Ordinanza n. 209 del 2004

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ORDINANZA N.209

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gustavo                  ZAGREBELSKY                       Presidente

- Valerio                   ONIDA                                       Giudice

- Carlo                      MEZZANOTTE                          "

- Fernanda                CONTRI                                     "

- Guido                     NEPPI MODONA                      "

- Piero Alberto          CAPOTOSTI                              "

- Annibale                 MARINI                                     "

- Franco                    BILE                                           "

- Giovanni Maria      FLICK                                         "

- Francesco               AMIRANTE                               "

- Ugo                        DE SIERVO                               "

- Romano                  VACCARELLA                         "

- Paolo                      MADDALENA                          "

- Alfio                       FINOCCHIARO                        "

- Alfonso                  QUARANTA                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 14 ottobre 2003 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di G.G., iscritta al n. 1075 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 aprile 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, del codice di procedura penale, in forza del quale il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria unicamente quando gli impianti installati nella procura della Repubblica risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni di urgenza; nonché dell’art. 271, comma 1, del medesimo codice, nella parte in cui prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni qualora non siano state osservate le disposizioni di cui al citato art. 268, comma 3;

che il giudice a quo premette di essere investito di una richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal pubblico ministero nei confronti di persona imputata del reato di illecita detenzione e cessione a terzi di sostanze stupefacenti: contestazione fondata essenzialmente sui risultati di una serie di intercettazioni telefoniche, eseguite mediante impianti in dotazione all’Arma dei Carabinieri;

che nel corso dell’udienza preliminare il difensore dell’imputato aveva eccepito l’inutilizzabilità di tali risultati ai sensi degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, cod. proc. pen., stante il difetto, nei provvedimenti del pubblico ministero che avevano disposto il compimento delle operazioni, di ogni motivazione riguardo ai presupposti legittimanti l’utilizzazione di impianti esterni alla procura della Repubblica: eccezione che, ad avviso del giudice a quo, si presenterebbe fondata;

che secondo il rimettente, tuttavia, la sanzione di inutilizzabilità, posta dal legislatore a presidio dell’osservanza delle regole di cui all’art. 268, comma 3, cod. proc. pen., risulterebbe affatto irragionevole;

che, al riguardo, il giudice a quo ricorda come questa Corte — nello scrutinare, con ordinanze n. 259 del 2001 e n. 304 del 2000, analoghe questioni di legittimità costituzionale — abbia escluso l’ipotizzato vulnus del principio di ragionevolezza, affermando che la disciplina in esame risponde all’esigenza — evidenziata nella sentenza n. 34 del 1973 — di prevenire abusi in sede di esecuzione delle operazioni, evitando, in specie, che gli organi ad essa preposti effettuino controlli sul traffico telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria;

che tale giustificazione — la quale poggia sul presupposto che l’utilizzazione di impianti intra moenia consenta un controllo da parte del pubblico ministero, viceversa non garantito nel caso di impiego di impianti esterni — risulterebbe peraltro ‘anacronistica’, a fronte del progresso tecnologico e del correlato mutamento delle modalità tecniche di esecuzione delle operazioni di intercettazione: mutamento sul quale l’ordinanza di rimessione si sofferma in modo diffuso;

che attualmente, infatti, dette operazioni non si eseguirebbero più, come in passato, collegando materialmente dei cavi presso impianti pubblici di telefonia — sistema che poteva prestarsi, in effetti, ad abusi da parte della polizia giudiziaria — ma tramite la comunicazione del decreto del pubblico ministero al gestore del servizio telefonico, i cui tecnici provvedono quindi ad inserire il numero telefonico cellulare da intercettare all’interno di un sistema automatizzato, convogliando la relativa fonia presso il punto di ascolto sino allo scadere del periodo di intercettazione indicato nel decreto stesso;

che, in simile cornice operativa, i paventati abusi della polizia giudiziaria risulterebbero «ben difficili e collegati solo ad attività patologiche e di rilevanza penale» (quale, ad esempio, la comunicazione al gestore telefonico di falsi decreti): attività peraltro possibili anche qualora le operazioni venissero eseguite tramite gli impianti installati nella procura della Repubblica;

che, in difetto di un’adeguata ratio «tecnica», le disposizioni impugnate sacrificherebbero dunque ingiustificatamente l’interesse — pure costituzionalmente garantito — alla prevenzione e alla repressione dei reati;

che esse impedirebbero, infatti, per ragioni puramente contingenti — quale la mancanza di impianti presso la procura della Repubblica — di svolgere indagini che pure lo stesso legislatore presuppone come «assolutamente indispensabili» (tale essendo la condizione che legittima le intercettazioni), ove non concorra l’ulteriore requisito dell’«eccezionale urgenza»: requisito che — qualora non venga fatto coincidere con la stessa «indispensabilità investigativa» (il che lo renderebbe peraltro superfluo) — finirebbe per precludere «nella stragrande maggioranza dei casi», con intrinseca incoerenza dell’assetto normativo, il ricorso al mezzo investigativo in questione;

che, a fronte di ciò, risulterebbe ancor più irragionevole che l’inosservanza delle regole sulla localizzazione degli impianti venga equiparata dall’art. 271, comma 1, cod. proc. pen. — quanto alla previsione della sanzione di inutilizzabilità — alle ipotesi di totale mancanza di autorizzazione e di esecuzione delle intercettazioni fuori dei casi consentiti;

che le norme impugnate risulterebbero altresì incompatibili con l’art. 112 Cost.;

che in presenza, infatti, di un reato accertato attraverso intercettazioni telefoniche, contrasterebbe con il principio di obbligatorietà dell’azione penale impedire che quest’ultima venga esercitata tramite la previsione dell’inutilizzabilità della fonte di prova per violazione di una norma irragionevole, quale dovrebbe ritenersi quella dell’art. 268, comma 3, cod. proc. pen.;

che, in base a tale considerazione, il rimettente invita quindi questa Corte a rivedere la posizione assunta con la citata ordinanza n. 259 del 2001, che aveva negato la lesione anche del parametro costituzionale da ultimo indicato;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Considerato che — come lo stesso giudice rimettente ricorda — questa Corte ha già escluso che le disposizioni impugnate si pongano in contrasto con gli artt. 3 e 112 della Costituzione, dichiarando manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale analoghe a quella odierna (cfr. ordinanza n. 259 del 2001; e, in riferimento al solo art. 3 Cost., ordinanza n. 304 del 2000);

che, riguardo alla supposta violazione dell’art. 3 Cost., questa Corte ha in particolare rilevato che l’avere il legislatore — in adesione all’invito alla predisposizione di garanzie anche «tecniche» per l’effettuazione delle operazioni di intercettazione, formulato dalla Corte stessa con sentenza n. 34 del 1973 — privilegiato l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari, dettando una disciplina volta a circoscrivere con apposite garanzie l’uso di impianti esterni, non può qualificarsi, in sé, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche alla particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: e ciò proprio perché si tratta di una scelta finalizzata «ad evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto» possano «operare controlli sul traffico telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria»;

che, quanto al carattere ‘anacronistico’ impresso, in assunto, ad una simile giustificazione dall’evoluzione delle modalità tecniche di esecuzione delle intercettazioni — che l’odierna ordinanza di rimessione prospetta quale argomento nuovo — non è evidentemente compito di questa Corte ‘inseguire’ il «progresso tecnologico», valutando se esso renda necessario od opportuno un adeguamento, o addirittura il superamento delle originarie regole di cautela: trattandosi, al contrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore;

che, analogamente, rientra in un ragionevole ambito di discrezionalità legislativa — avuto riguardo alla pregnanza dei valori in gioco — stabilire se la violazione delle regole di cui si discute debba essere o meno equiparata, sul piano della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizzazione e all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casi consentiti dalla legge;

che con riguardo, infine, all’asserita violazione dell’art. 112 Cost., resta pienamente valida l’affermazione che le disposizioni censurate non incidono sull’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, ma si limitano a stabilire, «con finalità di salvaguardia di un valore di rango costituzionale», «le ‘garanzie tecniche’ di espletamento di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo» (cfr. ordinanza n. 259 del 2001);

che la questione deve essere dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2004.