Ordinanza n. 211/2002

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ORDINANZA N.211

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Massimo VARI, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 25 giugno 2001 dal Tribunale di Padova nel procedimento civile vertente tra Roberto Lanaro e Fabrizio Castanìa, iscritta al n. 740 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti l’atto di costituzione di Fabrizio Castanìa nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell’udienza pubblica del 12 marzo 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Udito l’avvocato dello Stato Francesco Sclafani per il Presidente del Consiglio dei ministri;

Ritenuto che il Tribunale di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui tale disposizione non prevede, analogamente all’art. 306, primo comma, del codice di procedura civile, che il trasferimento della azione civile nel processo penale avvenga solo se vi é l’accettazione delle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio;

che agli effetti dello scrutinio di rilevanza, il giudice a quo premette di essere stato investito, quale giudice della cognizione civile, della domanda di restituzione o di risarcimento del danno promossa da una persona in relazione alla appropriazione, da parte del convenuto, di un oggetto asseritamente dato in prestito, e per la quale l’attore aveva già proposto rituale querela; che, giunto successivamente il procedimento alla fase della precisazione delle conclusioni, l’attore esponeva di essersi tempestivamente costituito parte civile nel processo penale pendente a carico del convenuto, nel frattempo rinviato a giudizio, e chiedeva pertanto che il procedimento civile fosse dichiarato estinto a norma dell’art. 75 cod. proc. pen., senza alcuna liquidazione delle spese di giudizio, essendo essa di competenza del giudice penale;

che, alla stregua di tali premesse, il giudice rimettente reputa che la possibilità di trasferire l’azione civile dalla sede propria a quella penale, sancita dall’art. 75, comma 1, cod. proc. pen., "senza che il convenuto abbia la benchè minima possibilità di interloquire", contrasti con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto irragionevolmente consente all’attore di sottrarsi ad libitum all’esito del giudizio civile da lui stesso instaurato e irragionevolmente costringe il convenuto a difendersi due volte dalla stessa azione civile, prima in sede civile, poi in sede penale. Nè tale irragionevolezza, sottolinea il giudice a quo, può ritenersi contemperata dal potere del giudice penale di provvedere sulle spese del procedimento civile, in quanto la questione riguarda il più pregnante diritto del convenuto di ottenere dal giudice civile una pronuncia di merito sulla domanda proposta dall’attore: diritto, questo, che rappresenta uno degli aspetti del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Carta fondamentale;

che compromesso sarebbe anche il principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall’art. 25 della Costituzione, in quanto attribuendosi all’attore il diritto potestativo di sottrarsi all’esito del giudizio civile da lui stesso instaurato, gli verrebbe consentito, per questa via, di scegliere il giudice – civile o penale – che più gli aggrada;

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la questione proposta. La questione sarebbe infatti inammissibile, a parere della Avvocatura, per insufficiente motivazione sulla rilevanza, in quanto dalla ordinanza di rimessione non risulterebbe se il convenuto abbia manifestato la sua opposizione al trasferimento della azione civile in sede penale oppure abbia acconsentito a tale iniziativa dell’attore. Nel merito, la questione sarebbe, ad avviso della difesa erariale, infondata, in quanto la disposizione oggetto di censura ha inteso trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza, da un lato, di favorire la separazione tra giudizio civile e giudizio penale e quella, dall’altro, di evitare possibili contrasti tra giudicati;

che si é costituita anche la parte privata, rappresentata e difesa dagli avvocati Luigi Berardi del Foro di Padova e Vincenzo Vecchioni del Foro di Roma, chiedendo dichiararsi, attraverso una sentenza interpretativa ovvero, in subordine, mediante declaratoria di illegittimità costituzionale, che "l’operatività della rinunzia agli atti del processo civile conseguente al trasferimento della relativa azione civile in sede penale a’ sensi dell’art. 75 comma 1 c.p.p., é scevra da profili di illegittimità costituzionale solo se soggetta al regime processuale preveduto dall’art. 306 c.p.c., che subordina l’effetto estintivo del processo, nel quale tale rinunzia é proposta, all’accettazione della stessa, da parte delle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio già instaurato".

Considerato che il giudice rimettente, chiamato a dichiarare l’estinzione del procedimento civile per rinuncia agli atti del giudizio, a seguito dell’avvenuto trasferimento della azione civile nel processo penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma – a differenza di quanto é invece stabilito dall’art. 306 del codice di rito civile in tema di estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio – non prevede che il trasferimento della azione civile nel processo penale avvenga solo se vi é l’accettazione delle parti costituite, che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio;

che vulnerati risulterebbero gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto irragionevolmente il convenuto verrebbe costretto ad una doppia difesa, in sede civile e penale, in rapporto ad una arbitraria scelta dell’attore, senza poter quindi ottenere una pronuncia di merito dal giudice civile, con evidente compromissione del diritto di difesa costituzionalmente preservato;

che di riflesso risulterebbe violato anche l’art. 25 Cost., in quanto, attribuendosi all’attore il diritto potestativo di sottrarsi all’esito del giudizio civile da lui stesso instaurato, si consentirebbe al medesimo di prescegliere la giurisdizione – civile o penale – davanti alla quale azionare le proprie pretese;

che, preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura, in quanto la norma evocata a raffronto (art. 306 cod. proc. civ.) – e che additivamente si vorrebbe inserire nell’art. 75 cod. proc. pen. – richiede, per l’estinzione del processo, una dichiarazione positiva di accettazione che rende ex se rilevante il quesito, a prescindere dalla concreta voluntas del convenuto nel caso di specie: giacchè il condizionare il trasferimento della azione civile alla accettazione della controparte, mantiene la propria rilevanza tanto in caso di assenso che di diniego da parte di quest’ultima;

che nel merito la questione é, peraltro, palesemente destituita di fondamento. La logica, infatti, per la quale nel processo civile la rinuncia agli atti del giudizio (una rinuncia – va osservato – di tipo meramente "processuale", che non coinvolge il diritto sostanziale controverso) richiede, per determinare l’estinzione del giudizio, l’accettazione incondizionata delle parti costituite "che potrebbero aver interesse alla prosecuzione", é ispirata all’esigenza di consentire alla parte non rinunciante di conseguire una pronuncia che realizzi le proprie pretese e che quindi accerti – con la forza del giudicato – l’eventuale infondatezza della domanda proposta nei suoi confronti da chi ha poi formulato la rinuncia. Una esigenza, dunque, che viene ad essere necessariamente soddisfatta nell’ipotesi di trasferimento della azione civile dalla sede propria a quella penale, posto che in tale evenienza é la stessa azione – e quindi il medesimo "processo" – a proseguire in altra sede: con la conseguenza che l’accertamento di merito sulla fondatezza della domanda - che sta alla base del capo civile - viene ad essere compiutamente espletato, addirittura con possibilità difensive maggiori per l’imputato-convenuto, considerato che in sede penale non valgono le limitazioni di prova operanti nel processo civile;

che del tutto improprio si rivela il richiamo all’art. 25 Cost., avendo questa Corte più volte affermato che la garanzia del giudice naturale non é lesa quando, come nella specie, il giudice sia designato in modo non arbitrario nè a posteriori, oppure direttamente dal legislatore in conformità alle regole generali, ovvero attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo potere nel rispetto della riserva di legge stabilita dallo stesso parametro (cfr., ex plurimis, sentenza n. 152 del 2001 – sic! -);

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Padova con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2002.

Massimo VARI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2002.