Ordinanza n. 202 del 2004

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ORDINANZA N. 202

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Valerio ONIDA, Presidente             

- Fernanda CONTRI                           

- Guido NEPPI MODONA                                       

- Piero Alberto CAPOTOSTI                                     

- Annibale MARINI                                       

- Giovanni Maria FLICK                                           

- Francesco AMIRANTE                                           

- Ugo DE SIERVO                                        

- Romano VACCARELLA                           

- Alfio FINOCCHIARO                                           

- Alfonso QUARANTA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.197-bis, comma 2, del codice di procedura penale promosso con ordinanza del 22 aprile 2002 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di C.G. ed altri, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 2, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede che il coimputato nel medesimo reato o l’imputato di un reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera a), del medesimo codice, possa essere sentito come testimone nel caso previsto dall’art. 64, comma 3, lettera c), cod. proc. pen.";

che il giudice a quo sottolinea – in fatto – che uno degli imputati del procedimento in corso di celebrazione si è rifiutato di rendere dichiarazioni, non soltanto con riferimento alla propria posizione, ma anche con riguardo alla responsabilità dei suoi coimputati; sicché, non potendo egli assumere la qualità di testimone, atteso il divieto sancito dall’art. 197 cod. proc. pen., non risulta nella specie applicabile neppure l’art. 197-bis del codice di rito, trattandosi di persona nei confronti della quale "si procede, nello stesso processo, per un reato connesso a quello degli altri imputati ai sensi dell’art. 12 lett. a), cod. proc. pen.": con la conseguenza – osserva il rimettente – che, esaurita la fase della assunzione delle prove orali richieste dalle parti, il giudice dovrebbe disporre il passaggio alla discussione finale sulla base del materiale probatorio acquisito, nell’ambito del quale le dichiarazioni precedentemente rese da quell’imputato sarebbero utilizzabili soltanto nei suoi confronti;

che il censurato divieto di applicazione del nuovo istituto della cosiddetta "testimonianza assistita" – di cui all’art. 197-bis, cod. proc. pen. – nei confronti dell’imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nell’ambito dello stesso processo che si celebra anche a suo carico, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione; risulterebbe, infatti, irragionevole sottoporre ad un diverso regime processuale la prova orale dell’imputato dello stesso reato o di un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., a seconda che esso sia stato già giudicato con sentenza irrevocabile di condanna, o che venga giudicato nel medesimo processo;

che il medesimo parametro sarebbe vulnerato anche sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento che verrebbe a generarsi fra le parti del procedimento: mentre all’accusa, infatti, "l’utilizzazione di indagini svolte legittimamente, tali da rendere possibile l’applicazione di provvedimenti cautelari e l’esercizio dell’azione penale" risulterebbe irragionevolmente preclusa per il dibattimento, alla difesa sarebbe invece conferito "il potere di consentire alla acquisizione di dichiarazioni rese fuori del processo";

che risulterebbe compromesso anche il principio sancito dall’art. 112 della Costituzione, in quanto sarebbe "irragionevole consentire ad un imputato che ha già reso dichiarazioni erga alios, sulla cui base è stato disposto il rinvio a giudizio degli accusati, di avvalersi in dibattimento della facoltà di non rispondere, impedendo ai coimputati di difendersi e ponendo nel nulla la pregressa attività processuale";

che la previsione oggetto di impugnativa violerebbe – accanto al principio di ragionevolezza – anche il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio nella formazione della prova di cui all’art. 111 della Costituzione, poiché si risolve nella "scelta di sottrarre totalmente a tale contraddittorio le dichiarazioni precedentemente rese da soggetti poi sottoposti ad esame ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen. e che si avvalgano della facoltà di non rispondere, senza che tale scelta sia imposta dal rispetto di valide ragioni giustificatrici";

che la disciplina censurata – ad avviso del rimettente – sarebbe altresì in contrasto con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge di cui all’art. 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto la decisione del giudice risulterebbe nella specie "sostanzialmente condizionata dalla volontà arbitraria di uno dei soggetti del processo, di partecipare o meno alla formazione della prova";

che, infine, sarebbe violato pure l’art. 27 della Carta fondamentale, giacché – conclude il giudice a quo – "un sistema processuale che prescindesse dal fine preminente di procedere all’accertamento della verità storica vanificherebbe il principio della personalità della responsabilità penale";

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Considerato che il Tribunale di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 197-bis. comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il coimputato nel medesimo reato o l’imputato di un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., "possa essere sentito come testimone nel caso previsto dall’art. 64, comma 3, lettera c)" del medesimo codice;

che, secondo il giudice rimettente, il divieto di sentire come testimone il coimputato nello stesso processo, per un reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., in relazione alla responsabilità di altri, sarebbe in contrasto, per i profili già accennati in parte narrativa, con gli artt. 3, 24, 27, 101, 111 e 112 della Costituzione;

che, in particolare, alla stregua del quadro normativo coinvolto dal quesito – a mente del quale l’imputato di reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può assumere la qualità di testimone se non dopo che nei suoi confronti sia intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento, condanna o applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. – si determinerebbe, ad avviso del rimettente, la irragionevole conseguenza per la quale il potere del giudice di sentire come testimone sul fatto altrui l’imputato nello stesso reato o in un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., verrebbe fatto dipendere da una circostanza di carattere "puramente processuale", quale è quella rappresentata dalla celebrazione di un unico giudizio a carico di tutti i coimputati, ovvero dalla separazione delle diverse posizioni processuali, con la conseguente emanazione, in tempi diversi, di più sentenze; ciò che potrebbe offrire esca anche a condotte "spregiudicate" dell’accusa, incentivata a "stralciare le posizioni processuali a lei più favorevoli, allo scopo di "dividere" i processi e così accelerare la decisione contro il dichiarante per poi poterlo citare come testimone nei confronti dei "non dichiaranti";

che pertanto, allo scopo di ricondurre la disciplina censurata nel quadro dei valori costituzionali che si assumono compromessi, occorrerebbe – ad avviso del giudice a quo estendere i casi in cui l’imputato può assumere la qualifica di testimone anche alla ipotesi del coimputato dello stesso reato o dell’imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.; di talché – conclude il Tribunale rimettente - "il coimputato che ha reso dichiarazioni contro altri, sarebbe obbligato a ripetere le sue accuse in contraddittorio con tutti i soggetti processuali o ad assumersi pubblicamente la responsabilità di smentire, integrare, perfezionare le sue dichiarazioni", ferme restando le garanzie previste dai commi 4 e 5 dello stesso art. 197-bis, cod. proc. pen.;

che, al riguardo, occorre preliminarmente rammentare che questa Corte, nella ordinanza n. 485 del 2002, ha dichiarato manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, 197-bis e 210 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui garantiscono il diritto al silenzio dell’imputato in un procedimento connesso, separatamente giudicato per lo stesso fatto con sentenza non ancora irrevocabile, che abbia reso dichiarazioni erga alios, e non prevedono che il rifiuto di sottoporsi all’esame sia penalmente sanzionato, al pari del rifiuto di rispondere opposto dal testimone;

che in detta pronuncia, in particolare, questa Corte ha avuto modo di sottolineare che la disciplina oggetto di impugnativa deve ritenersi in linea con i principi costituzionali evocati a parametro dello scrutinio allora operato, poiché essa appare frutto delle scelte discrezionali, non irragionevolmente esercitate, con cui il legislatore ha individuato – in ossequio al principio nemo tenetur se detegere – situazioni nelle quali il diritto al silenzio, inteso nella sua dimensione di "corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa", va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire l’impossibilità di formazione della prova testimoniale;

che, alla stregua di tali principi, il bilanciamento operato dal legislatore si rivela tanto più esente da censure ove venga riferito ad una situazione – come quella devoluta dal giudice a quo – in cui il coimputato nello stesso reato o l’imputato in un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non sia stato neppure ancora giudicato nel "suo" processo, e non sia stata, dunque, ancora pronunciata una sentenza, ancorché non definitiva, che abbia delibato la relativa regiudicanda: il che, evidentemente, rafforza l’esigenza di garantire appieno la preclusione verso l’obbligo di dichiarazioni talmente "contigue" al fatto proprio da essere sostanzialmente lesive del proprio inviolabile diritto di difesa e delle connesse libere scelte;

che, d’altra parte, l’obiettivo che il giudice a quo intenderebbe perseguire attraverso la pronuncia additiva richiesta, lungi dal presentarsi, per quel che si è già detto, come soluzione costituzionalmente imposta, si appalesa anche come scelta del tutto eccentrica rispetto al sistema: giacché, per un verso, anziché introdurre un "caso ulteriore" di esame testimoniale del dichiarante erga alios, si finisce addirittura per costruire una figura di dichiarante del tutto nuova, quale sarebbe quella dell’imputato chiamato a rendere "testimonianza" nel suo stesso processo; per un altro verso, si innesterebbe, all’interno di un medesimo procedimento, riguardante un fatto "comune" a più imputati, una dicotomia (strutturale e funzionale) di fonti dichiarative, in capo ai medesimi soggetti dichiaranti, a seconda che gli stessi siano chiamati a rendere l’esame quali imputati, o come "testi assistiti" in ordine alla responsabilità degli altri;

che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 101, 111 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2004.

F.to:

Valerio ONIDA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2004.