Sentenza n. 301 del 2005

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SENTENZA N. 301

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Piero Alberto                         CAPOTOSTI               Presidente

-  Fernanda                               CONTRI                        Giudice

-  Guido                                    NEPPI MODONA             “

-  Annibale                                MARINI                             “

-  Franco                                   BILE                                   “

-  Giovanni Maria                     FLICK                                “

-  Francesco                              AMIRANTE                       “

-  Ugo                                       DE SIERVO                       “

-  Romano                                 VACCARELLA                 “

-  Paolo                                     MADDALENA                  “

-  Alfio                                      FINOCCHIARO                “

-  Alfonso                                 QUARANTA                     “

-  Franco                                   GALLO                              “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 82, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e 202 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza del 26 febbraio 2003 dal Tribunale di Cosenza nel procedimento civile vertente tra la s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza e la s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza in liquidazione coatta amministrativa ed altro, iscritta al n. 1008 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione della s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza in liquidazione coatta amministrativa e di Marcello Maggiolini nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2005 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi gli avvocati Alfonso Maria Cosentino per Marcello Maggiolini, Gianluca Brancadoro per la s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza in liquidazione coatta amministrativa e l’avvocato dello Stato Giovanni Lancia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Cosenza, nel corso di un giudizio di opposizione promosso dalla  s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza nei confronti del commissario liquidatore della stessa banca avverso la sentenza con la quale il tribunale aveva dichiarato lo stato di insolvenza della banca, già sottoposta a liquidazione coatta amministrativa,  ha sollevato – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 82, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e 202 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che la dichiarazione giudiziale dello stato d’insolvenza successiva al decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di una banca possa essere pronunciata anche dopo il decorso di un anno dalla data di emissione di tale decreto.

Il giudice rimettente premette, in punto di fatto: a) che, con decreto del «19 maggio 2000», il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica ha disposto la liquidazione coatta amministrativa della s.c. a r.l.; b) che il Tribunale di Cosenza, con sentenza n. 992 del 30 maggio 2001, ha dichiarato lo stato di insolvenza della stessa s.c. a r.l.

Il Tribunale rileva poi, in punto di diritto, che, poiché  le norme denunciate non prevedono un termine di decadenza per la consumazione del potere del commissario liquidatore o del pubblico ministero di richiedere l’accertamento giudiziale dello stato d’insolvenza, rimarrebbe così indeterminato il tempo in cui potrebbe trovare applicazione la disciplina degli effetti prodotti da tale accertamento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, ai sensi dell’art. 203 della legge fallimentare (cioè del citato r.d. n. 267 del 1942), ed in particolare la data di decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per la proposizione delle azioni di revocatoria fallimentare. In tal modo, secondo il giudice a quo, mentre nel fallimento l’atto compiuto nel cosiddetto “periodo sospetto” (due anni od un anno prima della dichiarazione di fallimento, a seconda che si versi nell’ipotesi di cui al primo od al secondo comma dell’art. 67 della legge fallimentare) consolida i suoi effetti con il decorso del termine quinquennale di prescrizione dalla data del fallimento, ove il curatore non abbia agito in revocazione, viceversa, nella liquidazione coatta amministrativa, l’atto compiuto nel “periodo sospetto” anteriore al decreto che la dispone consoliderebbe i suoi effetti con riferimento ad un termine prescrizionale il cui dies a quo rimarrebbe incerto sino all’esito della procedura concorsuale. Siffatta incertezza riguardante la sfera giuridica dei terzi in ordine ad atti non qualificabili, di per sé, come illeciti contrasterebbe, per il Tribunale, con l’esigenza di salvaguardare il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche posto dal legislatore a base degli artt. 10, 11 e 147 della legge fallimentare, nella portata precettiva risultante a séguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000, secondo le quali tale principio sarebbe vulnerato dall’inesistenza di un limite temporale normativamente prefissato (nella specie, di un anno) entro il quale il soggetto che abbia cessato l’attività d’impresa ovvero il socio illimitatamente responsabile che abbia cessato di appartenere all’impresa sociale collettiva deve, a pena di decadenza, essere dichiarato fallito. Oltre a ciò, sempre per il rimettente, la mancanza di un termine di decadenza per l’emanazione della sentenza accertativa dello stato di insolvenza comporterebbe che il momento consumativo dei reati lato sensu di bancarotta commessi in relazione all’impresa assoggettata a liquidazione coatta amministrativa (in cui è elemento costitutivo la sentenza dichiarativa dell’insolvenza) potrebbe avere una collocazione temporale anormalmente distante dal momento della realizzazione della condotta materiale e dell’offesa al bene giuridico tutelato ed irragionevolmente subordinata all’arbitrio dei soggetti legittimati a richiedere l’accertamento dello stato d’insolvenza.

Dalla ritenuta lesione dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza provocata dalla denunciata disciplina, nella parte in cui non limita ad un anno a decorrere dalla sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa il termine per la pronuncia della sentenza accertativa dello stato di insolvenza, e dal rilievo del decorso di più di un anno, nella specie, tra la data di emissione del decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa e la data della sentenza di accertamento dello stato di insolvenza, il Tribunale di Cosenza fa dunque derivare, rispettivamente, la non manifesta infondatezza e la rilevanza della sollevata questione.

2. – Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito Marcello Maggiolini (volontariamente intervenuto nel giudizio a quo, quale socio e componente del disciolto consiglio di amministrazione della banca), insistendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme denunciate.

In ordine alla rilevanza della sollevata questione, la parte sottolinea: a) che la Banca d’Italia, con provvedimento del «18 maggio 2000», aveva revocato alla s.c. a r.l. l’autorizzazione all’attività bancaria e l’aveva sottoposta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’art. 80 del decreto legislativo n. 385 del 1993; b) che il «20 maggio 2000» era cessata ogni attività di impresa della società, con la cessione alla Banca Popolare di Calabria, da parte del commissario liquidatore, di tutte le attività e passività della Banca di credito cooperativo di Cosenza; c) che lo stato di insolvenza della s.c. a r.l. era stato dichiarato dal Tribunale di Cosenza, su richiesta del commissario liquidatore presentata il 22 gennaio 2001, solo con sentenza del «30 maggio 2001», pronunciata, pertanto, ad oltre un anno sia dalla messa in liquidazione della società, sia dalla cessazione dell’attività d’impresa.

In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il Maggiolini osserva: a) che “il diritto vivente” non individua alcun limite temporale per l’accertamento dello stato di insolvenza, ai sensi degli artt. 202 della legge fallimentare e  82, comma 2, del decreto legislativo n. 385 del 1993; b) che, pertanto, sussisterebbe una evidente ed ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina sul fallimento e quella sulla liquidazione coatta amministrativa, perché, nel primo caso, v’è il limite temporale posto alla dichiarazione di fallimento dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare e dalle sentenze della Corte costituzionale n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000, mentre, nel secondo caso, l’inesistenza di un limite temporale pregiudicherebbe l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche; c) che tale disparità di trattamento verrebbe meno solo ove si ritenesse (in applicazione analogica dell’art. 10 della legge fallimentare) che anche lo stato di insolvenza dell’impresa in liquidazione coatta amministrativa sia accertabile giudizialmente con pronuncia da emettersi entro un anno dalla effettiva cessazione dell’attività imprenditoriale; d) che, nella prospettiva di una tale interpretazione adeguatrice alla Costituzione, il dies a quo del termine per l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza non potrebbe identificarsi né nella pubblicazione della cessazione dell’attività imprenditoriale sul registro delle imprese, né nella cancellazione della società da tale registro: non dalla iscrizione della cessazione dell’attività, perché i creditori dell’impresa in liquidazione coatta amministrativa non sono legittimati a richiedere l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza e sono comunque edotti della procedura a séguito dell’annotazione sul registro delle imprese del decreto che la dispone; non dalla cancellazione, perché questa non solo deve essere richiesta dallo stesso commissario liquidatore legittimato a richiedere l’accertamento giudiziario (così che verrebbe meno ogni garanzia e certezza per gli altri soggetti interessati), ma presuppone il completamento di tutta l’attività liquidatoria (così che potrebbe intervenire anche dopo decenni dall’avvio del procedimento); e) che solo con la pronuncia dichiarativa dello stato di insolvenza la procedura liquidatoria si trasformerebbe in una procedura concorsuale assimilabile al fallimento, consentendo l’esercizio delle revocatorie fallimentari e rendendo configurabili le ipotesi di reato di cui al titolo VI della legge fallimentare (artt. 203 e 237); f) che la fissazione di un limite temporale per la dichiarazione giudiziaria dello stato di insolvenza apparirebbe tanto più necessaria in considerazione delle conseguenze che da tale dichiarazione discendono, non solo per chi ne è colpito, ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto; g) che tali esigenze di certezza delle situazioni giuridiche non potrebbero ritenersi soddisfatte soltanto dalla qualità dei soggetti legittimati a chiedere l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza della banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa (il commissario liquidatore; il pubblico ministero; il giudice, d’ufficio), perché il commissario liquidatore non è soggetto soltanto alla legge, ma prevalentemente all’autorità che lo ha scelto, appartenente al potere esecutivo, e perché una analoga situazione, nel caso dell’estensione del fallimento al socio a responsabilità illimitata, non ha impedito alla Corte costituzionale di fissare il limite temporale di un anno dalla cessazione della qualità di socio illimitatamente responsabile (sentenze n. 319 del 2000 e n. 66 del 1999).

3. – Si è costituito in giudizio anche il commissario liquidatore della banca (s.c. a r.l. Banca di credito cooperativo di Cosenza in liquidazione coatta amministrativa), sostenendo, con diverse argomentazioni, l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.

In primo luogo, la società in liquidazione coatta afferma che il limite temporale stabilito dagli artt. 10 e 147 della legge fallimentare non può estendersi analogicamente all’ipotesi oggetto della causa a quo, data l’essenziale diversità di presupposti e di esigenze da tutelare, tanto più se si consideri che la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza intervenuta nei confronti di una banca già sottoposta a liquidazione coatta amministrativa si inserisce in una procedura concorsuale, nella quale gli effetti diretti del concorso (nei confronti dell’imprenditore, dei creditori e dei contraenti) si sono determinati tutti sin dalla data dell’insediamento degli organi liquidatori, ai sensi degli artt. 83 e 85 del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia.

In secondo luogo, la difesa del commissario liquidatore osserva che la divaricazione temporale tra il decreto di liquidazione coatta amministrativa e la successiva sentenza declaratoria dello stato di insolvenza sarebbe irrilevante ove – contrariamente all’assunto del rimettente – si ritenesse che il termine di prescrizione per l’esperimento delle azioni revocatorie decorra dalla data di sottoposizione alla liquidazione e non dalla successiva declaratoria dello stato di insolvenza.

In terzo luogo, la banca in liquidazione coatta rileva che la posposizione del momento consumativo del reato di bancarotta rispetto alla condotta materiale, allorché la declaratoria di insolvenza sia successiva alla sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa, non è ipotesi eccezionale nell’àmbito dei reati fallimentari.

In quarto luogo, oppone che la revocabilità di atti e l’imputabilità per bancarotta sono effetti solo eventuali della declaratoria dello stato di insolvenza, con conseguente insussistenza dell’invocata e non ben definita necessità di tutela della certezza delle situazioni giuridiche.

In quinto luogo, infine, deduce che, contrariamente a quanto asserito dal giudice a quo, l’eventuale divaricazione temporale tra l’avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa e la declaratoria dello stato di insolvenza non può ritenersi rimessa all’arbitrio del commissario liquidatore e del pubblico ministero, valendo il principio della doverosità dell’agire del  pubblico ufficiale per attivare il giudizio di accertamento dello stato di insolvenza, principio garantito da un’adeguata tutela per il caso di sviamento del potere.

4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.

 La difesa erariale osserva che erroneamente il giudice a quo ritiene che il decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa abbia comportato la cessazione dell’impresa, effetto che invece si realizzerebbe con la disgregazione del complesso aziendale e, quindi, solo all’esito della procedura di liquidazione coatta amministrativa, con la cancellazione della società dal registro delle imprese (artt. 213, ultimo comma, della legge fallimentare e 92, comma 6, del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia). Da ciò deriverebbe, per l’Avvocatura generale dello Stato, da un lato, che non v’è alcuna esigenza di fissare, per la dichiarazione dello stato di insolvenza, un termine di decadenza annuale decorrente dalla data di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa; dall’altro, che nella specie  – in cui sarebbe pacifica la mancata cancellazione della società dal registro delle imprese – non è rilevante la diversa e non sollevata questione circa la mancata previsione legislativa di un limite temporale per la dichiarazione dello stato di insolvenza successivamente alla cancellazione dal registro delle imprese.

5. – Con memorie tempestivamente depositate nell’imminenza della pubblica udienza, il Maggiolini e la banca in liquidazione coatta ribadiscono le proprie posizioni.

5.1. – In particolare, il Maggiolini insiste nella richiesta di declaratoria della illegittimità costituzionale delle norme denunciate, illustrando ulteriormente le già prospettante argomentazioni ed osservando che l’interpretazione prospettata dalla difesa avversaria circa la decorrenza del termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio delle azioni revocatorie dalla data del provvedimento di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa, benché sostenuta da parte della giurisprudenza di merito, non sarebbe conciliabile con il principio di cui all’art. 2935 cod.civ., tenuto conto che altro è il momento di decorrenza del periodo di sospetto, ai sensi dell’art. 678 della legge fallimentare, ed altro è il momento di decorrenza del suddetto termine prescrizionale.

5.2. – La banca di credito cooperativo in liquidazione coatta chiede la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della sollevata questione di illegittimità costituzionale, deducendo, tra l’altro:  a) che il termine massimo di un anno per la dichiarazione di fallimento dell’impresa collettiva, indicato dal rimettente – tramite il richiamo della sentenza della Corte costituzionale n. 319 del 2000 – quale tertium comparationis, decorre dalla cancellazione dell’impresa collettiva dal registro delle imprese,  con la conseguenza che, nella specie, il termine non sarebbe ancora decorso, posto che, nella liquidazione coatta amministrativa, la società viene cancellata dal registro delle imprese solo all’esito della procedura; b) che, ai fini della fissazione di un termine per la declaratoria dello stato di insolvenza, un dies a quo riferito alla data di effettiva cessazione dell’attività imprenditoriale, anziché alla data della cancellazione della società dal registro delle imprese, non soddisferebbe le esigenze di certezza e definitività invocate dal rimettente e poste a base della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia; c) che la procedura di liquidazione coatta amministrativa è concorsuale anche in assenza della dichiarazione di insolvenza (in considerazione dello spossessamento del  soggetto sottoposto alla procedura, degli effetti preclusivi delle azioni individuali dei creditori, degli effetti per i creditori e sui rapporti giuridici pendenti, dell’applicazione delle regole del concorso attraverso la formazione dello stato passivo) e, pertanto, la sopravvenuta declaratoria dello stato di insolvenza non può essere assimilata alla declaratoria di fallimento.

Considerato in diritto

1. –  Il Tribunale di Cosenza, con sentenza n. 992 del 2001, ha dichiarato lo stato di insolvenza di una banca di credito cooperativo già sottoposta a procedura di liquidazione coatta amministrativa. Nel corso dell’opposizione avverso tale sentenza, il medesimo Tribunale ha sollevato – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 82, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e 202 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui consente che la dichiarazione giudiziale dello stato d’insolvenza successiva al decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di una banca sia pronunciata dopo  un anno dalla data di emissione del decreto.

Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo precisa che, nella specie, la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza della banca era stata pronunciata oltre un anno dopo l’emissione del decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa. Ne deriva, per il Tribunale, la rilevanza della questione, perché, in caso di dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle norme denunciate,  ne conseguirebbe la tardività della sentenza di accertamento dello stato di insolvenza e l’accoglimento dell’opposizione proposta.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale afferma che la normativa denunciata vìola i princìpi di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, perché, consentendo senza limiti di tempo la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza di una impresa già posta in liquidazione coatta amministrativa : a) contrasterebbe con l’esigenza di salvaguardare il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche garantito, per l’analoga ipotesi di fallimento, dagli artt. 10, 11 e 147 della legge fallimentare, quali risultano a séguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000; b) protrarrebbe indefinitamente, a differenza del regime previsto dalla legge per la procedura fallimentare, il termine iniziale di decorrenza della prescrizione quinquennale delle azioni di revocatoria fallimentare, posto che tale termine iniziale si identifica con la data della pronuncia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza; c) renderebbe possibile una anomala divaricazione temporale tra il momento di realizzazione della condotta materiale dei reati lato sensu di bancarotta ed il momento consumativo di essi, considerato che quest’ultimo è costituito dalla data della pronuncia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, emessa all’esito di un procedimento la cui attivazione è rimessa all’arbitrio dei soggetti legittimati a richiedere l’accertamento dello stato d’insolvenza.

2. –  La questione non è fondata.

Occorre preliminarmente ribadire che il thema decidendum è circoscritto alla questione sollevata dall’ordinanza del giudice rimettente, il quale censura le norme denunciate nella parte in cui consentono che la dichiarazione giudiziale dello stato d’insolvenza della banca sia pronunciata dopo un anno dalla data di emissione del decreto con il quale questa è stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa. Non possono, perciò, essere esaminate le diverse e non consequenziali questioni prospettate da una delle parti costituite nel presente giudizio.

Parimenti, va sottolineato che l’esame della questione posta dal rimettente dovrebbe, a rigore, essere limitato all’art. 82, comma 2, del decreto legislativo n. 385 del 1993, perché la fattispecie oggetto del giudizio principale, in quanto concernente una banca, risulta interamente regolata da tale norma, relativa appunto all’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza di banche. Questa disposizione, infatti, costituisce legge speciale che prevale sulla disciplina generale dettata, sul punto, dall’art. 202 della legge fallimentare, in tema di «accertamento giudiziario dello stato di insolvenza» delle altre imprese sottoposte a liquidazione coatta amministrativa. Tuttavia, poiché le due norme hanno un contenuto sostanzialmente identico, la valutazione della legittimità costituzionale dell’indicata norma del testo unico bancario involge necessariamente quella corrispondente della legge fallimentare.

2.1. – Sotto un primo profilo, il rimettente denuncia l’ingiustificata disparità di trattamento derivante dalla normativa oggetto della sollevata questione rispetto alla disciplina dei limiti temporali per la dichiarazione di fallimento, quale risulta sia dagli artt. 10, 11 e 147 della legge fallimentare, sia dalle sentenze della Corte costituzionale n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000 (pronunce alle quali possono qui aggiungersi quelle di cui alle ordinanze nn. 361 e 11 del 2001; nn. 131 e 321 del 2002; n. 36 del 2003).

 La censura non è fondata, per l’evidente non comparabilità delle situazioni messe a raffronto dal rimettente. Il punto di partenza del percorso argomentativo del giudice a quo è costituito, infatti, dalla ritenuta sostanziale corrispondenza delle situazioni considerate dalla indicata giurisprudenza costituzionale in tema di limiti temporali per la dichiarazione di fallimento alla situazione correlata all’emissione del decreto di messa in liquidazione coatta amministrativa. Ma proprio tale presupposta sostanziale corrispondenza non sussiste, come emerge dall’esame della sopra citata giurisprudenza costituzionale in materia.

Il rimettente, richiamando in modo non pertinente tale giurisprudenza, pone a raffronto situazioni eterogenee allorché assimila all’emissione del decreto di liquidazione coatta amministrativa sia l’iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dell’attività d’impresa individuale, sia la cancellazione dal registro delle imprese della società esercente una impresa collettiva, sia la pubblicizzazione della perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile di una società fallita. In particolare, in tali ultimi tre casi viene portato a conoscenza dei terzi un fatto che esclude la sussistenza di un’attività imprenditoriale o che fa venir meno l’imputabilità alla società dell’attività di impresa e delle correlative situazioni giuridiche soggettive o che fa cessare la responsabilità illimitata del socio. Nel caso, invece,  della liquidazione coatta amministrativa si apre una procedura concorsuale (così testualmente definita dall’art. 80, comma 6, del t.u. bancario) che non provoca alcuno dei suddetti effetti, ma è solo diretta alla liquidazione dei rapporti dell’impresa e può eventualmente condurre, all’esito delle operazioni di liquidazione, alla cancellazione della società dal registro delle imprese (v. l’art. 92, comma 6, del t.u. bancario, che, stabilendo l’applicabilità degli artt. 2456 e 2457 cod.civ., corrispondenti agli attuali artt. 2495 e 2496 dello stesso codice, include la cancellazione della società dal registro delle imprese tra gli «adempimenti finali» della procedura).

Nella liquidazione coatta amministrativa, dunque, la sopravvenuta sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza interviene in una procedura concorsuale già aperta e riguarda una società ancora non cancellata dal registro delle imprese. Ne consegue che le situazioni e le norme indicate dal rimettente come tertia comparationis per il dies a quo dell’auspicato termine annuale per la dichiarazione dello stato di insolvenza non sono omogenee alla fattispecie oggetto del giudizio principale, rispondono a diverse rationes legis (come esattamente rilevato dalle difese dell’Avvocatura generale dello Stato e della banca in liquidazione) e non possono essere prese in considerazione a sostegno della dedotta censura di illegittimità costituzionale.

2.2. – Sotto un secondo profilo, il rimettente denuncia la intrinseca irragionevolezza delle norme censurate, perché sarebbero inidonee a salvaguardare il generale interesse alla certezza delle situazioni giuridiche,  in riferimento ad un duplice aspetto: a) per l’indefinita protrazione del termine di decorrenza della prescrizione delle azioni di revocatoria fallimentare, in quanto il dies a quo corrisponde alla data della pronuncia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, emettibile senza limiti di tempo; b) per la possibile, anomala divaricazione temporale tra momento di realizzazione della condotta materiale dei reati di bancarotta e momento consumativo di tali reati, in quanto  quest’ultimo si identifica nella data della pronuncia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, emettibile senza limiti di tempo.

 Il profilo appare infondato, in riferimento ad entrambi gli aspetti denunciati.

2.2.1. – Quanto alla decorrenza della prescrizione delle azioni revocatorie fallimentari, nell’ipotesi di sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza emessa successivamente al decreto di liquidazione coatta, va premesso che è plausibile l’assunto del rimettente, secondo cui il dies a quo è costituito dalla data di tale sentenza (assimilabile, a questo riguardo, alla sentenza di fallimento), e che il “periodo sospetto” – e cioè il periodo nel quale l’atto pregiudizievole ai creditori è revocabile – va computato a ritroso dal decreto di messa in liquidazione coatta amministrativa. Proprio perché la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza costituisce il presupposto giuridico necessario per l’esperibilità delle azioni revocatorie fallimentari, non appare arbitrario sostenere che il principio di cui all’art. 2935 cod.civ. (contra non valentem agere non currit praescriptio), inteso come riferibile ai casi di impossibilità giuridica di esercitare il diritto, impedisce di aderire all’interpretazione secondo la quale il termine prescrizionale decorrerebbe dalla data della liquidazione coatta amministrativa e non da quella della successiva sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza.

  Tuttavia, anche ad accogliere tale interpretazione del rimettente, da ciò non deriva la denunciata lesione del generale interesse alla certezza delle situazioni giuridiche.

La sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, infatti, interviene in una situazione in cui la società in liquidazione coatta non è estinta: sotto questo limitato aspetto, l’ipotesi è analoga a quella della liquidazione della società volontariamente disposta dai soci ovvero prevista come obbligatoria dal codice civile e per la quale il fallimento può intervenire fino ad un anno dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Se si considera, poi, che la società in liquidazione coatta amministrativa non è cancellata dal registro delle imprese (v., al riguardo, il citato art. 92, comma 6, del t.u. bancario) e che l’accertamento della sussistenza dello stato di insolvenza al momento del decreto di liquidazione coatta amministrativa ben può essere basato su indagini effettuate dal commissario liquidatore (che è portatore anche degli interessi dei creditori), appare non irragionevole la scelta del legislatore di consentire, durante la pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’emissione – senza limiti di tempo – di una sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza.

2.2.2. – Quanto alla possibile divaricazione temporale tra momento di realizzazione della condotta materiale dei reati di bancarotta e momento consumativo di tali reati, si tratta di situazione consequenziale alla scelta discrezionale del legislatore di configurare la sentenza di fallimento (o di accertamento dello stato di insolvenza di impresa) o come elemento costitutivo del reato (secondo la prevalente giurisprudenza), o come condizione obiettiva del reato, ovvero come condizione per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma penale (secondo diverse impostazioni della dottrina). Né pare esatto affermare – come fa il rimettente – che, per il fallimento, l’ampiezza della divaricazione sarebbe stata ridotta dalla richiamata giurisprudenza costituzionale in tema di limiti temporali per la dichiarazione di fallimento, perché tale dichiarazione può comunque intervenire anche a distanza di molto tempo dalla realizzazione della condotta del reato, ove non si siano verificate le peculiari vicende societarie o personali considerate dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Pertanto, la disciplina penale in esame, riguardo alla liquidazione coatta amministrativa, non solo non differisce significativamente da quella dei corrispondenti reati fallimentari, ma neppure supera i limiti della ragionevolezza e della non arbitrarietà, se si tiene conto dell’intento del legislatore di impedire un tipo di condotta attribuendo ad essa carattere di illiceità penale solo se e nel momento  in cui sia dichiarato il fallimento (o lo stato di insolvenza).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 82, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e 202 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Cosenza con l’ordinanza indicata in epigrafe.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2005.