Ordinanza n. 296/2002

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ORDINANZA N.296

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Massimo VARI, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 242 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) promosso con ordinanza emessa il 13 luglio 2001 dalla Corte di assise di Palermo nel procedimento penale a carico di G.A., iscritta al n. 786 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.40, prima serie speciale, dell’anno 2001.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 13 marzo 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 13 luglio 2001, la Corte di assise di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 242 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nella parte in cui prevedono, a date condizioni, che i procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale proseguano, anche dopo le modificazioni apportate all’art. 111 della Costituzione dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, con l’osservanza delle norme vigenti anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale;

  che il rimettente - dopo aver premesso che, in esito ad una pronuncia del 17 febbraio 1998 della Corte di assise d’appello di Palermo, era stata dichiarata la nullità, limitatamente alla posizione di un imputato, della sentenza di un giudizio di primo grado definito applicando le norme del codice di rito del 1930; e che era stata nuovamente disposta la citazione a giudizio di detto imputato dinanzi ad esso rimettente - ha osservato come il dibattimento, così instaurato, debba ritenersi "assoggettato alla disciplina transitoria di cui al titolo III delle norme transitorie del codice di procedura penale, di cui al D.L.vo 28 luglio 1989, n. 271": con conseguente applicazione delle disposizioni del codice abrogato, relativamente alla formazione ed utilizzazione delle prove;

   che in particolare, a parere del giudice a quo, risulterebbe inapplicabile la disciplina transitoria dettata dal decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), convertito, con modificazioni, nella legge 25 febbraio 2000, n. 35: ciò in quanto il comma 2 dell’art. 2 del citato decreto-legge n. 2 del 2000, nel prevedere l’eccezionale utilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si é sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, se già acquisite al fascicolo del dibattimento al momento di entrata in vigore del decreto in questione, non potrebbe applicarsi - se non in via analogica e, dunque, illegittimamente - ai procedimenti che continuano secondo il "vecchio rito" e per i quali non si sia verificata la condizione di una sottrazione volontaria e per libera scelta del dichiarante al confronto con l’accusato;

  che inoltre, sempre ad avviso del rimettente, il regime transitorio del decreto-legge n. 2 del 2000 risulterebbe comunque inapplicabile nel giudizio a quo, essendo previsto (art. 1), quale suo "preciso termine finale di efficacia", quello della "data di entrata in vigore della legge che disciplina l’attuazione dell’art. 111 della Costituzione"; questa disciplina, introdotta con la legge 1° marzo 2001, n. 63, non contempla tuttavia, nella norma transitoria dell’art. 26, "alcuna disposizione riferibile ai procedimenti in corso, che proseguono – o dovrebbero proseguire - secondo il vecchio rito": con l’ impossibilità di desumere, peraltro, "in via interpretativa, una sorta di ultrattività della norma di cui al comma 6 dell’art. 1 del decreto-legge n. 2 del 2000" ;

  che tuttavia, a parere del giudice a quo, proprio la circostanza che "l’unica disciplina transitoria tuttora vigente" sia quella sancita nella normativa censurata, comporta l’applicabilità delle norme processuali in materia di formazione della prova già contenute nel codice del 1930, le quali - consentendo, attraverso il meccanismo delle letture dibattimentali, la piena utilizzabilità di tutte le prove assunte nel corso dell’istruzione formale - determinerebbero la violazione del principio della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti e del diritto dell’imputato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, espressi, entrambi, nell’art. 111 Cost.;

che, sotto analogo profilo, risulterebbero altresì violati gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per la ingiustificata disparità di trattamento tra imputati di procedimenti in corso, in ragione della "prosecuzione in conformità alle norme del codice abrogato per la materia che concerne la formazione e le modalità di assunzione delle prove", con violazione anche del diritto dell’imputato di esercitare il proprio diritto di difesa nel contraddittorio delle parti;

  che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione proposta.

Considerato che le censure prospettate dal rimettente muovono dalla ritenuta inapplicabilità della disciplina transitoria dettata dal decreto-legge 7 gennaio 2000, n.2, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 35, ai procedimenti penali che, a mente degli artt. 242 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989,n. 271, proseguono con l’osservanza delle norme del codice di rito abrogato;

che, tuttavia, tale presupposto ermeneutico appare inesatto, poichè lo stesso legislatore costituzionale ha sancito, nella medesima legge di riforma sul "giusto processo", che "la legge regola l’applicazione dei principi contenuti nella presente legge costituzionale ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore" (art. 2, legge cost. 23 novembre 1999, n. 2): demandando, dunque, al legislatore ordinario l’approntamento di una disciplina transitoria "atta a modulare l’applicazione di quei principi nei processi in corso di celebrazione, secondo una linea tesa chiaramente a tracciare un "ponte" normativo destinato a mitigare una drastica applicazione della regola tempus regit actum" (v. sentenza n. 381 del 2001); e tale disciplina é stata realizzata, appunto, con il citato decreto-legge n. 2 del 2000, il cui art. 1, comma 6, espressamente sancisce l’applicabilità delle disposizioni di cui ai commi precedenti anche "ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente";

che pertanto se, per un verso, appare evidente la riferibilità ai soli processi di "nuovo rito" dello specifico termine, enunciato dal comma 2 dell’art. 1 del più volte citato decreto-legge n.2 del 2000, individuato con il richiamo alla intervenuta acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari; sotto altro profilo, deve sottolinearsi come non possa affatto ritenersi incompatibile, con i procedimenti in corso di celebrazione secondo le norme previste dal codice abrogato, la previsione - ivi enunciata - secondo la quale le dichiarazioni rese da chi si é sempre sottratto al contraddittorio debbano essere valutate "solo se la loro attendibilità é confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità": regola di valutazione probatoria, quella testè rammentata, la cui portata ed il cui risalto questa Corte ha già avuto modo di scrutinare nella richiamata sentenza n. 381 del 2001;

che, per altro verso, neppure pertinente si rivela il richiamo ad una pretesa "ultrattività" della previsione dettata dal comma 6 dell’art. 1 del medesimo d.l. n. 2 del 2000; infatti - in considerazione della profonda diversità che caratterizzava il modello processuale delineato dal codice abrogato - la pendenza dei procedimenti che proseguivano con l’osservanza delle previsioni dettate da quello stesso codice non poteva che produrre una "cristallizzazione" del regime transitorio suddetto, proprio perchè fondato su un unico fascicolo processuale e sulla assenza di una fase delle indagini preliminari: ciò rende dunque evidente che per i procedimenti richiamati dallo stesso comma 6, la relativa disciplina non doveva "combinarsi" con quella di attuazione dell’art. 111 Cost., poi introdotta ad opera della legge n. 63 del 2001;

che, pertanto, la questione proposta, muovendo da un erroneo presupposto interpretativo, é da ritenersi manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 242 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di assise di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.

Massimo VARI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2002.