Sentenza n. 230 del 2004

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SENTENZA N.230

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gustavo                      ZAGREBELSKY      Presidente

- Valerio                        ONIDA                      Giudice

- Carlo                           MEZZANOTTE        "

- Fernanda                    CONTRI                    "

- Guido  NEPPI            MODONA                 "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI             "

- Annibale                     MARINI                    "

- Franco                        BILE                          "

- Giovanni Maria          FLICK                       "

- Francesco                   AMIRANTE              "

- Ugo                            DE SIERVO              "

- Romano                      VACCARELLA        "

- Paolo                          MADDALENA         "

- Alfio                           FINOCCHIARO       "

- Alfonso                      QUARANTA            "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 29 ottobre 2002 dalla Corte d’appello di Palermo, iscritta al n. 56 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2004 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

La Corte d’appello di Palermo, chiamata a decidere sulla domanda con la quale una persona - tratta in arresto in forza di ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati in tema di stupefacenti, emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo il 14 gennaio 1998, e poi prosciolta da quegli stessi reati con sentenza irrevocabile emessa dal Tribunale di Palermo il 7 ottobre 1999, con la quale era stato dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per ostacolo di precedente giudicato - aveva chiesto il riconoscimento della equa riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta dal 14 gennaio 1998 all’8 ottobre 1999, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente il riconoscimento di un’equa riparazione anche a chi abbia subito un periodo di custodia cautelare per un fatto dal quale sia stato poi prosciolto ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen.

La Corte premette che l’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Ai sensi del comma 2, poi, lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile sia accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. Le medesime disposizioni si applicano anche, in forza del comma 3, alle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero emessa sentenza di non luogo a procedere.

Questi essendo i presupposti per il riconoscimento del diritto all’equa riparazione, il giudice a quo rileva che l’ipotesi sottoposta al suo esame non rientra in alcuna di quelle previste dal citato art. 314. Non nella previsione del primo comma, giacché tale disposizione presuppone che il soggetto sottoposto a custodia cautelare sia stato liberato dall’accusa nel merito, con una delle formule espressamente indicate; e neanche in quella del secondo comma, ancorché essa si riferisca al "prosciolto per qualsiasi causa", in quanto in tale caso occorre pur sempre una decisione irrevocabile che accerti l’illegittimità della custodia cautelare sofferta per difetto di una o più delle condizioni stabilite dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., decisione che nella specie non sussiste.

Risulterebbe dunque evidente, ad avviso del remittente, la ingiustificata disparità di trattamento tra chi abbia subito custodia cautelare e sia stato poi prosciolto con una delle formule di cui al primo comma, e chi invece abbia subito un provvedimento restrittivo per un reato in ordine al quale sia stato in precedenza giudicato e abbia addirittura già scontato la pena detentiva inflitta con una precedente sentenza di condanna. Né, osserva il giudice a quo, la fattispecie potrebbe essere ricondotta nella previsione dell’art. 314 cod. proc. pen., quale risultante a seguito della sentenza n. 310 del 1996 di questa Corte, che ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, in quanto la privazione della libertà personale non è avvenuta in base ad un ordine di esecuzione erroneo, per essere stato adottato sull’errata premessa che la sentenza di condanna fosse diventata definitiva, ma in base ad un’ordinanza di custodia cautelare divenuta illegittima solo ex post, per effetto della sentenza irrevocabile di proscioglimento emessa perchè per lo stesso fatto l’imputato era già stato giudicato con sentenza di condanna divenuta irrevocabile.

La medesima disposizione, ad avviso del remittente, contrasterebbe anche con gli artt. 2, 13 e 76 Cost. Sotto quest’ultimo profilo, perché, come è già stato rilevato nella citata sentenza n. 310 del 1996, l’art. 2 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), nel prevedere che il nuovo codice si sarebbe dovuto adeguare alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, imponeva di evitare ogni discriminazione tra le due situazioni delineate, in quanto la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce, all’art. 5, il diritto alla riparazione in favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste, senza distinzioni di sorta.

Quanto al contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., la Corte d’appello rileva che l’istituto dell’equa riparazione costituisce espressione del principio solidaristico che ispira l’intera Costituzione, con la conseguenza che la limitazione del suo ambito di applicabilità comporterebbe anche un’illegittima compressione di quel principio, lasciando inoltre priva di ristoro una violazione della libertà personale, che l’art. 13 vuole inviolabile.

Né, prosegue il remittente, potrebbe ritenersi che l’art. 314 cod. proc. pen. sia applicabile nel caso di specie in forza di un’interpretazione analogica, non sussistendo tra le ipotesi in esame la eadem ratio, nell’un caso vertendosi in ipotesi di accertata innocenza, nell’altro di responsabilità penale per la quale sussiste un impedimento a procedere per effetto della preclusione processuale di cui all’art. 649 cod. proc. pen. E neanche potrebbe trovare applicazione l’istituto della riparazione dell’errore giudiziario, di cui all’art. 643 cod. proc. pen., mancando, nella specie, un giudizio di revisione. Del tutto ininfluente sarebbe infine la disciplina posta dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile di magistrati) dal momento che l’art. 14 di tale legge prevede espressamente che le disposizioni in essa contenute non pregiudicano il diritto alla riparazione in favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione.

Quanto alla rilevanza, il giudice a quo ne afferma la sussistenza, non essendo possibile giudicare sul merito della richiesta di riparazione senza risolvere pregiudizialmente il dubbio di legittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1. ¾ Oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale è l’art. 314 del codice di procedura penale, censurato nella parte in cui non consente il riconoscimento di un’equa riparazione anche a chi abbia subito un periodo di custodia cautelare per un fatto dal quale sia stato poi prosciolto ai sensi dell’art. 649 dello stesso codice.

Ad avviso della Corte d’appello di Palermo, tale disposizione contrasterebbe, innanzitutto, con l’art. 3 della Costituzione, perché determinerebbe una disparità di trattamento tra chi abbia subito custodia cautelare e sia poi prosciolto con una delle formule di cui al primo comma del medesimo art. 314 (perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato), e chi invece abbia subito un provvedimento restrittivo per un reato in ordine al quale sia stato in precedenza giudicato e abbia addirittura già scontato la pena detentiva inflitta con una precedente sentenza di condanna.

Inoltre, sarebbe violato l’art. 76 Cost., in relazione all’art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 e all’art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto tra i principî e criteri direttivi della delega per l’approvazione del nuovo codice di procedura penale vi era quello dell’adeguamento alle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e, tra queste, la citata Convenzione, la quale, all’art. 5, stabilisce appunto il diritto alla riparazione in favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste, senza distinzioni di sorta.

Secondo il giudice a quo, risulterebbero infine violati l’art. 2 Cost., in quanto l’istituto dell’equa riparazione costituisce espressione del principio solidaristico che ispira l’intera Costituzione, e l’art. 13 Cost., perché risulterebbe priva di ristoro una violazione della libertà personale, garantita ad ogni individuo in termini di inviolabilità.

2. ¾ La questione non è fondata, nei termini di seguito precisati.

Essa muove da una non condivisibile interpretazione della disposizione censurata, e precisamente dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. Se invero può convenirsi con il remittente allorquando esclude che l’ipotesi sottoposta alla sua cognizione – e consistente nella emissione di una ordinanza di custodia cautelare per un fatto per il quale il destinatario del provvedimento restrittivo è già stato giudicato e ha addirittura scontato la pena inflitta con precedente sentenza di condanna – possa essere ricondotta alla previsione di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., stante la tassatività delle ipotesi di proscioglimento nel merito in quella disposizione considerate quale presupposto per il diritto all’equa riparazione, non è invece condivisibile la conclusione del giudice a quo per quanto riguarda l’affermata impossibilità di ricondurre la fattispecie al suo esame tra quelle per le quali l’art. 314, comma 2, configura la possibilità della riparazione per l’ingiusta detenzione.

La disposizione da ultimo citata prevede che il diritto all’equa riparazione spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile sia accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. Il remittente ha ritenuto che, nella specie, difetterebbe la condizione che consente di integrare la fattispecie e precisamente la decisione irrevocabile, consistente unicamente, secondo la sua prospettazione, in una pronuncia che accerti l’illegittimità della custodia cautelare sofferta per difetto di una o più delle condizioni stabilite dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.

Orbene, posto che, come ritenuto anche dalla Corte di cassazione a sezioni unite (sentenza 8 novembre 1993, n. 20), "in alcune ipotesi la illegittimità della misura cautelare, ai sensi del secondo comma della disposizione citata, può risultare in modo implicito, e tuttavia evidente, dalla stessa sentenza definitiva di merito", non vi è ostacolo a ritenere che tra queste ipotesi debba rientrare anche quella in cui venga accertato, con sentenza irrevocabile, che la custodia è stata disposta in relazione ad un fatto per il quale sia già intervenuto un giudicato. E’ indubbio, infatti, che l’art. 649 cod. proc. pen., nel prevedere che "l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345" e nel disporre che, "se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa in dispositivo", configuri una preclusione all’esercizio dell’azione penale (sentenza n. 27 del 1995).

Se dunque si accerti, con sentenza irrevocabile, che l’azione penale non poteva essere esercitata perché preclusa da precedente giudicato, non può non concludersi che anche la misura cautelare disposta per il medesimo fatto per il quale l’imputato era già stato giudicato risulta priva dei requisiti che ne legittimano l’adozione, stante l’evidente nesso di strumentalità dell’azione cautelare rispetto all’azione penale. Non si vede infatti alcuna differenza tra l’ipotesi della misura emessa in presenza di scriminanti o nei confronti di persona non punibile (art. 273, comma 2, cod. proc. pen. – in riferimento all’art. 314, comma 2) che sia stata poi prosciolta, rispetto al caso di chi abbia subito custodia cautelare per un reato, ad esempio, non procedibile o per il quale, comunque, l’azione penale non poteva essere esercitata, come nella specie. Invero, pur se non espressamente previsto, appare indubitabile che, ove dopo l’adozione della misura emerga che per lo stesso fatto l’indagato è già stato giudicato, la forza espansiva del ne bis in idem operi anche agli effetti cautelari, imponendo, quindi, l’immediata revoca della misura, perché, appunto, sono risultati mancanti i relativi presupposti di legittimità: vale a dire l’assenza di condizioni ostative all’esercizio della relativa azione (penale e cautelare ad un tempo).

Del resto, questa Corte, con specifico riferimento agli artt. 2 e 13 Cost., ha più volte posto in luce il fondamento squisitamente solidaristico della riparazione per l’ingiusta detenzione ed ha chiarito che, in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, in ragione della qualità del bene offeso, si deve avere riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa (sentenze n. 446 del 1997, n. 109 del 1999, n. 284 del 2003). Ove quindi, con sentenza irrevocabile, si accerti che per il medesimo fatto per il quale è stata disposta la custodia cautelare vi era una preclusione da giudicato, devono ritenersi sussistenti i requisiti cui l’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. subordina l’insorgenza del diritto alla riparazione: una decisione irrevocabile che, dichiarando la preclusione derivante da precedente giudicato, implicitamente accerta la illegittimità della misura cautelare disposta in relazione ad un’azione penale che non poteva essere iniziata o proseguita.

Una conferma in tal senso si rinviene nella sentenza di questa Corte n. 284 del 2003, nella quale, sia pure con riferimento alla diversa ipotesi dell’ordine di esecuzione emesso in relazione ad un reato per il quale l’indagato era già stato giudicato all’estero, ove aveva addirittura espiato la pena, si è chiarito che in sede di riparazione per la detenzione che si assume ingiustamente sofferta per duplicazione della pena è assorbente l’accertamento della identità del fatto e dell’avvenuta espiazione, proprio per quel fatto, di una pena detentiva. Si può quindi affermare che, come in quella ipotesi il giudice della riparazione era soltanto tenuto a verificare, con valutazione ex post, se la pena indicata nell’ordine di esecuzione non fosse già stata espiata, in tutto o in parte, all’estero, e ciò proprio perché in tale caso quella pena, sin dall’inizio, non poteva essere posta in esecuzione nella sua interezza, così, nel caso di applicazione di una misura cautelare per un fatto per il quale si accerti successivamente, con sentenza irrevocabile, che per quel medesimo fatto l’imputato era già stato giudicato, il giudice della riparazione dovrà limitarsi, con accertamento necessariamente ex post, a prendere atto che, con l’azione penale, neanche l’azione cautelare poteva essere iniziata o proseguita per preclusione da giudicato.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2004.