Ordinanza n. 95 del 2004

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ORDINANZA N. 95

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

- Valerio ONIDA          

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI     

- Guido NEPPI MODONA      

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Franco BILE    

- Giovanni Maria FLICK          

- Ugo DE SIERVO       

- Romano VACCARELLA      

- Paolo MADDALENA

- Alfio FINOCCHIARO

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 316-ter del codice penale, promosso con ordinanza del 25 novembre 2002 dalla Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di M.T., iscritta al n. 135 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 21 gennaio 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe la Corte di appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 10 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 316-ter del codice penale, aggiunto dall’art. 4 della legge 29 settembre 2000, n. 300 (Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K. 3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica), che — sotto la rubrica "indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato" — punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, "chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee"; prevedendo, altresì, l’applicazione di una semplice sanzione amministrativa pecuniaria quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore ad un determinato importo;

che il giudice a quo premette di essere investito, in grado di appello, del processo penale nei confronti di persona imputata del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’art. 640-bis cod. pen. (oltre che di quello di cui all’art. 483 cod. pen.), per aver conseguito dall’Università degli studi di Milano, negli anni 1995 e 1996, benefici ed erogazioni (in particolare un "tesserino mensa" ed una borsa di studio) di entità maggiore rispetto a quella ad essa effettivamente spettante, tramite "artifizi" consistiti in false attestazioni circa la propria situazione patrimoniale e reddituale: reato per il quale era stata pronunciata, in primo grado, sentenza di condanna appellata dall’imputato;

che, ad avviso del rimettente, il fatto per cui si procede rientrerebbe attualmente nella previsione del nuovo art. 316-ter cod. pen.: donde la necessità di stabilire quale rapporto intercorra tra tale previsione sanzionatoria e la norma incriminatrice di cui all’art. 640-bis cod. pen., oggetto dell’imputazione;

che, secondo il giudice a quo, la "formale sussidiarietà" dell’art. 316-ter rispetto all’art. 640-bis cod. pen. — risultante dalla clausola di riserva con cui la prima norma si apre ("salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis") — si scontrerebbe con la "secolare tradizione interpretativa" per cui il falso, nelle sue diverse manifestazioni (comprese quelle descritte nell’art. 316-ter), rappresenta la forma più comune e tipica di estrinsecazione degli "artifizi o raggiri", costitutivi del delitto di truffa;

che a fronte di tale "insanabile contraddizione" tra "formale sussidiarietà" e "sostanziale specialità" della norma impugnata, la giurisprudenza di legittimità si sarebbe indotta — onde ritagliare uno spazio operativo alla nuova figura criminosa, altrimenti condannata all’"ineffettività" — a restringere il tradizionale concetto di "artifizi o raggiri", escludendo che le condotte indicate nell’art. 316-ter cod. pen. rientrino in esso;

che alla stregua di tale orientamento, peraltro, l’imputato nel giudizio a quo dovrebbe essere assolto, dato che il fatto a lui ascritto non risulterebbe punibile né ai sensi dell’art. 640-bis cod. pen., per assenza — in tesi — dell’artifizio o raggiro; né in base all’art. 316-ter cod. pen., trattandosi di fatto commesso in data anteriore a quella di entrata in vigore di tale norma;

che a parere del rimettente, tuttavia, l’art. 316-ter cod. pen. violerebbe l’art. 10 Cost., in quanto la nuova disposizione — introdotta al dichiarato scopo di rafforzare la tutela penale degli interessi finanziari delle Comunità europee, in attuazione di specifici obblighi internazionali — avrebbe prodotto il risultato esattamente opposto, facendo sì che condotte in precedenza pacificamente integrative dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 640-bis cod. pen. beneficino oggi del più mite trattamento sanzionatorio prefigurato dalla norma impugnata;

che inoltre — essendo la fattispecie di cui all’art. 640-bis cod. pen. uno "sviluppo" della "figura base di truffa" prevista dall’art. 640 cod. pen., tanto da essere considerata quale semplice circostanza aggravante di tale reato — occorrerebbe chiedersi se il concetto più ristretto di "artifizio o raggiro", elaborato a proposito dell’art. 640-bis cod. pen., valga anche in rapporto alla figura generale di cui all’art. 640 cod. pen.;

che peraltro, qualunque risposta si dia a tale interrogativo, si avrebbe una "palese irrazionalità di disciplina", atta a porre l’art. 316-ter cod. pen. in contrasto con l’art. 3 Cost.;

che, in particolare, ove si ritenga che l’anzidetta nozione ristretta di "artifizio o raggiro" non si estende alla fattispecie "comune" di truffa di cui all’art. 640 cod. pen., si profilerebbe una ingiustificata disparità di trattamento della truffa in danno di ente pubblico o comunitario rispetto a quella commessa in danno di un soggetto privato: chi ottiene erogazioni da un privato mediante documenti falsi, difatti, sarebbe comunque punibile ai sensi dell’art. 640 cod. pen. (al pari di chi, allo stesso fine, si avvalga di altri artifizi o raggiri); mentre nel caso dell’ente pubblico o comunitario, detta tipologia di condotta costituirebbe "il discrimine per un rilevante mutamento della sanzione", che diverrebbe addirittura solo amministrativa nei casi più lievi (art. 316-ter, secondo comma, cod. pen.);

che ove si ritenga, invece, che il concetto più ristretto di "artifizio o raggiro" vale anche per la truffa comune — soluzione, peraltro, priva di qualsiasi riscontro nel "diritto vivente" — si determinerebbe una disparità di trattamento di segno opposto: in danno, cioè, dell’offeso "privato";

che in quest’ultima prospettiva, difatti, si accorderebbe agli enti pubblici e comunitari una tutela penale (quella contro le frodi commesse mediante utilizzazione di falsa documentazione) della quale sarebbero — in tesi — completamente privi i soggetti privati: assetto, questo, inaccettabile sul piano costituzionale, in quanto — a fronte di fatti identicamente lesivi della sfera patrimoniale — la natura pubblica o privata della persona offesa potrebbe ragionevolmente influire solo sulla misura della pena, ma non sulla stessa liceità penale della condotta;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Considerato che i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 316-ter cod. pen., formulati dalla Corte di appello rimettente, risultano sostanzialmente coincidenti — quanto alla premessa fondante — con quelli in passato sollevati, in riferimento al solo art. 3 Cost., riguardo alla previsione punitiva di cui all’art. 2 della legge 23 dicembre 1986, n. 898 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701, recante misure urgenti in materia controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo): norma che — punendo con la reclusione da sei mesi a tre anni chi, mediante esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente contributi a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), salva l’applicazione di una semplice sanzione amministrativa pecuniaria ove la somma indebitamente percepita non ecceda un determinato importo — è del tutto omologa, per ratio e struttura, a quella oggi sottoposta a scrutinio;

che il citato art. 2 della legge n. 898 del 1986 era infatti finalizzato — secondo quanto si affermava nella relazione alla proposta di legge e come emergeva, altresì, dai lavori parlamentari — a rafforzare la tutela penale delle sovvenzioni comunitarie, evitando, in specie, che potesse rimanere impunito chi ottenesse indebite erogazioni dal FEOGA mediante la mera esposizione di dati o notizie falsi: e ciò a fronte della "constatata riluttanza, nella pratica amministrativa ed in quella giudiziaria", a far rientrare detta condotta nel paradigma degli "artifizi o raggiri", richiesti ai fini della configurabilità del delitto di truffa, di cui all’art. 640 cod. pen. (cfr. sentenza di questa Corte n. 25 del 1994);

che la funzione sussidiaria che, nell’intenzione del legislatore, la fattispecie era destinata ad assolvere rispetto alla truffa — e, poi, rispetto alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni a carico dello Stato, di enti pubblici o delle Comunità europee, di cui all’art. 640-bis cod. pen., successivamente introdotto dall’art. 2 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione della pericolosità sociale) — venne tuttavia negata da una parte della giurisprudenza, che qualificò, viceversa, l’art. 2 della legge n. 898 del 1986 come norma speciale — e dunque prevalente, nel caso di concorso apparente — rispetto a quelle del codice penale;

che tale tesi si fondava, in specie, sul rilievo che, secondo un risalente indirizzo giurisprudenziale, la sola menzogna sarebbe stata già di per sé sufficiente, in via generale, ad integrare il concetto di "artifizi o raggiri", onde il fatto sanzionato dall’art. 2 della legge n. 898 del 1986 sarebbe rientrato pleno iure nel perimetro applicativo dell’art. 640 cod. pen. (e poi dell’art. 640-bis cod. pen.), se non fosse stato per gli elementi specializzanti costituiti dalla specificità del soggetto passivo e dalla natura del profitto conseguito dall’agente: prospettiva nella quale, peraltro, la norma de qua — con eterogenesi dei fini — avrebbe di fatto determinato un indebolimento della tutela delle sovvenzioni comunitarie, riservando, in pratica, un trattamento sanzionatorio più mite — tenuto conto dei livelli delle pene edittali e della prevista degradazione della violazione in semplice illecito amministrativo, al di sotto di un determinato importo — a fatti altrimenti soggetti alla più severa sanzione comminata dalle norme del codice penale;

che il legislatore ritenne, quindi, di dover sconfessare apertamente tale interpretazione, aggiungendo in apertura dell’art. 2 della legge n. 898 del 1986 — con l’art. 73 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria per il 1991) — una clausola di sussidiarietà espressa, volta ad escludere l’operatività della previsione punitiva nel caso di configurabilità del delitto di cui all’art. 640-bis cod. pen. ("ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640-bis del codice penale …");

che — sul presupposto che l’art. 2 della legge n. 898 del 1986 si ponesse comunque in rapporto di specialità rispetto agli artt. 640 e 640-bis cod. pen., con il conseguente irrazionale effetto sopra evidenziato — la norma venne sottoposta a scrutinio di costituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost.: questione che la Corte dichiarò tuttavia infondata, rilevando come — alla luce della inequivoca ratio della disposizione impugnata e del successivo intervento del legislatore del 1992 — la disposizione stessa fosse destinata ad operare esclusivamente negli spazi non già "coperti" dalle citate norme del codice (cfr. sentenza n. 25 del 1994 e ordinanza n. 433 del 1998);

che l’odierno giudice a quo pone, analogamente, a base dei propri dubbi di legittimità costituzionale del nuovo art. 316-ter cod. pen. l’assunto per cui la norma denunciata avrebbe in pratica assicurato un trattamento sanzionatorio più favorevole a fatti di indebita percezione di contributi a danno dello Stato, di enti pubblici o delle Comunità europee: fatti che — al lume della "tradizionale" lettura giurisprudenziale del concetto di "artifizi o raggiri" — ricadrebbero "pacificamente" nella sfera punitiva della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’art. 640-bis cod. pen.;

che anche in questo caso va peraltro osservato, in senso contrario, che il carattere sussidiario e "residuale" dell’art. 316-ter cod. pen. rispetto all’art. 640-bis cod. pen. — a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire unicamente fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda — costituisce un dato normativo assolutamente inequivoco;

che la chiara lettera della disposizione impugnata — la quale esordisce anch’essa con una clausola di salvezza dell’art. 640-bis cod. pen. — si coniuga infatti puntualmente sia con la finalità generale del provvedimento legislativo che ha introdotto la disposizione stessa, sia con l’obiettivo specifico della sua introduzione;

che, quanto al primo profilo, l’art. 316-ter è stato infatti inserito nel codice penale dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, nel quadro delle misure di adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995: Convenzione il cui art. 2 imponeva agli Stati membri di punire le frodi lesive dei predetti interessi — quali definite dall’art. 1 — con sanzioni penali "effettive, proporzionate e dissuasive", comprensive, almeno nei casi di "frode grave", di pene privative della libertà personale che possano comportare l’estradizione; salva la facoltà di stabilire sanzioni di natura non penale per le frodi "di lieve entità", riguardanti un importo totale inferiore a 4.000 ecu;

che la norma censurata non era peraltro prevista dall’originario disegno di legge governativo di ratifica della suddetta Convenzione, nella convinzione — esplicitata nella relazione — che l’art. 640-bis cod. pen. fosse già sufficiente a soddisfare gli obblighi comunitari in parola, segnatamente per quanto atteneva alle frodi "in materia di spese", delineate dall’art. 1, lettera a), primo e secondo trattino, dello strumento;

che nel corso dei lavori parlamentari, è emersa tuttavia la preoccupazione che talune delle fattispecie di frode identificate dalla Convenzione — le quali comprendevano non soltanto condotte di falso in senso lato ("utilizzo o … presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti"), ma anche di mero silenzio antidoveroso ("mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico"), senza che al tempo stesso fosse previsto il requisito dell’induzione in errore del soggetto passivo, caratterizzante il paradigma della truffa — potessero in realtà non rientrare nella sfera di operatività del citato art. 640-bis cod. pen.;

che onde evitare una eventuale inadempienza, per tal aspetto, agli obblighi comunitari — scartata l’idea iniziale di aggiungere all’art. 640-bis cod. pen. un ulteriore comma, che riconducesse espressamente alla fattispecie della truffa aggravata le condotte descritte nella Convenzione — si è optato per la soluzione di coniare una nuova disposizione sanzionatoria — quella, appunto, dell’art. 316-ter cod. pen. — modellata (anche per quanto attiene alla preliminare clausola di salvezza dell’art. 640-bis cod. pen.) sulla falsariga dell’art. 2 della legge n. 898 del 1986, e che riproduce quasi alla lettera, quanto alla descrizione della condotta sanzionata, la formula dell’art. 1 della Convenzione: disposizione che — nel comminare sanzioni più miti di quelle previste dall’art. 640-bis cod. pen. — è peraltro eloquentemente indicativa dell’intento legislativo di reprimere, con essa, fatti di minore gravità, sul piano del disvalore di condotta, rispetto a quelli attinti dalla norma principale;

che appare dunque evidente — alla luce tanto del dato normativo, quanto della ratio legis — come l’art. 316-ter cod. pen. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall’art. 640-bis cod. pen., "coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento — per difetto — del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese", quale delineata dall’art. 1 della Convenzione: margini la cui concreta entità — correlata alle più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all’elemento degli "artifizi o raggiri", in qualunque forma realizzati, sia al requisito dell’induzione in errore — spetta all’interprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio;

che, in altre parole, rientra nell’ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall’art. 316-ter cod. pen. integri anche la figura descritta dall’art. 640-bis cod. pen., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest’ultima previsione punitiva;

che — nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e residuale della norma impugnata — è ben vero che l’art. 316-ter cod. pen. si presta, nell’intenzione del legislatore, a reprimere taluni comportamenti che, se posti in essere in danno di soggetti privati — o anche di soggetti pubblici, quando non si discuta dell’indebita erogazione di sovvenzioni — restano privi di sanzione: ma ciò senza che ne derivi affatto la lesione dell’art. 3 Cost. ventilata dal rimettente, posto che — come correttamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato — la previsione di una tutela penale rafforzata, anche quanto ad ampiezza, delle finanze pubbliche e comunitarie contro le frodi, rispetto alla generalità degli altri interessi patrimoniali, costituisce ragionevole esercizio di discrezionalità legislativa, tenuto conto della specialità dell’interesse offeso, nonché del carattere "minore" delle violazioni di cui si discute (evidenziato anche dall’applicazione di una semplice sanzione amministrativa al sotto di una certa soglia), rispetto a quelle integrative del delitto di truffa;

che, alla luce di quanto precede, resta ovviamente esclusa anche l’ipotizzata violazione dell’art. 10 Cost.; e ciò a prescindere da ogni possibile rilievo circa la pertinenza del parametro evocato e dalla circostanza che la Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee non imponeva agli Stati membri — come il giudice a quo sembra supporre — un inasprimento delle sanzioni penali anteriormente previste per le violazioni in parola, ma solo la comminatoria di sanzioni rispondenti ai requisiti stabiliti all’art. 2 della Convenzione stessa: requisiti il cui rispetto, da parte della legislazione nazionale, il rimettente non pone affatto in discussione;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 316-ter del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 10 della Costituzione, dalla Corte di appello di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2004.