Ordinanza n. 483/2002

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ORDINANZA N. 483

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Riccardo                     CHIEPPA                       Presidente

- Gustavo                      ZAGREBELSKY             Giudice

- Valerio                        ONIDA                                  "

- Carlo                           MEZZANOTTE                    "

- Fernanda                     CONTRI                                "

- Guido                         NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto             CAPOTOSTI                                     "

- Annibale                     MARINI                                "

- Franco                         BILE                                      "

- Giovanni Maria          FLICK                                               "

- Francesco                    AMIRANTE                          "

- Ugo                             DE SIERVO                          "

- Romano                      VACCARELLA                   "

- Paolo                          MADDALENA                     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 146-bis e 147-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Gela con ordinanza del 16 ottobre 2001, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2002.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2002 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Gela, su eccezione della difesa, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 146-bis e 147-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, <<nella parte in cui non prevedono la partecipazione al dibattimento a distanza per gli imputati nello stesso processo che collaborano con la giustizia qualora si proceda per taluno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e l’imputato non si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere>>;

che il rimettente premette che uno degli imputati, collaboratore di giustizia sottoposto a speciale programma di protezione, risultava assente all’udienza <<perché rinunciante>> e che nei suoi confronti era stato disposto l’<<accompagnamento>> in quanto, in base al <<combinato disposto degli artt. 146-bis e 147-bis disp. att. cod. proc. pen.>>, la partecipazione al dibattimento a distanza per coloro che collaborano con la giustizia è consentita solo nel caso in cui gli stessi si trovino, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere ovvero nel caso in cui sia disposto il loro esame come imputati nel medesimo processo;

che il giudice a quo osserva che l’art. 146-bis, comma 1, lettera a), disp. att. cod. proc. pen. si inquadra <<in un sistema di norme che mirano a garantire la sicurezza dell’imputato e il presidio di ordine pubblico che potrebbe essere gravemente compromesso da traduzioni di soggetti pericolosi e/o a rischio>> e <<trova corrispondenza>>, con riferimento agli imputati che collaborano con la giustizia, nell’art. 147-bis disp. att. cod. proc. pen., ove sono appunto previste particolari misure di cautela per l’esame di tali soggetti in dibattimento, fra le quali il collegamento audiovisivo;

che, a fronte di tale <<sistema di norme>>, il rimettente lamenta che non sia consentito disporre la partecipazione al dibattimento a distanza del collaboratore di giustizia anche quando egli non si trovi in stato di detenzione in carcere, ravvisando in tale preclusione la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.;

che la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con il diritto di difesa, con il principio del giusto processo e con quello di eguaglianza, in quanto il collaboratore di giustizia che non sia in stato di detenzione in carcere <<si trova a dovere scegliere fra due diritti fondamentali, quali quello, da una parte, di difendersi partecipando al dibattimento in condizioni di parità con le altre parti, anche al fine di garantire il contraddittorio fra le stesse e, dall’altra, quello di non esporre sé medesimo a situazioni che potrebbero gravemente mettere in pericolo la propria incolumità fisica>> ;

che in particolare, in riferimento alla lesione del principio di eguaglianza, il rimettente evidenzia l’irragionevolezza del diverso trattamento riservato a questi soggetti rispetto ad altri - quali <<gli imputati nello stesso processo che collaborano con la giustizia e che sono detenuti in carcere, ovvero quelli che partecipano al dibattimento ex art. 210 cod. proc. pen. ovvero come testimoni>> - che versano in <<situazioni sostanzialmente analoghe>> e ai quali vengono garantiti i <<diritti fondamentali sopra richiamati>>;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

che ad avviso dell’Avvocatura il sistema processuale non riconosce all’imputato detenuto per determinati reati di particolare gravità un diritto senza limiti di essere esaminato con il sistema della videoconferenza, in quanto il ricorso a tale strumento è ispirato non solo dalle esigenze di tutela della sicurezza della persona che deve essere sentita, ma anche, e soprattutto, dal fine di evitare forme di paralisi dell’attività processuale che possano insorgere in relazione alle difficoltà di spostamento di detenuti per gravi reati, tenuto conto anche della concomitanza degli impegni conseguenti alla celebrazione nello stesso periodo di una pluralità di processi.

Considerato che il rimettente censura gli artt. 146-bis e 147-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, lamentando che l'istituto della partecipazione al dibattimento a distanza, disciplinato dall'art. 146-bis, non sia applicabile anche all'imputato collaboratore di giustizia sottoposto a speciale programma di protezione, nei cui confronti si procede per uno dei reati di cui all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., che non si trovi a qualsiasi titolo in stato di detenzione in carcere;

che ad avviso del rimettente tale omissione si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, in quanto nella situazione considerata il collaboratore di giustizia sarebbe costretto a scegliere tra l'esercizio del diritto di difesa mediante la partecipazione personale al dibattimento, in condizioni di parità e in contraddittorio con le altre parti, e il diritto di non essere esposto, nella sua qualità di collaboratore di giustizia sottoposto a speciale programma di protezione, a grave pericolo per la propria incolumità;

che il rimettente ravvisa in particolare la violazione del principio di eguaglianza nel fatto che tali <<diritti fondamentali>> vengono assicurati ad altri soggetti <<che versano in situazioni analoghe>>, come gli imputati nello stesso processo che collaborano con la giustizia e che si trovano in stato di detenzione in carcere e quelli nei confronti dei quali è disposto l’esame a distanza a norma dell’art. 147-bis disp. att. cod. proc. pen.;

che il giudice a quo, movendo dal presupposto che il menzionato art. 146-bis <<si inquadra in un sistema di norme che mirano a garantire la sicurezza dell'imputato e il presidio di ordine pubblico che potrebbe essere gravemente compromesso da traduzioni di soggetti pericolosi e/o a rischio>>, omologa i due istituti della partecipazione al dibattimento a distanza e dell'esame a distanza ex art. 147-bis disp. att. cod. proc. pen. sotto il profilo delle medesime finalità che sarebbero da entrambi perseguite;

che la ricostruzione prospettata dal rimettente non trova riscontro nell'origine storica, nei contenuti e nei rapporti sistematici tra le due disposizioni prese in considerazione;

che l'istituto dell'esame a distanza è stato introdotto nell'ordinamento dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356, per le persone ammesse a programmi o misure di protezione con la espressa finalità di assicurare, indipendentemente dallo stato detentivo del dichiarante, le "cautele necessarie alla tutela della persona sottoposta all'esame"; finalità che continua ad essere presente nelle successive modifiche legislative che hanno ampliato la sfera di applicazione dell'istituto;

che la partecipazione al dibattimento a distanza, prevista per la prima volta nell'ordinamento dalla legge 7 gennaio 1998, n. 11, è invece sorretta - come emerge con particolare chiarezza dall'elenco dei casi che ne giustificano il ricorso e dalla Relazione al disegno di legge poi sfociato nella legge n. 11 del 1998 - dalle preminenti esigenze: a) di fronteggiare le "gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico" connesse alla posizione di imputati detenuti capaci di esercitare intimidazioni nei confronti degli altri partecipanti al processo e di inquinare le fonti di prova; b) di evitare che la traduzione dagli stabilimenti carcerari alle sedi giudiziarie in cui si celebrano i relativi dibattimenti consenta collegamenti con le associazioni criminali di provenienza, così vanificando l’efficacia dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento ex art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario; c) di accelerare la celebrazione di dibattimenti di particolare complessità e durata, sovente in corso contemporaneamente in diverse sedi giudiziarie (v. anche sentenza n. 342 del 1999, par. 2 del Considerato in diritto);

che, pertanto, mediante la partecipazione al dibattimento a distanza viene assicurato il <<livello minimo di garanzie>> necessario per tutelare il diritto di difesa di imputati detenuti per reati di eccezionale gravità, nei cui confronti il diritto di <<"partecipare", e quindi difendersi, per tutto l’arco del dibattimento>> (sentenza n. 342 del 1999) va contemperato con le esigenze di sicurezza della collettività e dell’ordinato svolgimento dei processi;

che l'esame a distanza è invece finalizzato a porre il collaboratore di giustizia nelle condizioni di assolvere all’impegno - assunto all'atto della sottoscrizione delle speciali misure di protezione di cui all'art. 12, comma 2, lettera b), del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni nella legge 15 marzo 1991, n. 82, quale risulta a seguito delle modifiche o sostituzioni operate dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45, - di "sottoporsi a interrogatori, a esame o ad altro atto di indagine", in modo che sia assicurata l'incolumità fisica e la libertà morale del dichiarante e siano prevenute eventuali forme di intimidazione che potrebbero inquinare la genuinità della prova;

che i due istituti, contrariamente a quanto ritiene il rimettente, non sono dunque assimilabili, ma rispondono a differenti finalità, sì che risulta impossibile e fuorviante estendere la sfera di applicazione dell'art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. a situazioni diverse da quelle ivi tassativamente previste;

che, infine, l'intervento additivo prospettato dal rimettente si fonda sul presupposto che la disciplina dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. sia strumento indispensabile per la tutela dell’incolumità personale del collaboratore di giustizia sottoposto a speciale programma di protezione, così da consentirgli il pieno esercizio del diritto di difesa, ma il giudice a quo trascura di considerare che tale esigenza può e deve essere assicurata, anche per quanto riguarda la partecipazione alle udienze, ricorrendo a forme e modalità peculiari, affidate all’autorità a ciò preposta, che vi provvede, tenendo conto della concreta situazione di pericolo e del ruolo processuale di tale soggetto, attraverso l’adozione delle speciali misure di protezione previste dagli artt. 12 e 13 del decreto-legge n. 8 del 1991, così come modificati dalla legge n. 45 del 2001;

che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata in riferimento a tutti i parametri evocati dal rimettente.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 146-bis e 147-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Gela, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2002.