Ordinanza n. 335 del 2004

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SENTENZA N.335

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Carlo                          MEZZANOTTE        Presidente

-  Fernanda                   CONTRI                      Giudice

-  Piero Alberto             CAPOTOSTI                     “

-  Annibale                    MARINI                            “

-  Franco                       BILE                                  “

-  Giovanni Maria         FLICK                               “

-  Francesco                  AMIRANTE                      “

-  Ugo                           DE SIERVO                      “

-  Romano                     VACCARELLA                “

-  Paolo                         MADDALENA                 “

-  Alfio                          FINOCCHIARO               “

-  Alfonso                     QUARANTA                    “

-  Franco                       GALLO                             “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 287 del codice di procedura civile promosso con ordinanza del 20 gennaio 2004 dal Tribunale di L’Aquila nel procedimento civile vertente tra Di Simone Carlo e De Nuntiis Andrea ed altro, iscritta al n. 159 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2004.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 29 settembre 2004 il Giudice relatore Romano Vaccarella.

Ritenuto in fatto

  1.– Nel corso di un procedimento di correzione di errore materiale il Tribunale di L’Aquila ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 287 del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che «le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello» possono essere corrette con il procedimento di cui al successivo art. 288 «dallo stesso giudice che le ha pronunciate», qualora questi sia incorso in errori materiali, e quindi nella parte in cui limita alle sole «sentenze contro le quali non sia stato proposto appello», la facoltà della parte di avvalersi del procedimento di correzione degli errori materiali ed esclude che quelle appellate possano essere corrette «dallo stesso giudice che le ha pronunciate» indipendentemente dalla decisione del mezzo di gravame.

  1.1.– Riferisce il rimettente che in data 3 luglio 2002 il Tribunale aveva emesso, in favore di Carlo Di Simone e nei confronti di Andrea e Daniele De Nuntiis, decreto ingiuntivo avverso il quale gli intimati avevano proposto opposizione; che con sentenza n. 835 del 1° ottobre 2003 questa era stata rigettata e gli opponenti erano stati condannati al pagamento delle spese processuali; che il 5 dicembre successivo l’opposto vittorioso aveva depositato ricorso con cui, dedotto che il decidente era incorso in errore materiale – avendolo appellato nell’intestazione, nel dispositivo e nella motivazione della sentenza Carlo De Simone, anziché Carlo Di Simone – aveva chiesto che si procedesse alla correzione dell’errore materiale; che, fissata con decreto la comparizione delle parti, Andrea e Daniele De Nuntiis si erano costituiti, rilevando che, avverso la sentenza oggetto del ricorso – e anteriormente alla sua proposizione – era stato proposto appello, e conseguentemente chiedendo la declaratoria di inammissibilità dell’istanza di correzione, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento; che a tanto la controparte aveva replicato rappresentando che, stante la provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado, stabilita dalla riforma del codice di rito del 1990, o si riconosceva al giudice di prime cure la possibilità di procedere alla correzione dell’errore materiale anche laddove, avverso la decisione che ne era affetta, fosse stato interposto appello, oppure doveva ritenersi l’art. 287 cod. proc. civ. in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.

  1.2.– Precisa il giudice a quo che nella fattispecie sottoposta al suo esame si verte in un’ipotesi tipica di errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 cod. proc. civ., posto che l’inesatta indicazione del cognome di una delle parti  integra uno sbaglio che investe non già il giudizio racchiuso nella sentenza, ma piuttosto la sua espressione grafica.

  1.3.– Evidenzia quindi che, ai sensi dell’art. 287 cod. proc. civ., il provvedimento di correzione deve essere pronunciato dallo stesso giudice – inteso come ufficio giudiziario – che ha emesso la sentenza, eccezion fatta per l’ipotesi di avvenuta proposizione dell’appello, ritenendosi, per consolidato diritto vivente, che in tal caso la correzione, non più deducibile come oggetto di un apposito procedimento, competa al giudice dell’impugnazione, al quale potrebbe essere chiesta anche implicitamente, senza cioè la formulazione di un autonomo motivo di gravame: da ciò l’inammissibilità, ovvero l’improcedibilità per difetto di interesse, del procedimento in parola, una volta che la sentenza oggetto dell’istanza di correzione sia stata gravata da appello o quanto meno tutte le volte in cui il relativo ricorso risulti depositato a giudizio di gravame  pendente.

  Ricorda il rimettente che, in dottrina, è stata sostenuta la possibilità di intendere l’inciso «contro le quali non sia stato proposto appello», come volto a limitare a questa sola ipotesi la competenza a provvedere dello stesso giudice che ha pronunciato la sentenza della cui correzione si tratta, da ciò deducendosi, a contrario, che, nel caso di proposizione dell’appello, il relativo potere spetterebbe, con analogo procedimento e provvedimento, al giudice di secondo grado; ma osserva che tale opzione interpretativa, pur apprezzabile, non è condivisibile, perché palesemente in contrasto con lettera della disciplina vigente e con il diritto vivente.

  Ritiene infatti il giudice a quo che l’attuale codice di procedura civile, a differenza di quello del 1865 (che nell’art. 473 aderì in effetti a un diverso punto di vista), ha sancito la competenza funzionale del giudice che ha adottato un provvedimento a procedere alla correzione dello stesso, salva l’ipotesi in cui sia stato proposto appello, perché in tal caso il giudice dell’appello può disporre la correzione «in considerazione del più generale potere devolutivo conseguente alla proposizione dell’impugnazione»: di qui l’opinione dominante, in dottrina ed in giurisprudenza, secondo la quale l’appello «assorbe» il procedimento di correzione. Del resto, rileva il giudice a quo, proprio «nella mancanza di detto potere devolutivo» si rinviene la ragione della indiscussa esclusione del potere di correzione, da parte della Corte di cassazione, degli errori materiali da cui fosse affetta una sentenza davanti ad essa impugnata.

  La circostanza che l’appello sfocia per sua natura in una sentenza che – rescissa in ogni caso, la confermi o la modifichi, quella di primo grado – si sostituisce a quella impugnata comporta che il giudice d’appello può esercitare il potere di correzione solo con la pronuncia della sentenza conclusiva e non già con un procedimento ad hoc; e proprio in questa prospettiva (portata sostitutiva del riesame) la Corte costituzionale ritenne – osserva il giudice a quo – non rilevante la questione di legittimità della esclusione, dal novero dei provvedimenti correggibili ex  art. 287 cod. proc. civ., del decreto ingiuntivo opposto (sentenza n. 393 del 1994).

  D’altra parte, la previsione (ultimo comma dell’art. 288) della possibilità di impugnare le parti corrette esclude che possa configurarsi un procedimento di correzione nell’ambito del giudizio di appello, perché dovrebbe ammettersi l’impugnabilità delle parti corrette innanzi allo stesso giudice che tale correzione ha effettuato, in contrasto con il generale principio della sovraordinazione dell’organo competente per l’impugnazione.

  Ancora: il secondo comma dell’art. 288 cod. proc. civ. prevede l’annotazione della correzione sull’originale del provvedimento corretto, e tale formalità ha un senso solo in quanto riferita a un’ordinanza (o a un decreto) adottata dallo stesso ufficio che ha emesso il provvedimento annotando, laddove la decisione del giudice d’appello, quand’anche si limiti a disporre la correzione dell’errore materiale in cui sia incorso il primo giudice, non va mai annotata, ma sostituisce semplicemente quella impugnata. Non a caso si ritiene pacificamente che il potere di correzione debba essere esercitato anche in caso di rigetto dell’appello o di declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità dello stesso, mentre, nell’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo, il processo andrà riassunto ai fini della pronuncia (con sentenza) sull’istanza di correzione: diritto vivente che renderebbe assolutamente inimmaginabile, in via di interpretazione analogica, un procedimento incidentale disciplinato dagli artt. 287 e 288 cod. proc. civ. innanzi al giudice d’appello.

  1.4.– Così ricostruita la disciplina di riferimento, il giudice a quo osserva che essa, coerente ad un sistema in cui la sentenza di primo grado non era, in via di principio – e salvo le eccezioni previste dalla legge – provvisoriamente esecutiva, è incompatibile con un sistema nel quale la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado costituisce la regola: l’art. 287 si porrebbe, pertanto, in contrasto con l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni giuridiche sostanzialmente uguali, che sotto quello della ragionevolezza. E invero, precludere l’esecuzione per la sola ragione che avverso la decisione affetta da errore materiale sia stato proposto appello, è scelta normativa irragionevole e lesiva del principio di uguaglianza per il diverso trattamento riservato alle sentenze, a seconda che esse siano o meno affette da errore materiale, e cioè da un errore che incide solo sull’espressione grafica del dictum del giudice, e ciò tanto più che dottrina e giurisprudenza ritengono esperibile il procedimento di correzione anche avverso decisioni per le quali i termini di  impugnazione non siano ancora scaduti e che non siano pertanto ancora passate in giudicato.

  Ad avviso del rimettente inoltre l’art. 287 cod. proc. civ., laddove inibisce al cittadino di iniziare l’esecuzione solo perché il provvedimento decisorio è affetto da errore materiale, lede anche l’art. 24, primo comma, Cost., considerato il carattere sicuramente giurisdizionale del processo esecutivo e la sua inerenza alla realizzazione del diritto costituzionale di agire in giudizio.

  Infine, se l’effettiva soddisfazione di una pretesa si consegue solo con la sua esecuzione (spontanea o forzata), deve ritenersi altresì fondato il dubbio di compatibilità della norma censurata con il precetto sancito dall’art. 111 Cost., perché l’impossibilità di conseguire la correzione, in pendenza del giudizio di appello, impedisce la realizzazione del diritto entro un termine ragionevole, e ciò tanto più che, in tale contesto normativo, l’impugnazione potrebbe essere proposta al fine puramente strumentale di paralizzare, insieme all’esperibilità del procedimento di correzione, la possibilità per la parte vittoriosa di agire in executivis.

  Del resto, considerato che la sentenza di primo grado di condanna al pagamento di una somma di denaro o all’adempimento di altro obbligo o al risarcimento dei danni, da liquidarsi successivamente era, già nel vecchio sistema, e a prescindere dalla sua provvisoria esecutività, titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, il sospetto di contrarietà dell’art. 287 cod. proc. civ. con il precetto dell’art. 3, secondo comma, Cost., non sarebbe stato manifestamente infondato neppure nella vigenza del vecchio testo dell’art. 282 cod. proc. civ.

  1.5.– In punto di ammissibilità della sollevata questione, rileva il rimettente che alla proposizione dell’incidente di costituzionalità non osta la pretesa natura amministrativa del procedimento di correzione, in quanto con tale espressione si mira in realtà solo a porre in evidenza il suo carattere ordinatorio e non decisorio: senza dire che tale profilo è già stato vagliato, seppure implicitamente, dalla Corte costituzionale nella menzionata sentenza n. 393 del 1994.

  1.6.– Quanto alla rilevanza della questione, premette il rimettente che, ove non venisse dichiarata l’incostituzionalità della norma censurata, esso decidente dovrebbe dichiarare l’inammissibilità, ovvero l’improcedibilità del procedimento di correzione davanti a lui pendente, con conseguente compressione di rilevanti interessi delle parti.

  Il giudice a quo osserva che la rilevanza della questione sussiste anche se si segue l’opinione – fortemente contrastata in dottrina, ma prevalente in giurisprudenza e comunque avvalorata dal dettato del primo comma dell’art. 653 cod. proc. civ. – secondo cui, a seguito del rigetto dell’opposizione, quella che viene posta in esecuzione è l’ingiunzione portata dal decreto: e ciò perché la sentenza di rigetto dell’opposizione ben può contenere statuizioni di condanna diverse e ulteriori rispetto a quelle portate dal decreto ingiuntivo, tra le quali segnatamente, come nella fattispecie dedotta in giudizio, proprio la condanna al pagamento delle spese del processo di opposizione.

  La tesi della non esecutività di questo capo della pronuncia (affermata nella giurisprudenza di legittimità in forza del carattere puramente accessorio di tale capo rispetto a quello di rigetto, ontologicamente insuscettibile di esecuzione) non meriterebbe di essere seguita, in quanto essa comporta che il capo di condanna al pagamento delle spese diventi esecutivo solo con il passaggio in giudicato della sentenza, con un’insopportabile disparità di trattamento tra attore e convenuto, ed un irragionevole pregiudizio per il difensore antistatario, divenuto titolare, a seguito della pronuncia in suo favore, di un rapporto autonomo e diretto con la parte soccombente.

  In definitiva, conclude il rimettente, solo l’accoglimento della proposta questione di costituzionalità consentirebbe a Carlo Di Simone, ottenuta la correzione della sentenza di rigetto dell’opposizione, di utilizzare la stessa come titolo esecutivo, senza attendere l’esito del giudizio di appello proposto dalle controparti.

  2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio con la rappresentanza dell’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque infondata la questione proposta.

  Osserva l’interveniente che la questione – in ipotesi rilevante solo per ciò che riguarda la liquidazione delle spese operata dalla sentenza di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo, titolo esecutivo essendo, quanto al resto, il provvedimento monitorio – è comunque mal posta, perché il relativo capo della pronuncia, accedendo a decisione di rigetto, e non già di condanna, non sarebbe comunque esecutivo per legge. Né sarebbe possibile una lettura dell’art. 653 cod. proc. civ. che, dalla riformulazione dell’art. 282 cod. proc. civ., operata con la riforma del 1990, deduca il carattere di «inutile pleonasmo» del richiamo, colà contenuto, alla provvisoria esecutività, posto che ora la sentenza di primo grado è sempre esecutiva: e invero, per consolidato diritto vivente, mentre l’esecutorietà della sentenza, nella parte relativa alle spese, è inscindibilmente connessa a quella del capo principale, non sono provvisoriamente esecutive né le pronunce di rigetto, né quelle costitutive, né quelle di accertamento.

  Tale assetto normativo, conclude l’Avvocatura, è assolutamente coerente con i precetti  costituzionali, perché il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., non ha nulla a che vedere né con l’esecutività della sentenza, né con i mezzi di impugnazione avverso la stessa, ma piuttosto attiene al lasso di tempo impiegato dagli organi giurisdizionali per pronunciarla; il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3, non può essere invocato quando siano diverse le situazioni messe a raffronto; l’art. 24 infine non è incompatibile con il sistema dei gravami, perché la statuizione racchiusa nel giudicato costituisce l’unica verità processuale, sulla quale vanno parametrate le nozioni di «ragione» e di «torto».

Considerato in diritto

  1.– Il Tribunale di L’Aquila dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 287 del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che «le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello» possono essere corrette con il procedimento di cui al successivo art. 288 «dallo stesso giudice che le ha pronunciate», qualora questi sia incorso in errori materiali, e quindi nella parte in cui limita la facoltà della parte di avvalersi del procedimento di correzione degli errori materiali  alle sole «sentenze contro le quali non sia stato proposto appello», conseguentemente escludendo che quelle appellate possano essere corrette «dallo stesso giudice che le ha pronunciate» indipendentemente dalla decisione del mezzo di gravame.

  2.– L’eccezione di inammissibilità della questione, per irrilevanza, sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, è infondata.

  Il problema dell’interpretazione dell’art. 653, primo comma, cod. proc. civ. – e cioè se, in caso di rigetto dell’opposizione, il titolo esecutivo sia costituito dal decreto ingiuntivo (come sostiene, sulla base della lettera della norma, la giurisprudenza prevalente) ovvero dalla sentenza (come ritiene la dottrina maggioritaria) – non riveste rilievo di sorta nel presente giudizio una volta che si convenga, con l’unanime dottrina e giurisprudenza, che è la sentenza di rigetto dell’opposizione – senza necessità, dopo la riforma dell’art. 282 cod. proc. civ., che sia dichiarata provvisoriamente esecutiva – a consentire al creditore opposto di procedere esecutivamente (si utilizzi come titolo esecutivo il decreto ovvero la sentenza stessa) nei confronti dell’ingiunto; così come non riveste rilievo alcuno la qualificazione che voglia darsi, in relazione al capo sulle spese, alla sentenza di rigetto dell’opposizione, chiaro essendo (come rende manifesto l’art. 653, comma secondo, cod. proc. civ.) che sotto nessun profilo la sentenza di rigetto dell’opposizione (che segue, cioè, un provvedimento di condanna, e ne conferma il contenuto) è equiparabile ad una sentenza di rigetto della domanda.

  Se quest’ultimo rilievo chiarisce l’estraneità, rispetto all’attuale questione, di quanto questa Corte ha avuto modo di statuire con la sentenza n. 232 del 2004, il primo rilievo – la constatazione, cioè, che la sentenza di rigetto dell’opposizione riveste un ruolo costitutivo per l’azione esecutiva del creditore (vanamente) opposto – vale a rendere palese la rilevanza della questione anche se si ritiene che il titolo esecutivo è costituito dal decreto ingiuntivo: posto che «contemporaneamente (alla notifica della citazione in opposizione) l’ufficiale giudiziario deve notificare avviso dell’opposizione al cancelliere affinché ne prenda nota sull’originale del decreto» (art. 645, primo comma, seconda parte, cod. proc. civ.), è del tutto ovvio che il decreto ingiuntivo acquista esecutorietà (cfr. art. 654, primo comma, cod. proc. civ.) solo ove la sentenza di rigetto dell’opposizione risulti “coerente” con il decreto ingiuntivo opposto; così come è ovvio che la pendenza di un procedimento di correzione per inesatta identificazione del creditore opposto vale ad impedire il conferimento dell’efficacia esecutiva al decreto stesso.

  Nulla quaestio, è appena il caso di rilevare, ove si aderisse alla tesi – preferita dal giudice a quo – secondo la quale il titolo esecutivo sarebbe costituito dalla sentenza di rigetto dell’opposizione.

  3.– La questione è fondata.

  3.1.– E’ noto che la disciplina della correzione degli errori materiali (o di calcolo e delle omissioni) è frutto di un processo volto, in primo luogo, a distinguere tali errori da quelli rimediabili esclusivamente attraverso i mezzi di impugnazione; così come è noto che tale distinzione è ben presto sfociata in un problema di rapporti tra procedimenti in quanto essa – dapprima operata attraverso la “non necessità” di percorrere «la via della rivocazione» (art. 580 cod. proc. civ. sardo del 1859) – successivamente lo fu sancendo la “non necessità” di «alcuno dei mezzi indicati nell’art. 465 per far emendare nelle sentenze omissioni, o errori, che non ne producano la nullità a termini dell’art. 361» (art. 473 cod. proc. civ. 1865).

  Tale “non necessità”, intesa originariamente come mera possibilità di non utilizzare uno strumento sproporzionato rispetto alla bisogna, pose come centrale il problema – quando il citato art. 473 disciplinò un procedimento ad hoc per la correzione – del rapporto di tale procedimento speciale con quello d’impugnazione: se, cioè, la correzione potesse chiedersi esclusivamente utilizzando il procedimento speciale (ovvero anche con l’“eccessivo”, ma anch’esso idoneo mezzo d’impugnazione) e, in caso di risposta affermativa, se il procedimento speciale dovesse o potesse essere utilizzato pure nell’ipotesi di proposizione di un mezzo di impugnazione.

  E’ noto che prevalse nettamente, in dottrina ed in giurisprudenza, la tesi della obbligatorietà del procedimento speciale e, nel contempo, quella della sua inutilizzabilità nel caso di proposizione, purché anteriore al provvedimento di correzione, di un mezzo di impugnazione ordinario (all’epoca, l’opposizione contumaciale e l’appellazione: art. 465, secondo comma, cod. proc. civ. 1865), in quanto la decisione finale si sostituiva integralmente a quella (impugnata) da correggere.

  3.2.– Il codice vigente – separati nettamente nel libro II il procedimento di correzione (titolo I) dalle impugnazioni (titolo III) ed il loro oggetto (descritto, rispettivamente, negli artt. 287 e 161, primo comma, cod. proc. civ.) – ha statuito che «le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello … possono essere corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate …». La circostanza che tale locuzione fosse stata preceduta dall’ampio dibattito, sopra sommariamente ricordato, ha fatto sì che essa sia stata subito, e quasi unanimemente, intesa come confermativa dell’orientamento dominante nella vigenza del codice del 1865: nel senso, cioè, che il procedimento di correzione è «assorbito» in quello di appello che lo renderebbe inutile (e inammissibile), essendo l’appello un rimedio con devoluzione illimitata, destinato a concludersi con una pronuncia sostitutiva di quella bisognosa di correzione.

  Le medesime norme sono state ritenute idonee a disciplinare la correzione sia delle sentenze d’appello sia (anteriormente alla legge 26 novembre 1990, n. 353, art. 67) quelle di cassazione: nel primo caso perché la proposizione di un mezzo d’impugnazione limitato, e per ciò stesso inidoneo come il ricorso per cassazione – cfr., per l’analoga situazione della “sentenza arbitrale”, l’art. 826 cod. proc. civ. nel testo ante legge 5 gennaio 1994, n. 25 (Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale) –, non impediva al giudice d’appello di emendare la propria sentenza; nel secondo caso perché la correzione da parte della Corte di cassazione dell’errore inficiante la propria sentenza non vulnerava, attesa l’ontologica diversità della correzione dall’impugnazione, il principio della inimpugnabilità delle sentenze della Suprema Corte. Diversità, è il caso di ricordare, ribadita da questa Corte quando – avendo il legislatore equiparato (art. 391-bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 67 della legge n. 353 del 1990) l’errore materiale a quello revocatorio sotto il profilo procedimentale – ha censurato l’irragionevolezza, risolventesi anche in violazione dell’art. 24 Cost., della pretesa di uniformare «due istituti (correzione e revocazione) che sono eterogenei» (sentenza n. 119 del 1996).

  Le medesime norme, ancora, sostanzialmente disciplinano – dopo la profonda riforma dell’arbitrato operata dalla legge n. 25 del 1994 – anche la correzione del lodo arbitrale; procedimento di correzione insensibile alla proposizione dell’impugnazione per nullità (e per revocazione e opposizione di terzo: art. 831 cod. proc. civ.), la cui competenza è distribuita tra arbitri e (dopo il deposito) giudice dell’exequatur.

  3.3.– Dal quadro normativo appena delineato emerge come la regola per cui il procedimento di correzione è insensibile alla proposizione dell’impugnazione ed è di competenza del giudice che ha emesso il provvedimento affetto da errore (lato sensu) ostativo subisce l’unica eccezione della sentenza di primo grado già investita dall’appello (sentenza di primo grado alla quale è, ovviamente, equiparabile il decreto ingiuntivo: cfr. sentenza n. 393 del 1994).

  Come si è ricordato, tale eccezione è stata da sempre giustificata con la particolare natura – di mezzo di impugnazione illimitato e con effetto sostitutivo – dell’appello, la quale consente di «assorbire» in tale procedimento quello speciale di correzione e di trasferire al giudice dell’appello il relativo potere: donde la conclusione che, «rientrando la correzione nei compiti di revisione conferiti al giudice del gravame», questi può disporla solo con la sentenza che, decidendo sull’appello, si sostituisce a quella gravata.

  Il rimettente espone puntualmente gli inconvenienti che tale soluzione produceva anche anteriormente alla Novella del 1990, e ricorda come non abbia riscosso apprezzabile seguito il tentativo dottrinale di limitarli attraverso una interpretazione dell’art. 287 cod. proc. civ. che vi leggeva esclusivamente una disciplina della competenza (del giudice a quo prima, e del giudice ad quem dopo la proposizione dell’appello) a gestire il procedimento speciale: inconvenienti che, come questa Corte ha ripetutamente statuito (tra le tante, sentenze n. 204 e n. 32 del 2001), non consentono di sindacare la discrezionalità del legislatore nel disciplinare il processo se non quando essi denotano una manifesta irrazionalità della disciplina ovvero l’assenza di una valida ragione giustificativa delle scelte legislative.

  3.4.– Osserva la Corte che le esigenze di economia processuale – la superfluità, cioè, dell’esperimento del procedimento speciale in pendenza di un giudizio (d’appello) idoneo ad emendare la sentenza dall’errore che la inficiava, trattandosi, come è stato detto, di «una correzione in pura perdita, quasi un ornamento apposto a una casa destinata a crollare» – potevano costituire una sufficiente giustificazione della scelta legislativa, e degli inconvenienti che essa comportava, quando la sentenza di primo grado, sia pure con eccezioni sempre più frequenti, era ancora normalmente priva di efficacia esecutiva in ragione della sua appellabilità (art. 337, primo comma, cod. proc. civ., ante legge n. 353 del 1990, art. 49).

  La sostituzione della norma da ultimo citata con quella secondo cui «l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione», unita all’espressa previsione della immediata esecutività della sentenza di primo grado (art. 282 cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 33 della legge n. 353 del 1990), ha modificato profondamente il quadro normativo nel quale continua a collocarsi l’art. 287 e la scelta legislativa con esso operata: la sentenza appellata, affetta da errore correggibile, era sottoposta olim al regime ordinario della sentenza di primo grado (quello c.d. della sentenza soggetta a gravame), laddove, dopo la legge n. 353 del 1990, ad essa continua ad essere riservato il medesimo trattamento che, però, è divenuto eccezionale e deteriore rispetto a quello di cui gode, oggi, la sentenza di primo grado.

  3.5.– Non soltanto, dunque, le ragioni di economia processuale, sulle quali si fondava la scelta legislativa di cui all’art. 287 cod. proc. civ., risultano profondamente “indebolite” da ciò, che esse diventano causa di assoggettamento della sentenza di primo grado ad un regime eccezionale (laddove, in precedenza, esse provocavano l’assoggettamento al regime ordinario anche delle sentenze che, eccezionalmente, erano munite di efficacia esecutiva), ma l’intrinseca “debolezza” di quelle ragioni è testimoniata dalla loro non costante applicazione: il sopravvenire dell’appello in pendenza del procedimento di correzione non determina l’improcedibilità di quest’ultimo, così come qualsiasi altro mezzo di impugnazione – anche se non limitato – non comporta né l’inammissibilità né l’improcedibilità del procedimento di correzione.

  Le esigenze di economia processuale recepite dal legislatore con l’art. 287 cod. proc. civ., in sintesi, sono tali da tollerare la pendenza contestuale del procedimento di correzione e dei procedimenti di impugnazione, e perfino del procedimento di appello quando questo sia posteriore a quello di correzione; in conclusione, esse sono poste a fondamento di un’eccezionale disciplina dei rapporti tra procedimento di correzione e procedimenti di impugnazione.

  3.6.– L’eccezionalità della disciplina del procedimento di correzione nei suoi rapporti con la previa pendenza del procedimento d’appello, e l’eccezionale regime della sentenza di primo grado al quale esso dà luogo, determinano, con il loro sommarsi e combinarsi, una manifesta irragionevolezza della disciplina dettata dall’art. 287 cod. proc. civ. allorché sottrae al procedimento di correzione, davanti al giudice che le ha pronunciate, le sentenze contro le quali sia stato proposto appello.

  Tale irragionevolezza si risolve altresì in una ingiustificabile compressione del diritto di agire esecutivamente della parte vittoriosa, e pertanto – costituendo l’azione esecutiva strumento essenziale dell’effettività della tutela giurisdizionale – in una violazione dell’art. 24 Cost. (sentenze n. 321 del 1998; n. 333 del 2001; n. 336, n. 444 e n. 522 del 2002; n. 155 del 2004).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 287 del codice di procedura civile limitatamente alle parole «contro le quali non sia stato proposto appello».

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 ottobre 2004.

Carlo MEZZANOTTE, Presidente

Romano VACCARELLA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 10 novembre 2004.