Ordinanza n. 346 del 2005

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ORDINANZA N. 346

 

ANNO 2005

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai Signori:

 

- Piero Alberto         CAPOTOSTI             Presidente

 

- Guido                    NEPPI MODONA      Giudice

 

- Annibale                MARINI                                "

 

- Franco                    BILE                                      "

 

- Giovanni Maria      FLICK                                   "

 

- Francesco               AMIRANTE                          "

 

- Ugo                        DE SIERVO                          "

 

- Romano                 VACCARELLA                   "

 

- Paolo                      MADDALENA                     "

 

- Alfio                      FINOCCHIARO                   "

 

- Alfonso                  QUARANTA                        "

 

- Franco                    GALLO                                 "

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), promossi con ordinanze del 19 aprile 2004 dal Tribunale di sorveglianza di Venezia e del 13 settembre 2004 dal Tribunale di sorveglianza di Torino sui reclami proposti dalla Procura della Repubblica di Venezia e da Sini Aldo iscritte ai nn. 813 del registro ordinanze 2004 e 69 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2004 e n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2005.

 

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

    udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2005 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

 

    Ritenuto che, con ordinanza del 19 aprile 2004 (reg.ord. n. 813 del 2004), il Tribunale di sorveglianza di Venezia – investito di reclamo proposto dal p.m. avverso pronuncia del Magistrato di sorveglianza – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 1 agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 79, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non consente al giudice di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sull'idoneità preventiva e rieducativa della sospensione condizionata dell'esecuzione della pena, pur essendo norma compresa in una legge non approvata secondo le modalità prescritte dalla Costituzione per l'emanazione di un provvedimento di indulto; nonché, in via subordinata, dell'art. 1, comma 3, lett. d), della stessa legge, in relazione agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede come causa ostativa del beneficio l'intervenuta revoca di una misura alternativa;

 

    che il rimettente riferisce che il Magistrato di sorveglianza di Venezia aveva concesso il beneficio della sospensione condizionata della parte finale della pena detentiva, introdotta dalla legge n. 207 del 2003, ritenendo sussistenti i requisiti di legittimità prescritti dalla legge, a un soggetto che, già ammesso a una misura alternativa, ne aveva subito colpevolmente la revoca;

 

    che il Tribunale ritiene corretta l'interpretazione data dal Magistrato di sorveglianza di Venezia alla disposizione di cui all'art. 1, punto 3, lett. d), della legge n. 207 del 2003, dal momento che tale disposizione deve essere intesa nel senso che solo l'ammissione a misure alternative, attuale al momento della decisione del Magistrato di sorveglianza, precluda la concessione della sospensione condizionata dell'esecuzione della pena, deponendo in tal senso la ratio di deflazione carceraria, diretta ad attenuare il grave problema del sovraffollamento carcerario, ispiratrice della legge n. 207 del 2003;

 

    che la legge citata ha espressamente richiamato le norme dell'ordinamento penitenziario che ha inteso estendere al nuovo beneficio, mentre non ha richiamato la norma di cui all'art. 58-quater, secondo comma, dello stesso ordinamento, sicché quest'ultima non può essere estesa in via interpretativa, trattandosi di norma di stretta interpretazione in quanto norma sfavorevole al reo;

 

    che l'interpretazione sostenuta, rileva il rimettente, è coerente inoltre con la natura del beneficio, del tutto sganciato da ogni valutazione di meritevolezza e idoneità rieducativa;

 

    che la disposizione in questione attribuisce, secondo il giudice a quo, al sistema una connotazione estremamente criticabile sotto il profilo della razionalità e costituzionalità, e che, pertanto, deve essere sollevata d'ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma, per contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 79, primo comma, della Costituzione;

 

    che, in punto di rilevanza della questione, osserva il rimettente che è ineliminabile l'applicazione della norma nell'iter logico–giuridico che il tribunale deve percorrere per la decisione conclusiva dell'odierno procedimento, trovandosi il condannato nelle condizioni previste dall'art. 1 della legge n. 207 del 2003 per l'ammissione al cosiddetto «indultino», pur avendo subito colpevolmente, in relazione allo stesso titolo esecutivo, la revoca di una misura alternativa, così dimostrando l'incapacità di gestire una misura più restrittiva del nuovo beneficio;

 

    che, quanto alla non manifesta infondatezza, il collegio a quo osserva che il nuovo istituto introdotto nel sistema dalla legge n. 207 del 2003, di difficile inquadramento sistematico, è connotato dal tendenziale automatismo della concessione, non essendo demandato al giudice di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sulla meritevolezza del beneficio, né sulla sua idoneità rieducativa e preventiva, ma esclusivamente l'accertamento della sussistenza dei requisiti di legittimità previsti dalla legge, con evidenti affinità della sospensione condizionata con la misura clemenziale dell'indulto, con la quale ha anche in comune la disciplina della revoca a causa della commissione di un delitto non colposo entro il termine previsto dalla legge, nonché l'estinzione della pena nel caso opposto;

 

    che irrilevante, ai fini dell'inquadramento sistematico del nuovo istituto, prosegue l'ordinanza, è invece la circostanza che il cosiddetto «indultino» abbia come contenuto una serie di obblighi e prescrizioni in gran parte mutuati dalla più ampia delle misure alternative, ovvero l'affidamento in prova al servizio sociale, misura con la quale il nuovo beneficio condivide altri aspetti di disciplina, quali la sottoscrizione del verbale delle prescrizioni, l'assoggettamento al controllo del centro di servizi sociali per adulti, la competenza del Magistrato di sorveglianza sulle modifiche delle prescrizioni e in ordine ai provvedimenti di cui agli artt. 51-bis e 51-ter dell'ordinamento penitenziario in caso di violazione delle prescrizioni o di sopravvenienza di ulteriori titoli;

 

    che «l'indultino», infatti, nonostante tali richiami di disciplina, non può esser considerato una misura alternativa alla detenzione, potendosi anzi rilevare che l'introduzione di tale ibrido istituto rappresenta un punto di rottura dell'armonia del vigente sistema dell'esecuzione penitenziaria, che prima dell'entrata in vigore della legge de qua aveva una sua logica e coerenza, in quanto incentrato sui principi del finalismo rieducativo della pena e della progressività trattamentale;

 

    che nel nuovo sistema, sarebbe ben possibile che ottenga l'“indultino”, ovvero un beneficio di notevole portata, il condannato che non abbia mai ottenuto, per la mancata adesione al trattamento e la condotta irregolare tenuta nel corso dell'esecuzione, l'ammissione a una misura alternativa, neppure più contenitiva dell'“indultino” (quale la detenzione domiciliare o la semilibertà), e neppure alcun tipo di beneficio, pur se di minore portata, come la liberazione anticipata, l'ammissione ai permessi premio, al lavoro all'esterno etc.;

 

    che è inoltre possibile che il condannato, che abbia subito colpevolmente la revoca di una misura alternativa, come il soggetto protagonista del giudizio a quo, sia automaticamente scarcerato per effetto dell'«indultino», ottenendo così una misura più ampia di quella che si è appena rivelata inidonea, con conseguente contrasto con il canone di ragionevolezza e di razionale uniformità del trattamento normativo sotteso all'art. 3 della Costituzione, e, inoltre, con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, per la lesione dei canoni di proporzionalità e individualizzazione della pena, e del principio di progressività trattamentale e di finalismo rieducativo della pena;

 

    che la legge preclude l'accesso al beneficio a coloro che già sono ammessi a una misura alternativa, pur se di portata più afflittiva (come, ad esempio, la detenzione domiciliare o la semilibertà, secondo l'interpretazione prevalente che viene data alla disposizione di cui all'art. 1, punto 3, lett. d), della legge n. 207 n.2003), e non ne hanno cagionato colpevolmente la revoca, con il conseguente contrasto della norma censurata con l'art. 3 della Costituzione, a causa dell'irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti che si sono dimostrati meritevoli di una misura alternativa e ne hanno osservato le prescrizioni e coloro che non hanno mai meritato una misura alternativa, o se la sono vista colpevolmente revocare;

 

    che sotto altro profilo, infine, va rilevato che l'automatismo previsto dalla legge per la concessione dell'«indultino», e l'assenza di alcuno spazio per una valutazione discrezionale del giudice, rendono il nuovo istituto del tutto affine a una misura di clemenza, dal momento che quest'ultima non ha alcuna efficacia rieducativa, ma risponde a scelte di politica criminale, e limita il ruolo del giudice a un mero accertamento dei requisiti di legittimità previsti dalla legge;

 

    che l'introduzione di una misura di clemenza avrebbe, però, richiesto un formale provvedimento di indulto, approvato con la maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione, requisito formale di cui la legge n. 207 del 2003 è, invece, priva, con conseguente contrasto con l'art. 79, primo comma, della Costituzione;

 

    che, con ordinanza del 13 settembre 2004 (reg. ord. n. 69 del 2005), il Tribunale di sorveglianza di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 27, terzo comma, 79, primo comma, 101, secondo comma, 102 della Costituzione, nella parte in cui prevede come causa ostativa del beneficio l'intervenuta revoca di una misura alternativa;

 

     che il rimettente rileva di essere stato investito di un reclamo – proposto a seguito di un provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Alessandria che aveva dichiarato inammissibile l'istanza di sospensione condizionata dell'esecuzione della pena, per essere stato il condannato ammesso ad una misura alternativa alla detenzione – con il quale si lamentava l'erronea interpretazione della norma di cui all'art. 1, comma 3), lettera d), della legge n. 207 del 2003, avendo il Magistrato di sorveglianza ritenuto ostativa all'ammissione al beneficio l'intervenuta revoca della misura alternativa alla detenzione subita dal condannato;

 

    che, secondo il giudice a quo, l'interpretazione del Magistrato di sorveglianza deve ritenersi corretta, in quanto coerente con la natura del beneficio, ma che la stessa non si sottrae a dubbi di incostituzionalità e che, pertanto, deve essere sollevata d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003;

 

    che la questione, osserva il rimettente, è rilevante, ai fini della pronuncia sul proposto reclamo, essendo ineliminabile l'applicazione della norma nell'iter logico-giuridico che il rimettente deve percorrere per la decisione del procedimento, trovandosi il condannato nelle condizioni previste dall'art. 1 della legge n. 207 del 2003 per l'ammissione all'indultino, pur avendo subito – per fatto colpevole – in relazione allo steso titolo esecutivo, la revoca di una misura alternativa;

 

    che, in punto di non manifesta infondatezza, va considerato, secondo il giudice a quo, che il nuovo istituto introdotto dalla legge n. 207 del 2003, è connotato dal tendenziale automatismo della concessione, non essendo attribuito al Magistrato di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sulla «meritevolezza» del condannato che domanda il beneficio, né sull'idoneità rieducativa e preventiva della misura, essendo unicamente imposto al giudicante di verificare la sussistenza dei requisiti di legittimità previsti dalla legge;

 

    che la norma censurata contrasta con i principi sanciti dagli artt. 101, secondo comma, e 102 Cost., poiché la limitazione del sindacato del giudice alla sola valutazione dei presupposti formali configurerebbe l'emissione di un provvedimento incidente sulla libertà personale dell'individuo in base alla sola verifica della sussistenza dei presupposti normativi, riducendo l'intervento del giudice a mera attività esecutiva priva di qualsivoglia apprezzamento valutativo di carattere giurisdizionale in ordine alla opportunità della concessione del beneficio in rapporto ai parametri di progressione rieducativa e di prognosi di recidiva propri del giudizio sulla applicazione delle misure previste dall'ordinamento penitenziario e, più in generale, operanti nella fase dell'esecuzione penale, alla luce del principio rieducativo sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

 

    che tale quadro, connotato da una tendenziale riduzione dei compiti del giudice a profili di mera verifica delle condizioni di legge per l'applicazione del beneficio extra ordinem, senza che residui in capo al magistrato alcun potere o margine di apprezzamento discrezionale, suggerisce immediati profili di affinità della sospensione condizionata con la misura dell'indulto, con la quale la prima ha anche in comune la disciplina della revoca a causa della commissione di un delitto non colposo entro il termine previsto dalla legge, nonché l'estinzione della pena nel caso opposto;

 

    che anche l'indulto, peraltro, può essere sottoposto a condizioni od obblighi, alla cui violazione consegue la revoca del beneficio, con la conseguenza che l'istituto di cui alla legge n. 207 del 2003 può considerarsi una misura identica – quanto a ratio legis – a quella dell'indulto;

 

    che l'introduzione di una misura di clemenza avrebbe allora, doverosamente, richiesto l'adozione di un formale provvedimento di indulto, approvato con la maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione, mentre ciò non è avvenuto, per essere stata la legge n. 207 del 2003 approvata dal Parlamento senza tener conto del disposto costituzionale, con conseguente violazione, sotto tale profilo, dell'art. 79, primo comma, della Costituzione;

 

    che, secondo il giudice a quo, l'introduzione dell'«indultino» rappresenta un momento di rottura dell'armonia del vigente sistema dell'esecuzione penitenziaria, fondato sui principi del finalismo rieducativo della pena e della progressività trattamentale, con conseguente violazione del principio di finalizzazione rieducativa sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

 

    che, conformemente a tali principi, la concessione di ogni misura alternativa o beneficio penitenziario deve essere preceduta, oltre che dall'accertamento della sussistenza dei requisiti di legittimità di volta in volta prescritti dalla legge, anche e soprattutto da un apprezzamento discrezionale del giudicante sulla «meritevolezza» del beneficio, inteso quale verifica del raggiungimento, da parte del condannato, di un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, sulla conseguente idoneità rieducativa di quest'ultimo e sull'efficacia della misura a prevenire il pericolo di recidiva;

 

    che espressione normativizzata di detto principio (progressività/regressione) è il divieto di concessione per tre anni dei permessi premio, dell'assegnazione al lavoro all'esterno, dell'affidamento in prova, della detenzione domiciliare e della semilibertà (art. 58-quater, secondo comma, della legge n. 354 del 1975);

 

    che la norma dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, costituisce un sistema connotato da un automatismo applicativo inconciliabile con il principio di finalità rieducativa della pena, ed impone al magistrato di sorveglianza un irragionevole obbligo di applicare il beneficio nei confronti di chi abbia subito la revoca di misure alternative per fatto colpevole, negandola a condannati che abbiano invece conseguito apprezzabili risultati sul piano della progressione trattamentale e della rieducazione, quali i soggetti già ammessi ai benefici penitenziari;

 

    che la stessa norma si pone, inoltre, per gli stessi motivi, in netto ed insanabile contrasto con il canone di eguaglianza (inteso nel senso della ragionevolezza del trattamento differenziato di condannati a seconda che abbiano o no commesso violazioni delle prescrizioni) stabilito dall'art. 3 della Carta fondamentale;

 

    che, inoltre, deve concludersi che la legge n. 207 del 2003 precluda l'applicazione dell'“indultino” a coloro che già sono ammessi a una misura alternativa, pur se di portata più afflittiva (come, ad esempio la detenzione domiciliare o la semilibertà), e non ne hanno cagionato colpevolmente la revoca, con conseguente ulteriore motivo di contrasto della norma censurata con l'art. 3 della Costituzione, a causa dell'irragionevole disparità di trattamento riservata, da una parte, ai soggetti che si sono dimostrati «meritevoli» di una misura alternativa e ne hanno osservato correttamente le prescrizioni, e, dall'altra, a coloro che non sono mai stati giudicati «meritevoli» di una misura alternativa, o ne hanno subito la revoca per fatto colpevole;

 

    che, per gli stessi motivi sopra esposti, inoltre, l'art. 1, comma 3, lettera d), della legge citata contrasta con i principi sanciti dagli artt. 3 e 13, secondo comma, della Costituzione, perché, in materia di libertà personale, impone, irragionevolmente, un'identica risposta legislativa a situazioni personali affatto differenti (condannati «meritevoli» e «non meritevoli», nel senso sopra descritto), essendo preclusa qualsiasi valutazione discrezionale del giudice che possa adeguare il precetto normativo al caso concreto, in un'ottica costituzionalmente orientata ai parametri rieducativi dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

 

    che, nei due giudizi, è intervenuto, con atti distinti, ma sostanzialmente analoghi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

 

    Considerato che il Tribunale di sorveglianza di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 207 del 2003 nella parte in cui attribuisce al condannato, ricorrendo determinate condizioni, il diritto alla sospensione condizionale – nel limite di due anni – dell'esecuzione della parte finale della pena detentiva senza consentire al giudice di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sulla meritevolezza del beneficio e sulla sua idoneità preventiva e rieducativa, per violazione dell'art. 79, primo comma, della Costituzione, perché la norma in questione, pur prevedendo nella sostanza un indulto, non è stata deliberata con le forme previste dalla Costituzione per quest'ultimo, ovverosia con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale; per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché la pena non avrebbe alcuna funzione rieducativa o preventiva, non avendo il giudice di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sulla concessione del beneficio; per violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, perché la norma in questione prevederebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti che si sono dimostrati meritevoli di una misura alternativa e ne hanno osservato le prescrizioni (e che non possono usufruire della sospensione condizionale della pena) e coloro che non hanno mai meritato una misura alternativa, o a cui è stata revocata per loro colpa (e che potrebbero invece usufruire della sospensione condizionale della pena);

 

    che lo stesso giudice dubita, in via subordinata, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, nella parte in cui non prevede come causa ostativa del beneficio l'intervenuta revoca per colpa del condannato di una misura alternativa, per violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, perché la norma in questione realizzerebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti che si sono dimostrati meritevoli di una misura alternativa e ne hanno osservato le prescrizioni (e che non possono usufruire della sospensione condizionale della pena) e coloro che non hanno mai meritato una misura alternativa, o a cui è stata revocata per loro colpa (e che potrebbero invece usufruire della sospensione condizionale della pena); nonché per violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché la pena non avrebbe alcuna funzione rieducativa o preventiva, non avendo il giudice di sorveglianza alcun apprezzamento discrezionale sulla concessione del beneficio;

 

    che il Tribunale di sorveglianza di Torino dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, lett. d), della legge n. 207 del 2003, per violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento che si determina tra coloro che già sono ammessi a una misura alternativa, pur se di portata più afflittiva (come, ad esempio la detenzione domiciliare o la semilibertà), e non ne hanno cagionato colpevolmente la revoca, e coloro che non sono mai stati giudicati «meritevoli» di una misura alternativa, o ne hanno subito la revoca per fatto colpevole; per violazione degli artt. 3 e 13, secondo comma, della Costituzione, perché, in materia di libertà personale, imporrebbe irragionevolmente un'identica risposta legislativa a situazioni personali differenti (condannati «meritevoli» e «non meritevoli»), essendo preclusa qualsiasi valutazione discrezionale del giudice che possa adeguare il precetto normativo al caso concreto, in un'ottica costituzionalmente orientata ai parametri rieducativi dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione; per violazione dello stesso art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché la pena non avrebbe alcuna funzione rieducativa o preventiva, non disponendo il giudice di sorveglianza di alcun potere discrezionale in ordine alla concessione del beneficio; per contrasto con l'art. 79, primo comma, della Costituzione, perché la norma in questione, pur prevedendo nella sostanza un indulto, non è stata deliberata con le forme previste dalla Costituzione per l'indulto, ovverosia con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale; per violazione degli artt. 101, secondo comma, e 102 della Costituzione, poiché la limitazione del sindacato del giudice alla sola valutazione dei presupposti formali configurerebbe l'emissione di un provvedimento incidente sulla libertà personale dell'individuo (quale la rimessione in libertà in seguito alla concessione dell'«indultino») in base alla sola verifica della sussistenza dei presupposti normativi, riducendo così l'intervento del giudice a mera attività esecutiva priva di qualsivoglia apprezzamento valutativo di carattere giurisdizionale in ordine all'opportunità della concessione del beneficio in rapporto ai parametri di progressione rieducativa e di prognosi di recidiva propri del giudizio sulla applicazione delle misure previste dall'ordinamento penitenziario e, più in generale, operanti nella fase dell'esecuzione penale orientata alla luce del principio rieducativo sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

 

    che le ordinanze di rimessione sollevano questioni di legittimità costituzionale della stessa disposizione di legge con motivazioni che sono in parte identiche ed in parte analoghe, sicché i relativi giudizi devono essere riuniti per essere decisi con unico provvedimento;

 

    che, successivamente alla proposizione delle varie questioni, questa Corte, con sentenza n 278 del 2005, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, che, nei confronti del condannato che ha scontato almeno la metà della pena, esclude l'applicazione della sospensione condizionata dell'esecuzione della pena stessa, nel limite di due anni, quando la persona condannata è stata ammessa alle misure alternative alla detenzione, per la disparità di trattamento fra il condannato che, perché meritevole, è stato ammesso a misure alternative alla detenzione e il condannato che, o perché immeritevole o perché non ha mai avanzato la relativa richiesta, non è stato ammesso al godimento di tali misure, non potendo la circostanza dell'ammissione o meno a misure alternative alla detenzione costituire un discrimine per il godimento del c.d. «indultino», e ciò soprattutto ove si tenga presente che di quest'ultimo possono godere condannati non ritenuti meritevoli di misure alternative e non anche coloro che sono stati giudicati meritevoli di tali misure;

 

    che va ordinata la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, al fine di una nuova valutazione della rilevanza delle questioni proposte, alla luce della predetta sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 278 del 2005 (cfr., negli stessi sensi, ex plurimis, ordinanze nn. 229, 206, 180 del 2005).

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE,

 

    riuniti i giudizi;

 

    ordina la restituzione degli atti ai giudici a quibus.

 

    Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2005.

 

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

 

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 29 luglio 2005.