalle ordinanze di rimessione numeri r.o. 673 e 674 del 2004;

    che in particolare la norma sopravvenuta ha – al comma 1 – reintrodotto per tali incarichi una durata minima, fissandola in tre anni, e portato quella massima da tre a cinque anni, e – al comma 2 – ha precisato che <<La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali resi vacanti prima della scadenza dei contratti dei relativi dirigenti per effetto dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145>>;

    che pertanto il comma 1 del sopravvenuto art. 14-sexies ha modificato una delle norme impugnate, così incidendo sui profili di rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni riguardanti il citato art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 145 del 2002, onde se ne impone il riesame da parte dei giudici rimettenti;

    che, d'altra parte, siffatta sopravvenuta modifica di una delle due norme censurate – pur se i nuovi limiti temporali non si applicano agli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali resi vacanti prima della scadenza dei contratti dei relativi dirigenti per effetto della impugnata cessazione automatica – comporta comunque un rilevante mutamento del complessivo quadro normativo di riferimento da cui tutti i rimettenti hanno tratto argomentazioni in ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni riguardanti l'altra norma impugnata, ossia l'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002;

    che, pertanto, in via del tutto preliminare, si impone la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, ai quali spetta di rivalutare le questioni alla luce dello ius superveniens.

 per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti ai giudici del Tribunale di Roma rimettenti.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 2005.

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Franco BILE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 25 ottobre 2005.