Sentenza n. 256/2002

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SENTENZA N. 256

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Fernanda CONTRI

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), dell’art. 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, dell’art. 6, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 407 (Disposizioni diverse per l’attuazione della manovra di finanza pubblica 1991–1993), modificato dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 19 giugno 2001 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile tra Esercizi Grandi Alberghi contro Campana Anna, iscritta al n. 804 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visto l’atto di costituzione di Campana Anna;

udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante;

udito l’avvocato Sante Assennato per Campana Anna.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso del giudizio relativo all’impugnazione del licenziamento intimato il 30 giugno 1997 per raggiunti limiti di età ad una lavoratrice che in quella data aveva compiuto il sessantesimo anno e non aveva presentato alcuna istanza di prosecuzione del rapporto, il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 19 giugno 2001, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 37, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del "combinato disposto degli artt. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108, 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, 6, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, modificato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, come modificato dall’art. 11, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, disposizioni che conservano efficacia in via transitoria secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 23, della legge 8 agosto 1995, n. 335".

Il Tribunale remittente, dopo aver precisato che il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso disponendo la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro sul principale rilievo che, essendo all’epoca stabilito per gli uomini il limite di età di sessantatre anni, lo stesso limite doveva valere anche per la lavoratrice ricorrente senza bisogno di alcun adempimento ulteriore, ricorda che questa Corte, con la sentenza n. 498 del 1988, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dei parametri attualmente invocati, l’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui subordinava il diritto delle lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia a proseguire il loro rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali, all’esercizio di una opzione in tal senso da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti. E’ stato, così, ribadito il principio, già affermato nella sentenza n. 137 del 1986, secondo cui l’età lavorativa deve essere uguale per i lavoratori di entrambi i sessi, fermo restando il diritto della donna di conseguire la pensione di vecchiaia ad un’età inferiore a quella stabilita per l’uomo, per poter soddisfare le proprie particolari esigenze.

In ossequio a tale principio il legislatore ha, quindi, stabilito, con l’art. 4 della legge n. 108 del 1990 attualmente impugnato, che il datore di lavoro riacquista la facoltà di recedere ad nutum dal rapporto di lavoro nei confronti dei lavoratori ultrasessantenni – sia uomini che donne – in possesso dei requisiti pensionistici "sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54".

La suddetta disposizione ha, quindi, attribuito ai lavoratori di entrambi i sessi le medesime garanzie di stabilità del rapporto di lavoro ed ha previsto per tutti il medesimo onere di opzione.

Con la normativa sopravvenuta –impugnata in combinazione con la anzidetta disposizione– la situazione é, però, via via mutata così che le lavoratrici si sono nuovamente venute a trovare in una condizione svantaggiata non dissimile da quella che la citata sentenza n. 498 del 1988 ha considerato costituzionalmente illegittima.

Tale processo ha avuto le seguenti tappe: a) l’art. 6 della legge n. 407 del 1990 che ha esteso la facoltà di opzione fino al compimento del sessantaduesimo anno di età anche a coloro che abbiano raggiunto l’anzianità contributiva massima; b) l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 503 del 1992, che, in concomitanza con la modifica dei limiti di pensionabilità fissati da una tabella allegata allo stesso decreto legislativo, ha ulteriormente elevato il suddetto limite di sessantadue anni a sessantacinque anni; c) l’art. 11 della legge n. 724 del 1994 che ha sostituito la menzionata tabella con un’altra analoga ribadendo, con una diversa cadenza temporale, la previsione, rispettivamente per i lavoratori dipendenti di sesso maschile e femminile, di una diversa età pensionabile, gradualmente stabilita per il quinquennio 1995-2000, in età comprese per gli uomini tra i sessanta e i sessantacinque anni e per le donne tra i cinquantacinque e i sessanta anni e quindi determinando per il giugno 1997 (epoca alla quale si riferiscono i fatti di causa) in sessantatre anni l’età lavorativa degli uomini e in cinquantotto anni quella delle donne.

Secondo il remittente, mentre per gli uomini fino al compimento della età indicata non era neppure ipotizzabile una opzione, tenuto conto del fatto che essi prima della suddetta età non potevano essere ammessi a godere del trattamento pensionistico di vecchiaia, per le donne (che hanno continuato a poter beneficiare della pensione di vecchiaia a partire da una età anagrafica inferiore) si é nuovamente posta la necessità di presentare entro termini perentori previsti dalla legge una apposita domanda di prosecuzione del rapporto al fine di ottenere un innalzamento dell’età lavorativa uguale a quello previsto per gli uomini, ancorché non più in applicazione dell’4 della legge n. 903 del 1977 (modificato sul punto dalla citata sentenza n. 498 del 1988), ma facendo riferimento all’art. 6 del d.l. n. 791 del 1981.

Tale situazione renderebbe non manifestamente infondata la sollevata questione.

Infatti, secondo il giudice a quo, non appare irragionevole ritenere che l’art. 4, comma 2, della legge n. 108 del 1990, in combinato disposto con le altre disposizioni impugnate, debba essere interpretato nel senso che esso impone alle lavoratrici l’onere di optare per la prosecuzione del rapporto di lavoro per poter godere, fino al raggiungimento dei crescenti limiti di età previsti nell’arco degli anni tra il 1995 e il 2000, delle medesime garanzie di stabilità riconosciute, senza necessità di provvedere al medesimo adempimento, ai dipendenti di sesso maschile.

Conclude il remittente affermando che la rilevanza della sollevata questione emerge dal fatto che la controversia sub iudice non può essere decisa senza l’applicazione del citato art. 4, comma 2, tenendo conto degli ulteriori interventi legislativi indicati "i quali, pur modificando solo l’individuazione dell’età pensionabile, hanno inciso, sotto il profilo sopra detto, anche sull’età lavorativa".

2.— Nel giudizio davanti alla Corte si é costituita la lavoratrice che ha concluso nel senso di una valenza generale della ratio della citata sentenza n. 498 del 1988, e quindi ribadendo l’esattezza della soluzione interpretativa adottata dal giudice di primo grado. Infatti, una volta affermato dalla Corte il diritto della donna a proseguire il rapporto fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, automaticamente, nella specie, la ricorrente sarebbe stata esonerata dall’opzione stessa, essendo appunto di sessantatre anni l’età pensionabile degli uomini. Diversamente opinando, si osserva, ella sarebbe stata licenziabile non già al compimento del sessantesimo anno di età, ma fin dal compimento del cinquantottesimo anno.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Roma dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), dell’art. 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, dell’art. 6, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 407 (Disposizioni diverse per l’attuazione della manovra di finanza pubblica 1991–1993), modificato dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) –disposizioni che conservano efficacia in via transitoria secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 23, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare)–.

Secondo il giudice remittente dal suindicato complesso di norme risulterebbe che, nel regime transitorio vigente nel periodo 1° gennaio 1997–30 giugno 1998 (periodo in cui ricade il licenziamento oggetto del giudizio a quo) come regolato dal d.lgs. n. 503 del 1992, mentre gli uomini conservavano la stabilità del posto di lavoro fino al compimento del sessantatreesimo anno di età, coincidendo per loro l’età pensionabile con quella lavorativa, le donne, acquistando il diritto alla pensione di vecchiaia al compimento del cinquantottesimo anno di età, potevano continuare a lavorare fino al sessantesimo in virtù dell’art. 4, comma 2, della legge n. 108 del 1990, ma, per poter fruire del prolungamento dell’età lavorativa fino allo stesso limite previsto per gli uomini, erano soggette all’onere dell’opzione di cui all’art. 6 del citato d.l. n. 791 del 1981 e ciò in contrasto con il principio della parità, riguardo all’età lavorativa, tra uomo e donna, ribadito da questa Corte, proprio con riguardo all’illegittimità dell’onere della opzione, con la sentenza n. 498 del 1988.

2.— La questione non é fondata per le considerazioni che seguono.

L’evoluzione legislativa in materia di età pensionabile, di età lavorativa e dei loro rapporti, sulla quale ha influito questa Corte con ripetuti interventi, consente e quindi impone una interpretazione delle norme impugnate conforme ai precetti di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, della Costituzione.

L’art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), stabilendo tra l’altro che le disposizioni della legge medesima non si applicavano ai lavoratori in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, determinava una disparità tra gli uomini e le donne con riguardo al regime di stabilità del rapporto e quindi all’età lavorativa, dal momento che queste ultime conseguivano il diritto alla pensione di vecchiaia prima degli uomini (e precisamente, all’epoca, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età, mentre per gli uomini il limite di età era fissato al sessantesimo anno).

Questa Corte, dopo aver ritenuto legittima tale disparità con la sentenza n. 123 del 1969 in considerazione delle peculiarità della condizione femminile nel mondo del lavoro e in seno alla famiglia all’epoca sussistenti, mutò orientamento con la sentenza n. 137 del 1986 quando venne chiamata a pronunciarsi in merito al complesso delle norme che correlando l’età lavorativa –intesa come età oltre la quale il lavoratore può essere licenziato ad nutum– all’età pensionabile –cioé all’età prevista per il conseguimento della pensione di vecchiaia– fissava per le donne, riguardo a quest’ultima, un limite di età inferiore rispetto a quello stabilito per gli uomini.

Con tale sentenza, la Corte ritenne che, mentre la posizione della donna nella società e nella famiglia giustificava il conseguimento della pensione di vecchiaia ad una età inferiore rispetto a quella prevista per l'uomo, per consentirle di adempiere le funzioni che le erano proprie, i mutamenti intervenuti sia nella disciplina del lavoro, sia soprattutto riguardo alla posizione sociale e giuridica della donna nella famiglia, erano stati tali da rendere irragionevole e perciò illegittima la differenza ancora sussistente tra uomini e donne per quanto concerneva l'età lavorativa.

Nel frattempo erano intervenute nella materia due nuove disposizioni e, precisamente, l’art. 4 della legge n. 903 del 1977 (sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) che aveva attribuito alle lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per conseguire la pensione di vecchiaia, il diritto di optare per la continuazione della prestazione fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini previa comunicazione da inviare al datore di lavoro entro determinati limiti di tempo e l’art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, convertito nella legge n. 54 del 1982, che aveva stabilito che tutti gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti potevano optare di continuare a lavorare per raggiungere l’anzianità contributiva massima o per incrementare la propria anzianità fino al limite massimo del compimento del sessantacinquesimo anno di età.

La prima delle due suddette disposizioni venne impugnata davanti alla Corte che, con la sentenza n. 498 del 1988, sul rilievo che la richiesta opzione fosse discriminatoria per le donne, ritenne fondata la questione, ribadendo nella sostanza le considerazioni svolte nella precedente sentenza n. 137 del 1986.

Per effetto di tale decisione il primo comma del citato art. 4 non fu espunto dall’ordinamento ma il relativo contenuto precettivo, depurato della parte ritenuta costituzionalmente illegittima, divenne il seguente: "le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali".

L’orientamento espresso nelle suddette sentenze venne seguito anche nelle ordinanze nn. 703 e 868 del 1988.

I principi fin qui affermati dalla Corte nella materia possono essere così sintetizzati:

a) i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di regolare l'età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo;

b) non urta contro alcun principio costituzionale la previsione per le donne di un limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia inferiore a quello fissato per gli uomini, anche se ciò implica il venir meno per le prime della coincidenza tra età per ottenere le pensione di vecchiaia ed età lavorativa.

Tali principi sono stati più volte ribaditi, sotto diversi profili, da questa Corte (sentenze nn. 1106 del 1988, 371 del 1989, 134 del 1991, 503 del 1991, 404 del 1993, 296 del 1994, 345 del 1994, 64 del 1996, 335 del 2000).

3.— Il giudice remittente sospetta di illegittimità, in primo luogo, l’art. 4, comma 2, della legge n. 108 del 1990, perchè ritiene che esso, unitamente con la legislazione successiva del pari impugnata, abbia fissato soltanto per gli uomini un limite più elevato di età lavorativa, mentre per le donne avrebbe previsto un onere di opzione per la protrazione del rapporto di lavoro fino al compimento della stessa età prevista per gli uomini.

Tale assunto non é condivisibile.

L’art. 6, comma 1, della legge n. 407 del 1990 ha esteso l’ambito applicativo della facoltà di opzione per la prosecuzione del rapporto fino al compimento del sessantaduesimo anno di età anche per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria che avessero già raggiunto la massima anzianità contributiva, senza peraltro operare alcuna distinzione fra lavoratori in dipendenza del sesso e senza modificare l’art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, prevedente, come si é detto, l’utilizzabilità della opzione fino al limite massimo del sessantacinquesimo anno di età al fine del miglioramento della propria anzianità contributiva da parte di coloro che non avessero ancora raggiunto l’anzianità massima.

L’art. 1 del d.lgs. n. 503 del 1992, emesso in attuazione della delega di cui all’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, da un lato, nel comma 2, ha portato a sessantacinque anni il limite di età raggiungibile con l’esercizio dell’opzione di cui al citato art. 6 della legge n. 407 del 1990, dall’altro, nel comma 1, ha disciplinato l’innalzamento dei limiti dell’età pensionabile stabilendo, secondo quanto indicato in una tabella allegata al decreto stesso poi sostituita dall’art. 11 della legge n. 724 del 1994, per il periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999 (in cui si é verificato il licenziamento oggetto del giudizio a quo), una elevazione graduale dei limiti di età rispettivamente previsti per gli uomini e per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno e i sessantaquattro anni e per le donne tra i cinquantasei e i cinquantanove anni) onde pervenire, alla disciplina "a regime", decorrente dal 1° gennaio 2000, che prevede i limiti di sessantacinque anni di età per gli uomini e sessanta anni per le donne.

Da quanto esposto risulta che le innovazioni introdotte dall’art. 4, comma 2, della legge n. 108 del 1990, dall’art. 6, comma 1, della legge n. 407 del 1990 e dalle disposizioni successive attualmente impugnate non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 della Costituzione.

Infatti, mentre le diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente introdotto dall’art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i limiti della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età, sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto per le donne la correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’ art. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), dell’art. 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, dell’art. 6, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 407 (Disposizioni diverse per l’attuazione della manovra di finanza pubblica 1991–1993), modificato dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 37, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2002.