Ordinanza n. 262/2001

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 262

ANNO 2001

 

 REPUBBLICA ITALIANA

 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale:

- degli artt. 513 e 210, comma 4, del codice di procedura penale, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze emesse in data 20 marzo 2000 dal Tribunale di Milano, 13 aprile 2000 dal Tribunale per i minorenni di Trieste, 4 maggio 2000 dalla Corte di assise di S. Maria Capua Vetere, 8 maggio 2000 dal Tribunale di Napoli e 11 luglio 2000 dal Tribunale di Milano, iscritte rispettivamente ai nn. 319, 428, 512, 547 e 820 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 25, 30, 40, 41, prima serie speciale, dell'anno 2000, e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2001;

- degli artt. 513, 210, comma 4, e 392, lettera d), del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, con ordinanza emessa il 28 giugno 2000 dal Tribunale di Rimini, iscritta al n. 733 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Milano con due ordinanze di uguale contenuto emesse il 20 marzo e l'11 luglio 2000 (r.o. nn. 319 e 820 del 2000), il Tribunale per i minorenni di Trieste con ordinanza emessa il 13 aprile 2000 (r.o. n. 428 del 2000) e il Tribunale di Napoli con ordinanza emessa in data 8 maggio 2000 (r.o. n. 547 del 2000) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 513 e 210, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono la facoltà delle persone imputate in un procedimento connesso, che abbiano in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie, di non rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri;

che identica questione è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 (evocato, per evidente errore materiale come art. 23, solo in motivazione), 25 (evocato solo in dispositivo), 111 e 112 Cost., dalla Corte di assise di S. Maria Capua Vetere con ordinanza emessa il 4 maggio 2000 (r.o. n. 512 del 2000);

che il Tribunale di Rimini, con ordinanza del 28 giugno 2000 (r.o. n. 733 del 2000), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 111 e 112 Cost., analoga questione di legittimità costituzionale degli artt. 513 e 210, comma 4, cod. proc. pen., ed inoltre questione di legittimità costituzionale dell'art. 392, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., «nella parte in cui limita i casi in cui può essere richiesto incidente probatorio in ordine alle dichiarazioni delle persone indicate nell'articolo 210 c.p.p., ai soli casi previsti dalle lettere a) e b)»;

che in entrambe le ordinanze il Tribunale di Milano premette che nel corso del dibattimento, aperto in epoca successiva alla modifica dell'art. 111 Cost. e avente ad oggetto fatti di falso e corruzione, numerose posizioni erano state stralciate e definite con riti alternativi o sentenza di non doversi procedere ex art. 469 cod. proc. pen.;

che alcuni degli imputati le cui posizioni erano state separate, sottoposti ad esame ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, sicché il pubblico ministero aveva proceduto «alle contestazioni ai sensi dell'art. 500 c.p.p.», insistendo altresì nella richiesta di produzione dei verbali utilizzati per le contestazioni;

che il Tribunale per i minorenni di Trieste, premesso che alcuni imputati in procedimento connesso esaminati in dibattimento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, rileva che non può trovare applicazione il sistema della contestazione-acquisizione di cui all'art. 500, commi 2-bis e 4, cod. proc. pen. (sentenza n. 361 del 1998), in quanto incompatibile con il nuovo art. 111 Cost.;

che la Corte di assise di S. Maria Capua Vetere premette che il dubbio di legittimità costituzionale è prospettato nell'ambito del medesimo procedimento nel quale era già stata sollevata questione di costituzionalità dell'art. 513 cod. proc. pen., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove), decisa con l'ordinanza n. 249 del 1999, che aveva disposto la restituzione degli atti perché il giudice rimettente valutasse se la questione, relativa alla non acquisibilità delle precedenti dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da imputato in procedimento connesso, fosse tuttora rilevante alla luce della sentenza n. 361 del 1998;

che la Corte rimettente precisa che, dopo l'intervento di tale sentenza, l'imputato in procedimento connesso, che nel frattempo era stato giudicato, nuovamente chiamato a rendere l'esame ex art. 507 cod. proc. pen. si era rifiutato di rispondere, e che la difesa si era opposta alla richiesta del pubblico ministero di procedere a norma degli artt. 513, comma 2, e 500, comma 2-bis, cod. proc. pen., come risultanti alla stregua della sentenza n. 361 del 1998;

che la questione sollevata dal Tribunale di Napoli concerne l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese da un coimputato nei confronti del quale si era proceduto separatamente, condannato in appello con sentenza del luglio 1997 e che, chiamato a rendere esame ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., rifiutava di rispondere;

che il Tribunale premette che, avendo già rigettato le questioni di costituzionalità sollevate dalla difesa degli imputati in relazione alla compatibilità del meccanismo della contestazione-acquisizione delle dichiarazioni rese in precedenza da chi, nel corso dell'esame dibattimentale, si era rifiutato di rispondere alle domande delle parti, si trova a dover valutare, all'esito del dibattimento, se le dichiarazioni acquisite con il meccanismo di cui all'art. 513 cod. proc. pen., come integrato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998, siano utilizzabili ai fini della decisione in assenza degli elementi di cui al quinto comma dell'art. 111 Cost.;

che il Tribunale di Rimini premette che in dibattimento un imputato in procedimento connesso - che nel corso delle indagini preliminari aveva ammesso la propria responsabilità chiamando in correità gli imputati nel procedimento a quo e aveva quindi «ottenuto la definizione della propria posizione con il rito abbreviato» - si era avvalso della facoltà di non rispondere;

che tutti i rimettenti, ad eccezione del Tribunale di Napoli, sollevano questione di legittimità costituzionale «non solo dell'art. 210 cod. proc. pen., ma dello stesso meccanismo dettato dall'art. 513 cod. proc. pen. nella portata precettiva scaturita dall'intervento della Corte costituzionale», sul presupposto che «la regola introdotta dalla norma costituzionale non si limita ad esprimere un criterio di valutazione della prova, ma fissa il principio tassativo della formazione della stessa nel rispetto del principio del confronto dialettico [...], sicché l'acquisizione dei verbali di dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari» (così, esplicitamente, r.o. n. 512 del 2000) in base al meccanismo introdotto dalla sentenza n. 361 del 1998 verrebbe a porsi in contrasto con tale principio;

che il Tribunale di Napoli - premessa la distinzione tra la fase dell'acquisizione delle dichiarazioni, quale momento della formazione della prova, e quella dell'utilizzabilità delle stesse, e qualificato il principio introdotto nell'art. 111 Cost. «non già quale regola legale di esclusione probatoria, bensì quale criterio legale di valutazione» - pone il problema di costituzionalità esclusivamente in relazione al profilo della "utilizzabilità", in assenza degli elementi di cui al quinto comma dell'art. 111 Cost., delle dichiarazioni rese durante le indagini, ritenendo comunque acquisibili, e avendo anzi già acquisito, tali dichiarazioni «con il meccanismo di cui all'art. 513 c.p.p., come integrato» dalla sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998;

che tutti i rimettenti ritengono che gli artt. 513, comma 2, e 210, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui disciplinano la formazione della prova con riferimento alle dichiarazioni dei soggetti di cui al comma 1 dell'art. 210 cod. proc. pen., riconoscendo loro la facoltà di non rispondere, siano in contrasto con l'art. 111 Cost., e che si imponga, in forza delle modifiche introdotte nella norma costituzionale, «una revisione dei confini tra il diritto alla formazione in contraddittorio della prova, ed il diritto al silenzio del dichiarante erga alios»;

che, in particolare, secondo i rimettenti il riconoscimento della facoltà di non rispondere svuota di effettività il principio, affermato dal quarto comma dell'art. 111 Cost., del contraddittorio nella formazione della prova, in relazione al quale il silenzio del dichiarante viene configurato, con evidente connotazione di disvalore, come «sottrazione al contraddittorio» nel secondo periodo dello stesso quarto comma;

che la scelta dell'imputato di rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri spiega, secondo i giudici a quibus, effetti di così grande rilevanza nei confronti dell'accusato nella fase predibattimentale che, una volta intrapresa tale via, l'esercizio successivo del diritto al silenzio si pone in contrasto, menomandolo, con il diritto dell'accusato al confronto dialettico nella formazione della prova, ora assunto a regola costituzionale (art. 111, terzo e quarto comma);

che la disciplina censurata violerebbe anche gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la concorrenza tra le contrapposte articolazioni del diritto di difesa del dichiarante e dell'imputato può essere composta solo affermando che le nuove regole recate dall'art. 111 Cost. comportano la «compressione» dello spazio costituzionalmente garantito del diritto al silenzio, nonché gli artt. 3, 112, 111, primo comma, e 25 Cost. (quest'ultimo evocato solo in r.o. n. 512 del 2000), in quanto da essa discende l'irragionevole ed inaccettabile sacrificio dei principi del libero convincimento del giudice, della irrinunciabile funzione conoscitiva del processo, dell'indefettibilità della giurisdizione e dell'obbligatorietà dell'azione penale;

che il Tribunale di Rimini censura inoltre, in riferimento ai medesimi parametri, l'art. 392, lettera d), cod. proc. pen. «nella parte in cui limita i casi in cui può essere richiesto incidente probatorio in ordine alle dichiarazioni delle persone indicate nell'articolo 210 c.p.p., ai soli casi previsti dalle lettere a) e b)», in quanto verrebbe così impedito di fatto «alla pubblica accusa di promuovere immediato incidente probatorio, in tutti i casi in cui un imputato effettui una chiamata in correità nei confronti dei coimputati, al di fuori dei casi previsti nelle suindicate» ipotesi, ritenendo tale questione «strettamente correlata» alle precedenti;

che nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate, facendo particolare riferimento ai principi di cui all'art. 24 Cost.

Considerato che identica è la sostanza delle questioni, che concernono tutte il diritto al silenzio riconosciuto alle persone imputate o giudicate in un procedimento connesso che abbiano in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie, in relazione al regime della acquisizione e utilizzazione in dibattimento di tali precedenti dichiarazioni, per cui deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;

che, con riferimento alle questioni concernenti gli artt. 210 e 513 cod. proc. pen., successivamente alle ordinanze di rimessione è intervenuta la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e di valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione), che ha profondamente inciso sulla disciplina del diritto al silenzio e della formazione della prova in dibattimento, da un lato modificando gli artt. 64, 197 e 210 cod. proc. pen. e inserendo l'art. 197-bis cod. proc. pen. - che individua le ipotesi in cui le persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato assumono l’ufficio di testimone -, dall'altro intervenendo sugli artt. 500, 513 e 526 cod. proc. pen.;

che di conseguenza, essendo mutati le norme censurate e il contesto complessivo della disciplina di riferimento, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti, perché verifichino se le questioni siano tuttora rilevanti nei giudizi a quibus;

che la questione di costituzionalità dell'art. 392, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., sollevata dal Tribunale di Rimini, deve invece essere dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto nella disposizione impugnata è già stato eliminato il riferimento alle circostanze previste dalle lettere a) e b), ad opera dell'art. 4, comma 1, della legge 7 agosto 1997, n. 267.

 Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 392, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale di Rimini con l'ordinanza in epigrafe;

ordina la restituzione degli atti relativi alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 del codice di procedura penale al Tribunale di Milano, al Tribunale per i minorenni di Trieste, al Tribunale di Napoli, alla Corte di assise di S. Maria Capua Vetere e al Tribunale di Rimini.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2001.