Ordinanza n. 244/2003

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ORDINANZA N.244

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Riccardo CHIEPPA, Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Giovanni Maria FLICK                    

- Francesco AMIRANTE                   

- Ugo DE SIERVO                 

- Romano VACCARELLA                

- Paolo MADDALENA                     

- Alfio FINOCCHIARO                    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), promossi con due ordinanze dell’11 e del 16 ottobre del 2002 dal Tribunale di Torino, iscritte rispettivamente al n. 555 e al n. 577 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1 e n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, con ordinanza in data 11 ottobre 2002, il Tribunale di Torino, chiamato a decidere sull’appello presentato da un imputato avverso l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo tribunale aveva respinto la richiesta di declaratoria di inefficacia della misura cautelare in atto per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, ha sollevato, in riferimento all’articolo 13, ultimo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale [come modificato dall’art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa)], "nella parte in cui, per l’ipotesi di una pluralità di ordinanze restrittive per fatti diversi, è prevista la decorrenza del termine massimo della custodia cautelare, per tutti i reati in rapporto di connessione qualificata, a far tempo dalla data della contestazione più remota, esclusivamente nei casi in cui la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di successiva contestazione non risultasse dagli atti all’epoca del primo provvedimento; o nella parte, almeno, in cui viene richiesta, ai fini della diversificazione dei termini di decorrenza, la verifica positiva di tempestività delle nuove contestazioni cautelari anche fuori dei casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di più remota contestazione";

che il remittente premette in fatto che l’ordinanza della quale è stata chiesta la dichiarazione di inefficacia è stata emessa in data 26 giugno 2002 in relazione al reato di cui agli artt. 110 del codice penale e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), e che nei confronti del medesimo indagato era stata disposta, in relazione al reato di rapina, altra misura cautelare in data 27 novembre 1999;

che la richiesta di dichiarazione di inefficacia della misura cautelare, osserva il giudice a quo, era motivata sulla base del rilievo che tutti gli elementi posti a fondamento della stessa erano noti al pubblico ministero sin da prima della celebrazione del giudizio per il reato di rapina, per il quale l’imputato aveva riportato condanna, ed era stata respinta dal GIP perché gli indizi del concorso esterno nell’associazione a delinquere finalizzata al commercio internazionale di sostanza stupefacente erano emersi solo successivamente all’arresto in flagranza per il reato di rapina, sicché, prima di quel momento, l’autorità giudiziaria non era in grado di formulare a carico dell’imputato l’ipotesi di reato poi contestata con il provvedimento restrittivo del 26 giugno 2002;

che in proposito il tribunale, tenuto conto del fatto che gli indizi relativi al secondo reato si desumevano dalle intercettazioni di conversazioni effettuate prima della emissione della ordinanza cautelare del 1999, ma trascritte successivamente e in ogni caso prima del rinvio a giudizio per il reato di rapina, sostiene che, poiché i fatti contestati con l’ordinanza cautelare del 2002 erano già desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio, dovrebbe trovare applicazione "la prima parte dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.", che prevede, in tale ipotesi, la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza dei termini di durata massima della misura cautelare al giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza, con la conseguenza che, nel caso di specie, i termini sarebbero già decorsi, dovendosi computare il termine dalla data del 27 novembre 1999;

che ciò precisato in fatto, il remittente rileva che l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nella sua formulazione attuale, oltre a prevedere che la retrodatazione dei termini di custodia cautelare si ha non soltanto nei casi di ordinanze relative allo stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ma anche nel caso di fatti diversi, quando sussista connessione ai sensi dell’art. 12, lettere b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, purché i fatti diversi siano stati commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza, stabilisce altresì che la disposizione stessa non si applica quando i fatti diversi non erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per i reati rispetto ai quali sussiste il prescritto rapporto di connessione;

che il giudice a quo ricorda che questa Corte, con sentenza n. 89 del 1996, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede il medesimo regime della decorrenza della seconda misura sia nell’ipotesi di artificioso ritardo della nuova contestazione cautelare, sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato tempestivo in relazione al momento in cui il fatto è stato accertato;

che, ad avviso del remittente, dalla motivazione della sentenza della Corte costituzionale emergerebbe che il nuovo testo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. mostra l’intendimento del legislatore di stabilire - anche nel caso di distinte ordinanze relative a fatti diversi, limitatamente alle situazioni di connessione qualificata ivi indicate – la regola della comune decorrenza dalla prima ordinanza dei termini di durata delle misure applicate, e ciò senza attribuire alcun peso alla circostanza che, a quell’epoca, tali fatti fossero già noti al pubblico ministero in tutti i loro elementi rilevanti a livello cautelare ovvero gli fossero sconosciuti;

che tuttavia, osserva il giudice a quo, in relazione a tale soluzione, in base alla quale deve escludersi qualsiasi margine di valutazione circa la tempestiva richiesta da parte del pubblico ministero delle misure cautelari successive alla prima, con riferimento ai predetti fatti diversi, sarebbero state formulate riserve, soprattutto per quel che riguarda la congruità, in chiave di ragionevolezza, della regola come desunta dall’art. 297, comma 3, in particolare perché questa disposizione, così interpretata, non distinguendo a seconda della tempestività o meno dell’iniziativa del pubblico ministero in ordine alle misure cautelari successive alla prima, ancorché per fatti diversi, finirebbe per introdurre una sorta di presunzione assoluta di indebito prolungamento della custodia cautelare, sulla scorta di un meccanismo che non lascerebbe spazio ad alcun apprezzamento circa la sussistenza di una colpevole inerzia o di un artificioso ritardo del pubblico ministero nel richiedere la misura cautelare per il fatto diverso connesso a quello anteriormente contestato;

che in altri termini, prosegue il remittente, un meccanismo processuale, quale quello previsto dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., risulterebbe del tutto ragionevole soltanto quando si verificassero situazioni di differimento contra legem, dovute ad inerzie o ritardi o ad altre improprie dilazioni nell’iniziativa del pubblico ministero in ordine all’adozione di provvedimenti cautelari tutti immediatamente azionabili, mentre in assenza di tali presupposti fattuali il medesimo meccanismo apparirebbe del tutto privo di ragionevolezza, in quanto l’alterazione (in chiave di retrodatazione del dies a quo di decorrenza) degli ordinari criteri di computo dei termini delle diverse misure, quali risultano dai commi 1 e 2 dell’art. 297 cod. proc. pen., non troverebbe giustificazione nella esigenza di controbilanciare il rischio di un surrettizio svuotamento della garanzia rappresentata dalla definizione per legge dei termini massimi di durata delle misure cautelari;

che tale orientamento interpretativo, osserva il remittente, si sarebbe definitivamente consolidato con la pronuncia delle sezioni unite 17 luglio 1997, Atene, la quale ha risolto in senso positivo il contrasto insorto sulla effettiva possibilità di estendere, alla luce della novella del 1995, il già esistente regime derogatorio del principio generale di autonomia delle ordinanze cautelari a situazioni cautelari afferenti a procedimenti diversi, utilizzando il riferimento alla desumibilità dagli atti non già come espressione del criterio ispiratore della norma, ma quale fondamentale e oggettivo parametro cui ancorare, al di là di valutazioni di tipo soggettivistico, l’operatività dell’istituto;

che, ad avviso del Tribunale di Torino, il criterio della desumibilità dagli atti, concretamente ed efficacemente adottabile in un contesto processuale caratterizzato dalla intervenuta conclusione delle indagini preliminari relative al fatto o ai fatti oggetto della originaria contestazione cautelare (vertendosi in tale ipotesi in una situazione processuale ormai cristallizzata e integralmente conoscibile dalle parti), comporterebbe invece obiettive e insuperabili difficoltà ove riferito ad una ipotesi, quale quella delineata nella prima parte del comma 3, che inerisce ad una situazione processuale in divenire, non integralmente conoscibile dalle parti ed essenzialmente sottoposta, per quanto attiene alle possibili implicazioni di ordine indiziario, ad una insindacabile valutazione dell’organo inquirente, unico dominus delle scelte investigative di segno accusatorio concretamente prospettabili;

che, infatti, prosegue sul punto il remittente, la desumibilità dagli atti di ipotesi delittuose ulteriori rispetto a quelle per le quali si sta procedendo costituirebbe, in molti casi, il frutto di una elaborazione logico-deduttiva svolta dall’organo inquirente sulla base di una valutazione squisitamente soggettiva e non efficacemente apprezzabile a posteriori in termini di obiettiva e inoppugnabile evidenza, e ciò senza considerare che l’impiego di tale criterio diverrebbe ancor più complesso perché, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, non è sufficiente che entro i limiti temporali di cui al primo e al secondo periodo del comma 3 dell’art. 297 cod. proc. pen. sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia o il fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sin dall’epoca della emissione della prima ordinanza cautelare (ovvero dall’epoca del rinvio a giudizio: art. 297, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen.);

che, ad avviso del giudice a quo, la interpretazione sopra richiamata si discosterebbe nettamente dall’orientamento seguito dalla Corte costituzionale nella sentenza 28 marzo 1996, n. 89, in quanto "attribuire alla norma in esame un implicito richiamo – anche fuori dei casi in cui sia intervenuto un provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di una più remota contestazione – alla tardività della contestazione cautelare più recente quale presupposto imprescindibile per la retrodatazione dei termini di durata massima della misura, comporta, in assenza di parametri normativamente predeterminati, una situazione di incertezza in ordine alla data di decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate successivamente per fatti in rapporto di connessione qualificata rispetto a quelli di più remota contestazione, con conseguente indeterminatezza della durata complessiva delle misure stesse";

che la disposizione censurata si porrebbe quindi in contrasto con l’art. 13, ultimo comma, Cost., il quale, nel riservare alla legge la determinazione dei limiti massimi alla carcerazione preventiva, "demanda al legislatore non soltanto la scelta dei criteri di computo della durata massima della custodia cautelare, ma anche la impostazione di tali criteri secondo schemi operativi atti a precludere qualsivoglia margine di incertezza e discrezionalità in sede applicativa, sgombrando il campo da scomode e pericolose interferenze con ambiti endoprocedimentali governati da scelte discrezionali di taluna delle parti ed ancorando gli ambiti di decorrenza ad eventi endoprocessuali assolutamente certi ed obiettivi";

che, quanto alla rilevanza, il remittente osserva che, "in applicazione della legge vigente così come sopra interpretata, non dovrebbe essere riconosciuta ex art. 303 cod. proc. pen. l’inefficacia sopravvenuta della misura cautelare in corso di esecuzione";

che, con altra ordinanza in data 16 ottobre 2002, il Tribunale di Torino ha sollevato la medesima questione nel corso del procedimento avente ad oggetto l’appello di un imputato avverso l’ordinanza con la quale il GIP presso il medesimo tribunale aveva rigettato la richiesta di dichiarazione di inefficacia della misura cautelare applicata nei suoi confronti in data 26 giugno 2002, in relazione ai reati di cui agli artt. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e 110 cod. pen., 73 e 80 del medesimo d.P.R., per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare;

che il tribunale premette che il soggetto era stato arrestato il 27 novembre 1999 per il concorso nei reati di detenzione e porto di un’arma, di rapina e di lesioni e che dalle conversazioni telefoniche intercettate, comunicate al pubblico ministero dopo l’arresto, emergevano indizi di colpevolezza in ordine al reato di associazione criminale dedita al traffico di sostanza stupefacente;

che, riferisce il remittente, con sentenza in data 22 novembre 2000, l’imputato era stato condannato per i reati di porto e ricettazione dell’arma, mentre in relazione alle altre imputazioni era stata emessa una pronuncia di non luogo a procedere, e che nei suoi confronti, per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere in data 26 giugno 2002;

che, prosegue il giudice a quo, la richiesta di dichiarazione di inefficacia della misura per decorrenza dei termini – formulata in applicazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sul presupposto che tutti gli elementi sui quali si fondava la seconda ordinanza cautelare erano noti al pubblico ministero anteriormente al rinvio a giudizio per il reato di porto e ricettazione di un’arma - , era stata rigettata dal GIP sulla base del rilievo che, prima della emissione del primo provvedimento cautelare avrebbero dovuto sussistere i presupposti legittimanti l’emissione del secondo provvedimento;

che, ad avviso del tribunale, poiché i fatti ai quali si riferiva l’ordinanza cautelare della quale era stata richiesta la dichiarazione di inefficacia per decorrenza dei termini massimi erano già desumibili dagli atti, dovrebbe trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., con la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza dei termini massimi della misura cautelare al giorno in cui era stata eseguita o notificata la prima ordinanza, sicché i termini dovrebbero ritenersi già decorsi;

che, sulla base di tali premesse in fatto, il Tribunale di Torino, con provvedimento di tenore identico al precedente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nei medesimi termini già riportati;

che ha spiegato intervento in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile;

che, ad avviso della difesa erariale, il Tribunale di Torino, nella sostanza, ritiene che la valutazione ex ante (cioè, da parte del P.M.) della desumibilità dagli atti, prima del rinvio a giudizio, del fatto ragione dell’ordinanza custodiale, non potrebbe essere condotta con criteri oggettivi, dipendendo anche dalla soggettività dell’organo procedente e dalla complessità degli accertamenti (anche nel loro divenire), con conseguente incertezza, nella fattispecie, dei limiti massimi della carcerazione preventiva;

che, per come posta, secondo l’Avvocatura, la questione sarebbe inammissibile, in quanto il remittente, incentrando la questione sulla desumibilità o meno dagli atti, da parte del pubblico ministero, dei fatti oggetto dell’ordinanza custodiale, finisce per demandare alla Corte l’interpretazione della fattispecie concreta dei giudizi a quibus: se cioè quei fatti fossero o meno desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio, dimenticando che è proprio il giudice del merito a dover valutare se il fatto sia desumibile dagli atti prima del rinvio a giudizio;

che non a caso, conclude l’Avvocatura, il remittente chiede che vengano fissati i criteri applicativi della norma denunciata secondo schemi operativi atti a precludere qualsivoglia margine di incertezza e di discrezionalità in sede applicativa, sgombrando il campo da scomode e pericolose interferenze con ambiti endoprocedimentali governati da scelte discrezionali di taluna delle parti ed ancorando gli ambiti di decorrenza ad eventi endoprocessuali assolutamente certi ed obiettivi.

Considerato che le due ordinanze del Tribunale di Torino pongono la medesima questione di legittimità costituzionale, sicché i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che la questione di legittimità costituzionale concerne l’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale [come modificato dall’articolo 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa)], il quale, "nella parte in cui, per l’ipotesi di una pluralità di ordinanze restrittive per fatti diversi, prevede la decorrenza del termine massimo della custodia cautelare, per tutti i reati in rapporto di connessione qualificata, a far tempo dalla data della contestazione più remota, esclusivamente nei casi in cui la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di successiva contestazione non risultasse dagli atti all’epoca del primo provvedimento; o nella parte, almeno, in cui viene richiesta, ai fini della diversificazione dei termini di decorrenza, la verifica positiva di tempestività delle nuove contestazioni cautelari anche fuori dei casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di più remota contestazione", violerebbe l’art. 13, ultimo comma, della Costituzione, perché determinerebbe una situazione di incertezza in ordine alla data di decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate successivamente per fatti in rapporto di connessione qualificata, rispetto a quelli di più remota contestazione;

che la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile per diverse e concorrenti ragioni;

che, in primo luogo, dalla formulazione di entrambi i dispositivi delle ordinanze di rimessione emerge che l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. viene censurato in quanto, per l’ipotesi di una pluralità di ordinanze restrittive per fatti diversi in rapporto di connessione qualificata, prevederebbe la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare dalla data di contestazione più remota "esclusivamente" nei casi in cui la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di successiva contestazione "non" risultasse dagli atti all’epoca;

che, forse per un errore imputabile alla trascrizione, si censura una norma che non si ricava dal tenore letterale dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., il quale prevede che la retrodatazione della decorrenza dei termini relativi alla successiva ordinanza al momento di emissione della prima, "non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma";

che analogamente, per quanto riguarda la questione proposta in via subordinata, l’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., viene censurato attribuendogli una portata prescrittiva che la disposizione non possiede, giacché si assume che esso richieda "la verifica positiva di tempestività delle nuove contestazioni cautelari anche fuori dei casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di più remota contestazione";

che per superare i dubbi circa l’esatta consistenza del quesito si potrebbe ipotizzare che, essendo il dispositivo delle ordinanze in esame modulato alla stregua di quello della ordinanza che ha introdotto il giudizio di legittimità costituzionale deciso con la sentenza n. 89 del 1996, il Tribunale di Torino abbia voluto riproporre, nella sostanza, la medesima questione, e in questo senso potrebbero essere lette le critiche che a quella sentenza vengono mosse;

che tuttavia a chiarire l’intendimento del remittente non soccorrono le argomentazioni della parte motiva delle ordinanze, nelle quali, per un verso, ci si duole del fatto che la non desumibilità dagli atti della più recente contestazione, prima che sia intervenuto il provvedimento di rinvio a giudizio, non sarebbe di facile accertamento in quanto, in molti casi, sarebbero necessarie complesse valutazioni, non riducibili alla mera rilevazione di una notitia criminis, per poter pervenire alla richiesta della misura cautelare; per altro verso, si invoca l’esigenza di certezza del termine massimo di custodia cautelare a garanzia della effettività della prescrizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 13 Cost.; certezza che non può aversi, o comunque è contraddittorio invocare, quando si intenda valorizzare la complessità di quegli accertamenti ai fini della desumibilità o meno dagli atti, poiché in questa prospettiva l’incertezza deriverebbe proprio dal fatto di dover distinguere i casi di intempestività della contestazione dovuti a inerzia o trascuratezza da quelli derivanti dall’obiettiva difficoltà delle indagini;

che se invece, nonostante le evidenziate incertezze e contraddizioni nella motivazione, il remittente avesse inteso ribadire l’enunciazione della sentenza n. 89 del 1996, ispirata all’esigenza di certezza dei termini di custodia cautelare (come porterebbe a ritenere la circostanza che sia formalmente evocato a parametro il solo ultimo comma dell’art. 13 della Costituzione), a fronte di temperamenti operati dalla giurisprudenza di legittimità, di cui si riferisce nella motivazione stessa, non vi sarebbe stata alcuna necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale, giacché l’interpretazione della legge in conformità alla Costituzione non è certo preclusa ai giudici comuni;

che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

La Corte costituzionale

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), sollevata, in riferimento all’articolo 13, ultimo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2003.