Ordinanza n. 383 del 2004

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ORDINANZA N. 383

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Valerio            ONIDA                      Presidente

- Carlo               MEZZANOTTE        Giudice

- Fernanda         CONTRI                           “

- Guido             NEPPI MODONA           “

- Piero Alberto  CAPOTOSTI                    “

- Annibale         MARINI                           “

- Franco             BILE                                 “

- Giovanni Maria FLICK                            “

- Francesco        AMIRANTE                     “

- Ugo                 DE SIERVO                     “

- Romano          VACCARELLA               “

- Paolo               MADDALENA                “

- Alfonso           QUARANTA                   “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge 17 aprile 1985, n. 141 (Perequazione dei trattamenti pensionistici in atto dei pubblici dipendenti), promosso con ordinanza del 17 giugno 2003 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, sul ricorso proposto da Mario Mardente contro INPDAP – Direzione provinciale di Catanzaro, iscritta al n. 877 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2003.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto che la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, con ordinanza depositata il 17 giugno 2003, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della legge 17 aprile 1985, n. 141 (Perequazione dei trattamenti pensionistici in atto dei pubblici dipendenti), nella parte in cui non dispone, con decorrenza dal 1° gennaio 1988, a favore delle categorie dei pubblici dipendenti, e quindi anche degli ufficiali sanitari, la riliquidazione della pensione sulla base dei trattamenti economici spettanti al corrispondente personale in attività di servizio;

che la remittente premette di essere stata chiamata a decidere sul ricorso presentato da un ufficiale sanitario della USL n. 17 di Lamezia Terme collocato a riposo, avverso il provvedimento, emesso in data 5 ottobre 1988, con cui il Ministero del tesoro non ha riliquidato “la pensione in godimento sulla base degli stipendi in vigore dalla data del 1° gennaio 1988 per il corrispondente personale in attività di servizio”;

che il ricorrente nel giudizio a quo ha chiesto l’accertamento del proprio diritto patrimoniale alla riliquidazione predetta, secondo i principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988 e della decisione della Corte dei conti a sezioni riunite, pronunciata nella camera di consiglio del 27 ottobre 1988;

  che il giudice a quo ripercorre sinteticamente l’evoluzione normativa nel settore, richiamando in particolare la legge 29 aprile 1976, n. 177 (Collegamento delle pensioni del settore pubblico alla dinamica delle retribuzioni. Miglioramento del trattamento di quiescenza del personale statale e degli iscritti alle casse pensioni degli istituti di previdenza) che, all’art. 1, con norma «di portata ‘programmatica’ più che ‘precettiva’», aveva disposto la perequazione automatica delle pensioni alla dinamica delle retribuzioni per tutto il settore del pubblico impiego, e richiamando inoltre il successivo decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) che, all’art. 11, aveva stabilito che gli aumenti «a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali e assistenziali si applicano, con decorrenza dal 1994, sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale ed effetto dal primo novembre di ogni anno» (termine differito, con effetto dal 1995, al 1° gennaio successivo di ogni anno, ad opera dell’art.14 della legge 23 dicembre 1994, n. 724);

che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 501 del 1988, avrebbe riconosciuto che il legislatore non ha realizzato il programma, prefissato dagli artt. 1 e 2 della legge n. 177 del 1976, di collegare il trattamento di quiescenza dei dipendenti pubblici agli incrementi del trattamento economico del personale in servizio;

che nella sentenza, esaminando specificamente la posizione dei magistrati e degli avvocati dello Stato e tenendo conto della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al trattamento economico dei magistrati), che aveva radicalmente innovato la struttura delle retribuzioni dei magistrati, la Corte ha affermato «l’esigenza di un necessario adeguamento del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del personale in servizio attivo», dichiarando, conseguentemente, l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge n. 141 del 1985, nella parte in cui, in luogo delle rivalutazioni percentuali da essi stabilite, non disponevano la perequazione delle pensioni dei magistrati e degli avvocati dello Stato;

che, ad avviso della Corte rimettente, per quanto la sentenza n. 501 del 1988 abbia esaminato la posizione di una categoria specifica di pubblici dipendenti e abbia tenuto conto di una legge particolare del settore, cioè la legge n. 425 del 1984, tuttavia i suoi effetti non potrebbero essere limitati ai soli magistrati, dovendo viceversa «trovare logica e conseguente estensione» anche nei confronti del ricorrente nel giudizio  a quo;

che tale conclusione sarebbe giustificata sia dal carattere generale della legge n. 141 del 1985, la quale avrebbe come destinatari tutti i dipendenti del pubblico impiego, sia anche dal fatto che le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale sulla mancata attuazione del principio perequativo contenuto nell’art. 2 della legge n. 177 del 1976 sarebbero valide per tutti i dipendenti pubblici e che la violazione degli artt. 3 e 36 Cost. da parte di una normativa di carattere generale non potrebbe essere affermata solo per una categoria di pubblici dipendenti ed essere esclusa invece per tutti gli altri;

che il rimettente ritiene rilevante, nel giudizio a quo, la questione di legittimità costituzionale della legge n. 141 del 1985, in quanto l’accoglimento o il rigetto del ricorso dipenderebbe dall’esito del giudizio di costituzionalità delle norme censurate;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata;

che, con riferimento alla infondatezza, la difesa erariale ritiene che ben potrebbe il legislatore “modificare leggi preesistenti ponendo precisi limiti temporali da cui hanno efficacia le nuove norme”, che l’art. 3 Cost. non potrebbe correttamente invocarsi con riferimento alla posizione di soggetti collocati a riposo in epoche diverse e rispetto ai quali il tempo sarebbe un “fondamentale elemento di differenziamento delle situazioni giuridiche”, e comunque che non sussisterebbe un principio di aggancio automatico e permanente delle pensioni alla dinamica retributiva;

che nella memoria depositata in prossimità della data fissata per la camera di consiglio, l’Avvocatura rileva che, successivamente alla sentenza n. 501 del 1988, è stato emanato il decreto-legge 22 dicembre 1990, n. 409 (Disposizioni urgenti in tema di perequazione dei trattamenti di pensione nei settori privato e pubblico), convertito nella legge 27 febbraio 1991, n. 59, che avrebbe introdotto disposizioni perequative dei trattamenti pensionistici nei settori dell’impiego pubblico e privato, prevedendo, per gli ex dipendenti pubblici aumenti differenziati in relazione alla data di cessazione dal servizio;

che, pertanto, a seguito dell’applicazione di tale disposizione, la posizione pensionistica oggetto del giudizio a quo sarebbe mutata;

che, in ogni caso, il principio di adeguatezza della pensione non si tradurrebbe in un rigido meccanismo di perequazione, essendo rimesso alla discrezionalità del legislatore determinare le misure e i criteri di adeguamento delle pensioni alla variazione del costo della vita, nonché le modalità di perequazione delle stesse.

  Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. – della legge 17 aprile 1985, n. 141 (Perequazione dei trattamenti pensionistici in atto dei pubblici dipendenti) nella parte in cui non dispone, con decorrenza dal 1° gennaio 1988, a favore di tutte le categorie di pubblici dipendenti, la riliquidazione della pensione sulla base dei trattamenti economici spettanti al corrispondente personale in attività di servizio, chiedendo, sostanzialmente, di estendere a tutti i dipendenti pubblici gli effetti della sentenza n. 501 del 1988;

 

che questa Corte ha successivamente chiarito che la sentenza n. 501 del 1988, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge n. 141 del 1985, ha fatto riferimento alla “peculiare contingente situazione” che la stessa legge ha preso in considerazione e cioè la «modifica della struttura delle retribuzioni dei magistrati con effetto retroattivo, vale a dire dal 1° luglio 1983, a seguito della legge n. 425 del 1984, che veniva a porre la necessità di un corrispondente riallineamento delle pensioni in essere alla stessa data» (sentenza n. 409 del 1995; analogamente le sentenze n. 226 e n. 42 del 1993);

che, per tale ragione, dalla citata pronuncia non deriva una immediata e completa estensione, anche per il futuro, a tutti i pensionati dell’adeguamento dei relativi trattamenti economici e che, pertanto, la sentenza n. 501 del 1988 non è utilmente invocabile ove si controverta dell’adeguamento delle pensioni agli ordinari incrementi retributivi;

che questa Corte ha, inoltre, ripetutamente affermato che non esiste nel nostro ordinamento un principio costituzionale che garantisca il costante adeguamento delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio corrispondente, e che il rispetto degli artt. 36 e 38 Cost. impone solo che siano individuati meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni ai mutamenti del potere di acquisto della moneta, sia al momento del collocamento a riposo, sia successivamente (si vedano, da ultimo, sentenza n. 30 del 2004, ordinanze n. 162 del 2003 e n. 531 del 2002);

che il rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza del trattamento pensionistico impone al legislatore «di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita», di tal che il verificarsi di irragionevoli scostamenti tra l’importo delle pensioni e le variazioni del potere d’acquisto della moneta «sarebbe indicativo della inidoneità del meccanismo in concreto prescelto» (sentenza n. 30 del 2004);

che, là dove tale limite venga rispettato, rientra nella discrezionalità del legislatore operare il bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie;

che, peraltro, nel corso degli anni, il rispetto dell’art. 36 Cost. è stato perseguito dapprima con singole leggi emanate per specifici settori, attraverso le quali si è provveduto ad adeguare le pensioni al successivo andamento dei livelli retributivi, e, successivamente, in via generale attraverso l’introduzione di un meccanismo di adeguamento della pensione all’andamento del costo della vita (articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e articolo 34 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo);

che dunque la mancata previsione, ad opera della legge n. 141 del 1985, della riliquidazione del trattamento pensionistico dei pubblici dipendenti collocati a riposo, a far data dal 1° gennaio 1988, non contrasta con gli artt. 3 e 36 Cost. e pertanto la prospettata questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge 17 aprile 1985, n. 141 (Perequazione dei trattamenti pensionistici in atto dei pubblici dipendenti), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1  dicembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2004.