Sentenza n. 106 del 2004

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SENTENZA N. 106

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Gustavo                                                        ZAGREBELSKY      Presidente

-  Valerio                                                          ONIDA                        Giudice

-  Carlo                                                             MEZZANOTTE                “

-  Fernanda                                                       CONTRI                            “

-  Guido                                                           NEPPI MODONA            “

-  Piero Alberto                                                CAPOTOSTI                     “

-  Annibale                                                       MARINI                            “

-  Franco                                                           BILE                                  “

-  Giovanni Maria                                             FLICK                               “

-  Francesco                                                      AMIRANTE                      “

-  Ugo                                                               DE SIERVO                      “

-  Romano                                                        VACCARELLA                “

-  Paolo                                                             MADDALENA                 “

-  Alfonso                                                         QUARANTA                    “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 137, 184 e 187 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza dell’11 novembre 2002 dal Tribunale ordinario di Catanzaro nel procedimento civile vertente tra Pagnotta Carmelo, e altra, e il fallimento della società P. e C. Pagnotta s.n.c., e altri, iscritta al n. 323 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2003.

  Visti gli atti di costituzione di Pagnotta Carmelo, e altra, e del fallimento della società P. e C. Pagnotta s.n.c., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2004 il giudice relatore Romano Vaccarella;

  uditi gli avvocati Francesco Sassi per Pagnotta Carmelo, e altra, Pasquale Barbieri per il fallimento della società P. e C. Pagnotta s.n.c. e l’avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio di opposizione, promosso da Carmelo Pagnotta e dalla società P. e C. Pagnotta s.n.c. avverso la sentenza dichiarativa del loro fallimento, pronunciata dal Tribunale ordinario di Catanzaro il 14 giugno 2001, detto tribunale, con ordinanza dell’11 novembre 2002, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 41 della Costituzione, degli artt. 137, 184 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui – in combinato disposto – «precludono al creditore anteriore alla proposta di concordato preventivo del suo debitore, e non avvisato della proposta concordataria, né inserito nell’elenco dei creditori, di richiedere il fallimento del suo debitore, nel caso di inadempimento del concordato, ed anche in mancanza di risoluzione, decorso l’anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento indicato nel concordato preventivo omologato».

1.1.– Premette il giudice rimettente che lo stesso tribunale, con sentenza del 15 maggio 1995, aveva omologato il concordato preventivo della società P. e C. Pagnotta s.n.c. e, con decreto in data 30 giugno 1998, aveva rigettato l’istanza di risoluzione del concordato, proposta dai creditori Pietro Raimondo e Banco di Napoli s.p.a.; successivamente, in data 14 giugno 2001, aveva emesso l’opposta sentenza dichiarativa di fallimento su ricorso di alcuni creditori.

Riferisce il rimettente che gli opponenti sostengono l’illegittimità della dichiarazione di fallimento, deducendo, da un lato, l’impossibilità di dichiarare il fallimento del debitore, una volta omologato il concordato preventivo, se non previa pronuncia di risoluzione del concordato e, dall’altro, l’insussistenza dello stato di insolvenza degli stessi debitori, il cui patrimonio immobiliare è tale da poter soddisfare tutti i crediti; dal canto loro – riferisce ancora il rimettente – i convenuti curatore del fallimento e creditori istanti Pietro Raimondo e società SGA, quest’ultima quale cessionaria dell’ISVEIMER, costituitisi in giudizio, resistono all’opposizione, deducendo che la dichiarazione di fallimento è possibile anche dopo il decorso del termine annuale per la risoluzione del concordato preventivo, qualora sia accertato un nuovo e diverso stato di insolvenza dell’imprenditore, come, nel caso di specie, si evince dallo stato passivo del fallimento.

1.2.– Rileva il giudice rimettente, in punto di fatto, che i ricorsi, che hanno dato luogo alla dichiarazione di fallimento, attengono tutti a crediti anteriori al concordato preventivo e che, allo stato degli atti, non risulta che la società P. e C. Pagnotta s.n.c. sia divenuta insolvente per crediti sorti successivamente al decreto di ammissione alla procedura di concordato.

Rileva, altresì, che il creditore ISVEIMER, come emerge dagli atti, non aveva avuto notizia del concordato.

1.3.– In linea di diritto, il giudice a quo osserva che, per pacifico principio giurisprudenziale, il concordato omologato, ai sensi dell’art. 184 del regio decreto n. 267 del 1942 (di seguito, “legge fallimentare”), è obbligatorio per tutti i creditori, che abbiano una ragione di credito anteriore al decreto di apertura della procedura di concordato, e che, pertanto, essi soggiacciono agli effetti del concordato, anche qualora il loro credito sia accertato in data successiva e pur se non siano stati compresi nell’elenco verificato dal commissario giudiziale e non abbiano partecipato alla deliberazione sulla proposta di concordato.

Osserva, altresì, che, in caso di inadempimento del concordato, ove sia decorso il termine, previsto dall’art. 137, terzo comma, legge fall. (richiamato dall’art. 186, primo comma, della stessa legge), per pronunciarne la risoluzione, non appare possibile ritenere, «perché in contrasto con i principi giuridici in materia di negozio, che il concordato non adempiuto né risolto non sia più obbligatorio per l’imprenditore e per i creditori»; che, viceversa, permanendo «l’accordo transattivo tra debitore e creditori», non può ritenersi che i creditori «possano agire in via esecutiva senza rispettare la falcidia concordataria, né che possano chiedere il fallimento del debitore», giacché gli artt. 137 e 186 legge fall. indicano come unico strumento per la riapertura del fallimento (in caso di concordato fallimentare) o per la dichiarazione di fallimento (in caso di concordato preventivo) la tempestiva pronuncia di risoluzione; che, in conclusione, trascorso il temine per la risoluzione, è preclusa la dichiarazione di fallimento e i creditori possono agire solo per la percentuale concordataria, ma il debitore non è più assoggettabile a fallimento, a meno che lo stesso non abbia intrapreso una nuova attività imprenditoriale.

Alla stregua di tali principi, che – sostiene il giudice a quo – «risultano pacifici in giurisprudenza», avrebbe dovuto, nel caso di specie, escludersi la dichiarazione di fallimento a carico della società P. e C. Pagnotta s.n.c., il concordato preventivo non essendo stato risolto tempestivamente, né avendo detta società intrapreso nuova attività imprenditoriale.

Il giudice rimettente, tuttavia, dubita che il combinato disposto degli artt. 136, 184 e 186 legge fall., come innanzi interpretato, sia in contrasto con gli artt. 3, 24 e 41 Cost., posto che tali disposizioni precludono la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore, il cui concordato preventivo non è stato adempiuto e non è più suscettibile di risoluzione per decorso del termine annuale, anche su istanza di un creditore che, sebbene anteriore, non sia stato inserito tra i creditori concordatari e non abbia potuto interloquire sulla legittimità e sulla convenienza della proposta.

1.4.– Quanto alla rilevanza della questione, il giudice rimettente osserva che, qualora si giudicasse la preclusione di cui innanzi non in contrasto con i principi costituzionali, la conseguenza sarebbe l’accoglimento dell’opposizione alla dichiarazione di fallimento.

1.5.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il medesimo giudice osserva che le norme denunciate creano una disparità di trattamento fra i creditori che, essendo stati inseriti nell’elenco e avendo avuto notizia del concordato, sono stati posti in condizione di votare e di chiedere tempestivamente la risoluzione del concordato non adempiuto, con il conseguente fallimento del debitore, e i creditori pretermessi, perché illegittimamente non inseriti nell’elenco, i quali, non avendo avuto notizia del concordato, non sono stati messi in grado di chiedere la risoluzione del concordato medesimo nel termine di legge, né possono, comunque, chiedere il fallimento del debitore – per la preclusione innanzi evidenziata – una volta decorso l’anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento, con violazione del loro diritto di difesa.

Osserva, ancora, che le disposizioni censurate contrastano, altresì, con l’art. 41 Cost., essendo il creditore pretermesso comunque obbligato dagli effetti del concordato, sebbene non abbia potuto partecipare alla deliberazione e non abbia, quindi, potuto esprimere il suo eventuale dissenso sulla proposta.

2.– Si sono ritualmente costituiti i falliti opponenti e il curatore del fallimento.

2.1.– I primi, premesso che:

a) fra la società SGA e la società P. e C. Pagnotta s.n.c. pendeva fin dal 1993 giudizio contenzioso per la determinazione dell’effettivo ammontare del credito in contestazione, donde il mancato inserimento della prima nell’elenco dei creditori e il suo mancato avviso dell’adunanza;

b) la sentenza di omologazione del concordato era passata in giudicato;

c) il giudice delegato, nel determinare le modalità di esecuzione del concordato, con decreto del 22 gennaio 1996, aveva stabilito al 30 giugno 1997 la scadenza del pagamento dell’ultima rata;

d) era decorso il termine di un anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento e il tribunale aveva rigettato, con decreto del 30 giugno 1998, l’istanza di risoluzione del concordato,

deducono l’illegittimità della dichiarazione di fallimento e l’inammissibilità o l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

All’uopo, osservano che il giudizio di omologazione si apre con l’ordinanza del giudice delegato ex art. 180 legge fall., la quale è pubblicata per affissione, instaurando, così, una sorta di processo edittale per pubblici proclami; di talché, anche il creditore non avvisato, abbia o non abbia esercitato la facoltà di costituirsi, è sempre vincolato dall’omologazione del concordato.

2.2.– Il curatore del fallimento, dal suo canto, sostiene che, in caso di inadempimento del concordato preventivo, ove il tribunale non pronunci la risoluzione nel termine annuale di cui all’art. 137 legge fall., resta salva al creditore la facoltà, se sussiste ancora il presupposto soggettivo, di chiedere il fallimento secondo le norme ordinarie. In sostanza, a suo avviso, la dichiarazione di fallimento dopo l’omologazione è preclusa, nell’ipotesi di decorso del termine, solo qualora l’imprenditore abbia cessato l’esercizio dell’impresa da oltre un anno, ai sensi dell’art. 10 legge fall. In questa prospettiva, avendo i falliti mantenuto inalterata la loro qualifica di imprenditori commerciali, si doveva, comunque, pervenire alla dichiarazione del loro fallimento. Deduce, pertanto, l’irrilevanza della questione, non dovendo le disposizioni impugnate trovare applicazione nella fattispecie in esame.

In via subordinata, osserva che le norme impugnate, come interpretate dal giudice rimettente, appaiono lesive del diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost., e del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., atteso che i creditori pretermessi sarebbero costretti a subire le preclusioni derivanti dalla richiamata normativa, vedendo limitate le loro possibilità di tutela giurisdizionale, pur non essendo stati messi in condizione di esercitare in pieno i loro diritti.

In conclusione, chiede che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza o, in subordine, sia accolta per le ragioni esposte nell’ordinanza di rimessione.

3.– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa erariale osserva che tutti i creditori anteriori sono trattati, sotto il profilo sostanziale della falcidia concordataria, nello stesso modo, inseriti o meno che essi siano nell’apposito elenco; tutti possono chiedere, in caso di inadempimento, la risoluzione del concordato nel termine annuale dalla scadenza dell’ultimo pagamento; tale termine, peraltro, è congruo con riguardo alle persone di media diligenza.

4.– In prossimità dell’udienza pubblica, i falliti hanno presentato memoria, nella quale, richiamate le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione, espongono che: l’ISVEIMER, poi la SGA, è creditore privilegiato, per cui mai avrebbe potuto partecipare al voto sulla proposta di concordato, per disposto dell’art. 177, secondo comma, legge fall.; detto creditore mai avrebbe potuto ricevere alcun nocumento dal concordato, sia nell’ipotesi di adempimento che in quella di risoluzione, rimanendo, comunque, intangibili i suoi diritti; la sua mancata partecipazione alla procedura concordataria rientra nella sue facoltà di scelta.

Concludono, perché la questione sia dichiarata inammissibile ovvero, in subordine, manifestamente infondata.

Considerato in diritto

  1.– Il tribunale rimettente dubita della legittimità costituzionale, in relazione agli articoli 3, 24 e 41 della Costituzione, degli articoli 137, 184 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) (di seguito “legge fallimentare”), in quanto precluderebbero «al creditore anteriore alla proposta di concordato preventivo del suo debitore, e non avvisato della proposta concordataria, né inserito nell’elenco dei creditori, di richiedere il fallimento del suo debitore, nel caso di inadempimento del concordato, ed anche in mancanza di risoluzione, decorso l’anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento indicato nel concordato preventivo omologato».

  2.– La questione è infondata.

  Il giudice rimettente – premesso che il vincolo nascente dal concordato omologato continua a sussistere, qualora non sia stata tempestivamente chiesta la sua risoluzione e questa non sia stata pronunciata, nei confronti di tutti i creditori anteriori al decreto di ammissione al concordato, abbiano o non, costoro, partecipato alla procedura e ne abbiano, oppure non, avuto notizia, e premesso, altresì, che «la mancata risoluzione del concordato ne rende ancora possibile l’attuazione e importa la permanenza dell’accordo transattivo tra debitore e creditori» – osserva che è per tale ragione che «gli artt. 137 e 186 legge fall. indicano come unico strumento di riapertura del fallimento (per il concordato fallimentare) o di dichiarazione di fallimento (per il concordato preventivo) la pronuncia tempestiva di risoluzione»; sicché il creditore pretermesso dalla procedura di concordato subirebbe – per non averne potuto chiedere tempestivamente la risoluzione – un deteriore trattamento, lesivo anche del suo diritto di difesa, rispetto al creditore che abbia avuto notizia del concordato, e che, quindi, ne abbia potuto chiedere tempestivamente la risoluzione, in quanto gli sarebbe preclusa la possibilità di instare per il fallimento del suo debitore nel caso di inadempimento.

  Osserva la Corte che, se la premessa dalla quale muove il rimettente è certamente corretta ed è condivisa dall’unanime dottrina e giurisprudenza, altrettanto certo è che la conseguenza trattane – e cioè che la dichiarazione di fallimento presuppone in ogni caso, quando si tratti di insolvenza relativa ad obbligazioni anteriori al concordato, la risoluzione di quest’ultimo – non è necessitata dal tenore delle norme; indubbio è, poi, come risulta dai pochissimi precedenti (di merito) citati, che non può parlarsi in proposito di “diritto vivente”, tanto più se si considera che la dottrina dominante sostiene l’opposta soluzione.

  In effetti, la lettera delle norme sospettate di incostituzionalità è inequivoca nel sancire, da un lato, che «il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato» (art. 184 legge fall.) e, dall’altro lato, che tale obbligatorietà può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell’annullamento, in quanto «con la sentenza che risolve o annulla il concordato il tribunale dichiara il fallimento» (art. 186 legge fall.); dichiarazione che retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato, e che determina, ovviamente, l’ammissione al passivo dei crediti anteriori per l’intero loro ammontare e non già nella misura “falcidiata” dal concordato.

  La tesi, pertanto, secondo la quale l’assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto tale dichiarazione di fallimento “in consecuzione”, ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento – la quale, ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa – non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal “diritto vivente”), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 legge fall., ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura.

  E’ del tutto evidente che il giudice rimettente – investito, ex art. 18 legge fall., della questione della legittimità della dichiarazione di fallimento – ben potrebbe, e dovrebbe, adottare una interpretazione conforme a Costituzione in luogo di quella “sistematica” che egli ritiene confliggente con le evocate norme costituzionali; sicché, ferma l’obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l’inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell’art. 5 legge fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 137, 184 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catanzaro con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2004.

  Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

  Romano VACCARELLA, Redattore

  Depositata in Cancelleria il 2 aprile 2004.