Ordinanza n. 264/2001

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ORDINANZA N. 264

ANNO 2001

 

 REPUBBLICA ITALIANA

 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lettera a), 210, comma 4, e 513 del codice di procedura penale, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Milano, con ordinanze emesse in data 11 luglio 2000 e 22 giugno 2000, iscritte rispettivamente ai nn. 611 e 666 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44 e 46, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Milano con ordinanza in data 11 luglio 2000 (r.o. n. 611 del 2000) ha sollevato, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 3, 24, 111 e 112 Cost., e agli artt. 3, 25, 101, secondo comma, 111 e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono la facoltà delle persone imputate in un procedimento connesso, che abbiano in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie, di non rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri, nonché dell'art. 197, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce la incompatibilità con l'ufficio di testimone di tali persone allorché nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna divenuta irrevocabile;

che analoghe questioni sono state sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 111 e 112 Cost., dal Tribunale di Milano con ordinanza del 22 giugno 2000 (r.o. n. 666 del 2000);

che in entrambe le ordinanze si premette che, nell'ambito di procedimenti nei quali diverse posizioni erano state separate e definite con rito alternativo, buona parte degli imputati in procedimento connesso si erano avvalsi in dibattimento della facoltà di non rispondere;

che ad avviso dei rimettenti gli artt. 513, comma 2, e 210, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui disciplinano la formazione della prova relativa alle dichiarazioni rese dai soggetti di cui al comma 1 dell'art. 210 cod. proc. pen., riconoscendo loro la facoltà di non rispondere, sono in contrasto con l'art. 111 Cost., in quanto le modifiche recate alla norma costituzionale impongono «una revisione dei confini tra il diritto alla formazione in contraddittorio della prova, ed il diritto al silenzio del dichiarante erga alios»;

che, in particolare, nell'ordinanza n. 611 del 2000 il Tribunale di Milano rileva che il riconoscimento della facoltà di non rispondere svuota di effettività il principio del contraddittorio nella formazione della prova, affermato dal quarto comma dell'art. 111 Cost., in relazione al quale il silenzio del dichiarante viene configurato, con evidente connotazione di disvalore, come «sottrazione al contraddittorio» nel secondo periodo dello stesso quarto comma;

che la scelta dell'imputato di rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri spiega effetti di così grande rilevanza nei confronti dell'accusato nella fase predibattimentale che, una volta intrapresa tale via, l'esercizio successivo del diritto al silenzio si pone in contrasto, menomandolo, con il diritto dell'accusato al confronto dialettico nella formazione della prova, ora assunto a regola costituzionale (art. 111, terzo e quarto comma);

che la disciplina censurata violerebbe anche gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la concorrenza tra le contrapposte articolazioni del diritto di difesa del dichiarante e dell'imputato può essere composta solo affermando che le nuove regole recate dall'art. 111 Cost. comportano la «compressione» dello spazio costituzionalmente garantito del diritto al silenzio, nonché gli artt. 3, 112, 111, primo comma, e 25 Cost., in quanto da essa discende l'irragionevole ed inaccettabile sacrificio dei principi del libero convincimento del giudice, della irrinunciabile funzione conoscitiva del processo, dell'indefettibilità della giurisdizione e dell'obbligatorietà dell'azione penale;

che, a parere del medesimo rimettente, il dubbio di costituzionalità prospettato in relazione all'art. 197 cod. proc. pen. implica la rivisitazione dell'intero istituto del diritto al silenzio, nonché l'attribuzione della veste di vero e proprio testimone all'imputato in procedimento connesso la cui posizione sia stata definita con sentenza di condanna divenuta irrevocabile, con inevitabili conseguenze, da un lato, sull'obbligo di rispondere secondo verità e sulle sanzioni penali a lui irrogabili, dall'altro in ordine alle regole di valutazione della prova così acquisita;

che nell'ordinanza iscritta al n. 666 del registro ordinanze del 2000 il Tribunale, rilevando che il procedimento è «soggetto ai principi di cui all'art. 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 2, in quanto il dibattimento è stato aperto in epoca successiva all'introduzione della predetta innovazione costituzionale», ritiene che «il principio di formazione della prova in contraddittorio di cui al quinto [recte: quarto] comma dell'art. 111» comporti la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità «dell'intero sistema di assunzione della prova per ciò che concerne le dichiarazioni di persone esaminate ai sensi dell'art. 210 c.p.p. sotto il profilo della previsione» della facoltà di non rispondere, nonché della disciplina concernente «l'incompatibilità con l'ufficio di testimone dei soggetti già "condannati" con sentenza divenuta irrevocabile»;

 che la normativa censurata sarebbe pertanto in contrasto con l'art. 111 Cost., in quanto, da un canto, «ogni strumento nel tempo individuato, allo scopo di rendere utilizzabili le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da chi successivamente esercita la facoltà di non rispondere, è allo stato impercorribile in quanto in aperto conflitto con il nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione»; dall'altro, la facoltà di non rispondere per l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni eteroaccusatorie contrasta «con la costituzionalizzazione del principio del confronto dialettico in dibattimento»;

che sarebbero così violati anche il principio «di accertamento dei fatti aventi rilevanza penale», individuato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 1993; il principio «di conservazione degli elementi di prova», enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 361 del 1998; e, infine, il principio di ragionevolezza, per l'incoerenza di un sistema che assegna valenza assoluta alle dichiarazioni in questione nei confronti dell'accusato in fase predibattimentale e cautelare (artt. 3, 25, 111 e 112 Cost.);

che le medesime considerazioni sorreggono, nell'ordinanza r.o. n. 666, il dubbio di costituzionalità prospettato in relazione all'art. 197 cod. proc. pen., concernente la «minore attualità e rilevanza dei diritti, pur costituzionalmente garantiti, di colui nei confronti del quale sia stata già pronunciata sentenza irrevocabile di condanna - alla quale è equiparata ex art. 445, primo comma, ultima parte, c.p.p., la sentenza di applicazione di pena - in quanto la sua posizione è insuscettibile di essere aggravata o comunque modificata»;

che nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate, facendo particolare riferimento ai principi di cui all'art. 24 Cost.

Considerato che identica è la sostanza delle questioni sollevate con le due ordinanze di rimessione, concernenti il diritto al silenzio riconosciuto sia alle persone che sono state già giudicate sia alle persone ancora imputate in un procedimento connesso, che abbiano in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie, in relazione al regime della acquisizione e utilizzazione in dibattimento di tali precedenti dichiarazioni, per cui deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;

che successivamente alle ordinanze di rimessione è intervenuta la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e di valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione), che ha profondamente inciso sulla disciplina del diritto al silenzio e della formazione della prova in dibattimento, da un lato modificando gli artt. 64, 197 e 210 cod. proc. pen. e inserendo l'art. 197-bis cod. proc. pen. - che individua le ipotesi in cui le persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato assumono l’ufficio di testimone -, dall'altro intervenendo sugli artt. 500, 513 e 526 cod. proc. pen.;

che di conseguenza, essendo mutati le norme censurate e il contesto complessivo della disciplina di riferimento, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti, perché verifichino se le questioni siano tuttora rilevanti nei giudizi a quibus.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Milano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2001.