Ordinanza n. 130/2003

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N.130

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Riccardo                                      CHIEPPA                                    Presidente

-    Gustavo                                       ZAGREBELSKY                          Giudice

-    Valerio                                        ONIDA                                               "

-    Carlo                                           MEZZANOTTE                                  "

-    Guido                                          NEPPI MODONA                              "

- Piero Alberto                                 CAPOTOSTI                                       "

-    Annibale                                      MARINI                                              "

-    Franco                                         BILE                                                    "

-    Giovanni Maria                           FLICK                                                 "

- Ugo                                                DE SIERVO                                       "

- Romano                                         VACCARELLA                                 "

- Paolo                                              MADDALENA                                  "

- Alfio                                              FINOCCHIARO                                “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 284, comma 5-bis, codice di procedura penale promosso con ordinanza del 1° marzo 2002 dal Tribunale di Palermo sulla richiesta proposta da C.M., iscritta al n. 371 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che il Tribunale di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 284, comma 5-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente al giudice di applicare la misura degli arresti domiciliari - ancorché ritenga tale misura adeguata a prevenire la reiterazione del reato e, comunque, reputi la misura stessa proporzionata all’entità del fatto - "al solo ricorrere di precedenti penali per il reato di evasione...obbligandolo ad infliggere la custodia cautelare in carcere";

che il Tribunale rimettente premette, in fatto, di essere chiamato a decidere su una richiesta di riesame, proposta a norma dell’art. 309 cod. proc. pen., dal difensore di un’indagata alla quale, per il delitto di furto aggravato, era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere; che, in particolare, nel proporre l’impugnazione cautelare, la difesa non aveva contestato il fumus commissi delicti e neppure la sussistenza di esigenze cautelari, ma aveva dedotto, tuttavia, la violazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza nella scelta della misura in ragione della obbligatoria applicazione dell’art. 284, comma 5-bis cod. proc. pen., imposta dall’esistenza di precedenti penali per il reato di evasione: ciò, pur in presenza di esigenze di salute dell’indagata, tossicodipendente ed affetta da HIV; circostanze tutte che, a parere del difensore, valevano ad integrare la lesione di più principi costituzionali;

che, nel merito, il Tribunale rimettente, condividendo l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dalla difesa, ritiene che la norma censurata sia in contrasto con il principio di ragionevolezza anzitutto in quanto - determinando l’applicazione di una misura coercitiva sproporzionata rispetto alla gravità della condotta ed al suo trattamento sanzionatorio - comporterebbe una limitazione della libertà personale dell’imputato non bilanciata da una ragionevole giustificazione; inoltre – poiché la norma impugnata non delimita in alcun modo i titoli di reato in ordine ai quali dovrebbe trovare applicazione il contestato "regime presuntivo" - in quanto verrebbero ad essere equiparate situazioni fra loro profondamente diverse, mentre il giudice sarebbe costretto a scegliere "fra l’applicazione di una misura idonea, ma sproporzionata...e l’applicazione di una misura inidonea, ma proporzionata (come avverrebbe se, per superare il divieto legale, si applicassero all’imputata obblighi non custodiali...)";

che la norma oggetto di impugnativa si porrebbe in contrasto altresì con l’art. 13 della Carta fondamentale, in quanto la garanzia della riserva di giurisdizione in materia di libertà personale ivi prescritta dovrebbe comportare anche che, "nella concreta applicazione della disciplina legislativa che regola le restrizioni dello status libertatis, si compia una valutazione relativa all’accertamento della effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti le restrizioni medesime": ciò che non si realizzerebbe allorquando, come stabilisce la disposizione censurata, il giudice, pur riconoscendo l’insussistenza di un motivo reale e concreto per disporre la massima forma di restrizione della libertà personale, sia tuttavia obbligato dalla legge a disporla;

che, infine la norma stessa si porrebbe in contrasto anche con l’art. 32 Cost., poiché la presunzione legale in essa espressa, "dovrebbe assumere valore assoluto – in quanto non derogata da norme speciali – anche nell’ipotesi in cui il divieto di arresti domiciliari...comporti l’applicazione della misura carceraria a chi è in condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo, senza che peraltro sussistano esigenze di cautela (che il giudice non può evidentemente apprezzare) tali da imporre tale sacrificio";

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Considerato che il giudice a quo denuncia la illegittimità dell’art. 284, comma 5-bis, del codice di procedura penale, il quale stabilisce che non possono comunque essere concessi gli arresti domiciliari nei confronti della persona che sia stata condannata per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede: disposizione, questa, dapprima introdotta – con diversa formulazione – dall’art. 16 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, e poi così sostituita ad opera dell’art. 5 della legge 26 marzo 2001, n. 128;

che al fondo della scelta legislativa di rigore sta l’evidente intento di precludere l’applicazione della misura gradata nei confronti di chi si sia reso responsabile di una condotta delittuosa, che presenta connotazioni confliggenti rispetto alla prognosi di osservanza della più tipica fra le prescrizioni inerenti la misura degli arresti domiciliari, quale è appunto quella di non allontanarsi, senza autorizzazione, dal luogo degli arresti;

che la disposizione censurata si iscrive in una prospettiva analoga a quella della previsione coeva dell’art. 276, comma 1-ter, cod. proc. pen., introdotto dal già citato art. 16 del d.l. n. 341 del 2000, la quale stabilisce che, in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari "concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere"; previsione, quest’ultima, che questa Corte ha già avuto modo di scrutinare positivamente, rilevando come la stessa integri un caso di presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere, una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione del suo contenuto essenziale (v. ordinanza n. 40 del 2002);

che, al riguardo, questa Corte ha in più occasioni avuto modo di affermare che - mentre la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l’an della cautela) comporta, per definizione, l’accertamento,di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza - non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l’apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della cautela): ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti (v. le pronunce richiamate nella già citata ordinanza n. 40 del 2002);

che, di conseguenza, la previsione oggetto di impugnativa – precludendo il ricorso alla misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dell’imputato che in passato abbia tenuto una condotta volontaria (l’evasione), direttamente contrastante con gli obblighi specifici caratterizzanti la misura in questione - non può ritenersi irragionevole in sé, sotto i vari profili additati dal giudice a quo;

che tale previsione non può ritenersi neppure in contrasto con il principio dell’art. 13 della Costituzione, posto che neanche sotto tale aspetto si può disconoscere al legislatore la facoltà di vincolare, con scelte non irragionevoli, il potere in concreto del giudice di adottare una specifica misura cautelare, fra quelle previste dalla legge;

che nessuna limitazione subisce, infine, il diritto alla salute, avuto riguardo alla particolare e composita disciplina proposta in materia dall’art. 275 cod. proc. pen., il quale - nel regolare in via di principio i criteri di scelta delle misure, nei commi 4- bis, 4-ter, 4-quater e 4-quinquies, - delinea un "sistema" cautelare specifico nei confronti delle persone che versino in condizioni di salute particolarmente gravi, predisponendo un regime di particolare dettaglio per quanti siano affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, al fine di pervenire ad un articolato bilanciamento fra le plurime esigenze coinvolte e le misure applicabili nella specie; cosicché, configurandosi tale peculiare normativa come disciplina speciale per quelle categorie di soggetti, essa è certamente destinata a prevalere rispetto alla previsione dettata dalla norma oggetto di impugnativa;

che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 284, comma 5-bis, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 32 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2003.