Sentenza n. 164/2001

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SENTENZA N.164

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI         

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE         

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 3, 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) e 12, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70 (Norme in materia tributaria nonchè per la semplificazione delle procedure di accatastamento degli immobili urbani), convertito, con modificazioni, in legge 13 maggio 1988, n. 154, promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1999 dalla Commissione tributaria provinciale di Bari sui ricorsi riuniti proposti da Di Molfetta Carmela ed altri contro l’Ufficio del registro di Trani, iscritta al numero 708 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2001 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza emessa il 14 maggio 1999 la Commissione tributaria provinciale di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 3, 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) e 12, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70 (Norme in materia tributaria nonchè per la semplificazione delle procedure di accatastamento degli immobili urbani), convertito, con modificazioni, in legge 13 maggio 1988, n. 154.

Il rimettente premette che i giudizi a quibus hanno ad oggetto impugnative tempestivamente proposte da diversi coeredi avverso avvisi di liquidazione e cartelle di pagamento relativi ad imposta principale di successione ed imposta comunale sull'incremento di valore degli immobili (INVIM), oltre interessi e sanzioni pecuniarie per il ritardato pagamento, liquidate dall’Ufficio del registro di Trani in base al valore venale di un immobile, quale dichiarato dai medesimi coeredi in sede di denuncia di successione, con riserva di volersi avvalere del disposto dell’art. 12 del decreto-legge n. 70 del 1988.

I ricorrenti si dolgono del fatto che l’Ufficio non abbia tenuto conto della rettifica del valore del suddetto cespite, da £. 1.070.000.000 a £. 670.000.000, presentata da essi coeredi, dopo la scadenza del termine per la presentazione della denuncia di successione, a seguito di determinazione della rendita effettuata dall’Ufficio tecnico erariale (UTE) di Bari.

La Commissione rimettente osserva che, in base al combinato disposto degli artt. 31, comma 3, e 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo n. 346 del 1990, i ricorsi risulterebbero privi di fondamento, in quanto la modifica della dichiarazione di successione é consentita solamente fino alla scadenza del termine semestrale previsto per la presentazione della dichiarazione medesima, salva la sola possibilità di pagamento della maggiore imposta, senza sanzioni, nel caso in cui il valore dichiarato risulti inferiore a cento volte la rendita successivamente attribuita o aggiornata.

Il medesimo giudice ritiene tuttavia che il "sistema" delineato da tali norme – oltre che, per quanto riguarda l’INVIM, dall’art. 12, comma 3-bis, del decreto-legge n. 70 del 1988 – sia in contrasto con i principi enunciati dagli artt. 3, 53, primo comma, e 97, primo comma, Cost.

Risulterebbe, infatti, violato in primo luogo il principio di eguaglianza, per la disparità di trattamento esistente tra coloro che abbiano attribuito al cespite immobiliare un valore superiore a quello successivamente stimato dall’UTE e coloro che abbiano invece indicato un valore inferiore.

Le norme impugnate sarebbero inoltre in contrasto con il principio di capacità contributiva, in quanto consentirebbero l’assoggettamento all’imposta di cespiti immobiliari per valori sovrastimati.

La disciplina denunciata sarebbe infine lesiva del principio di buon andamento dell’amministrazione, con riferimento al corretto esercizio del potere impositivo.

2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

Ad avviso dell’Avvocatura, la motivazione dell’ordinanza sarebbe innanzitutto carente in punto di rilevanza, non dandosi conto dell’eccezione di inammissibilità, per tardiva impugnazione, dei ricorsi relativi all’avviso di liquidazione, sollevata dall’amministrazione finanziaria.

Nel merito la questione sarebbe comunque priva di fondamento.

Nessuna disparità di trattamento potrebbe infatti configurarsi tra gli obbligati tributari che abbiano rappresentato nella dichiarazione un valore superiore a quello determinato applicando al cespite immobiliare la cosiddetta "valutazione automatica" – ai quali é inibito di modificare tale dichiarazione successivamente alla scadenza del termine – e quei contribuenti che abbiano invece indicato un valore inferiore.

Sotto altro aspetto dovrebbe poi considerarsi che la "valutazione automatica" – come la stessa Corte ha affermato nella sentenza n. 463 del 1995 – non introduce un nuovo sistema di determinazione dei valori imponibili ma costituisce esclusivamente un limite al potere di accertamento degli uffici finanziari, impedendo loro di procedere ad una maggiore valutazione allorchè il valore dei beni stessi sia dichiarato in misura non inferiore a quello automatico.

Considerato in diritto

1.- La Commissione tributaria provinciale di Bari dubita, in riferimento agli artt. 3, 53, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 3, 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) e 12, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70 (Norme in materia tributaria nonchè per la semplificazione delle procedure di accatastamento degli immobili urbani), convertito, con modificazioni, in legge 13 maggio 1988, n. 154, in quanto – nel caso di denuncia di successione relativa ad immobili non censiti – non consentono al contribuente, il quale abbia dichiarato un valore superiore a quello successivamente stimato dall’UTE, di modificare la propria dichiarazione in conformità a tale stima, dopo la scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione.

2.- L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il rimettente non avrebbe dato conto di una eccezione di tardività dei ricorsi avverso gli avvisi di liquidazione, sollevata nel giudizio a quo dall’amministrazione finanziaria, la cui fondatezza – secondo la stessa Avvocatura - emergerebbe dal preambolo della stessa ordinanza.

L’eccezione é priva di fondamento. Il rimettente qualifica infatti esplicitamente come tempestivi i ricorsi proposti dai contribuenti, il che é sufficiente ad escludere il prospettato vizio di difetto di motivazione sulla rilevanza.

Va ad ogni buon conto chiarito che le date che compaiono nel preambolo dell’ordinanza si riferiscono, con ogni evidenza, non alla presentazione dei ricorsi – come l’Avvocatura mostra di ritenere, traendone argomento a sostegno della eccezione di tardività dei ricorsi stessi - bensì alla spedizione degli atti dalla Commissione tributaria di primo grado di Trani (ove i giudizi erano stati originariamente incardinati) alla Commissione tributaria provinciale di Bari.

3.- Nella memoria illustrativa l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce altresì l’inammissibilità della questione "perchè prospettata "alternativamente" nei confronti di più disposizioni legislative".

L’Avvocatura intende presumibilmente riferirsi al fatto che il rimettente ha impugnato sia la norma secondo la quale la dichiarazione di successione può essere modificata solo fino alla scadenza del termine (art. 31, comma 3, del decreto legislativo n. 346 del 1990), sia la norma che, in riferimento agli immobili non ancora iscritti in catasto al momento della dichiarazione, prevede la riliquidazione dell’imposta nella sola ipotesi in cui il valore dichiarato risulti inferiore a quello stimato dall’UTE (art. 34, commi 5 e 6).

Anche tale eccezione é infondata.

La questione sollevata investe effettivamente entrambe le norme, atteso che il medesimo rimettente in buona sostanza invoca una pronuncia che consenta al contribuente, nel caso di immobili non ancora censiti previsto dall’art. 34, comma 6, del decreto legislativo, di modificare la dichiarazione tributaria anche dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 31, comma 3, quando il valore dichiarato risulti superiore a quello successivamente attribuito dall’UTE.

4.- Va invece dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione relativa all’art. 12, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70.

La disposizione specificamente censurata riguarda infatti la dichiarazione e l’eventuale accertamento del valore iniziale dei cespiti immobiliari ai fini INVIM, mentre risulta inequivocamente dall’ordinanza di rimessione che i giudizi a quibus hanno ad oggetto una controversia in tema di determinazione del valore finale di un immobile caduto in successione.

5.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 3, e 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, é infondata.

5.1.- Il rimettente ritiene che il sistema delineato dalle norme denunciate sia innanzitutto lesivo del principio di eguaglianza, in quanto discriminerebbe, riguardo alla tassazione degli immobili non censiti, i contribuenti i quali abbiano dichiarato nella denuncia di successione un valore superiore a quello successivamente stimato dall’UTE, rispetto a coloro i quali abbiano invece dichiarato un valore inferiore. Ciò in quanto, mentre questi ultimi, rispettando l’iter procedimentale previsto dall’art. 34, comma 6, possono – senza alcuna sanzione – adeguarsi al valore catastale con gli effetti previsti dal precedente comma 5, pagando la maggiore imposta, gli altri non possono all’inverso giovarsi della (per loro) più favorevole valutazione effettuata dall’UTE, così da ridurre l’ammontare di imposta dovuto.

La questione, posta in tali termini, é in realtà frutto di un evidente equivoco riguardo al significato ed alla ratio delle norme denunciate.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, la valutazione automatica dei beni immobili – secondo l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza - non introduce un nuovo sistema di determinazione dei valori imponibili, ma semplicemente limita il potere di rettifica che gli uffici finanziari hanno nel caso in cui non ritengano congruo il valore dei beni dichiarati, impedendo loro di procedere ad una maggiore valutazione allorchè il valore dei beni stessi sia stato dichiarato in misura non inferiore all’ammontare determinato in modo automatico (v. sentenze n. 463 del 1995 e n. 78 del 1991).

Il beneficio che la norma di cui all’art. 34, comma 5, offre al contribuente é dunque rappresentato esclusivamente dalla non rettificabilità del valore dichiarato, quando questo sia uguale o superiore a quello determinato in via automatica. E proprio al fine di evitare possibili disparità di trattamento tra contribuenti, in dipendenza del fatto che gli immobili cui l’imposta si riferisce siano o meno accatastati, il legislatore, al successivo comma 6, ha previsto, riguardo agli immobili non censiti, il cui valore catastale non é evidentemente noto al momento della dichiarazione, la possibilità di godere di detto beneficio anche nel caso in cui tale valore si riveli poi superiore a quello dichiarato dal contribuente. Con conseguente ed ovvio vantaggio anche per l’amministrazione, rappresentato dalla riscossione della maggiore imposta.

Nessuna disparità di trattamento sussiste, pertanto, tra i contribuenti che abbiano dichiarato un valore uguale o superiore a quello successivamente stimato dall’UTE ed i contribuenti che abbiano invece dichiarato un valore inferiore, essendo anche a questi ultimi riconosciuta la possibilità di rendere la propria dichiarazione non rettificabile da parte dell’ufficio finanziario.

La circostanza che il contribuente, il quale abbia dichiarato un valore superiore a quello stimato dall’UTE, venga a pagare un’imposta maggiore di quella astrattamente dovuta in base a tale stima, senza possibilità di modificare la propria dichiarazione dopo la scadenza del relativo termine, giusta il disposto dell’art. 31, comma 3, del decreto legislativo n. 346 del 1990, non può d’altro canto addursi a violazione del principio di eguaglianza, essendo il pagamento della maggiore imposta conseguenza di una autonoma valutazione dello stesso contribuente riguardo al valore del cespite. D’altra parte, il sistema delineato dalle norme impugnate pone al riparo il dichiarante – che manifesti la volontà di avvalersi della disposizione dei cui all’art. 34, comma 5 – dal rischio di qualsivoglia sanzione nel caso in cui il valore da lui indicato risulti anche sensibilmente inferiore a quello successivamente stimato dall’organo tecnico.

5.2.- Tanto meno sussiste violazione, nella specie, dei principi di capacità contributiva e di buon andamento della pubblica amministrazione, sotto il profilo del corretto esercizio del potere impositivo.

Se si muove dalla premessa che la valutazione automatica dei beni immobili non introduce un sistema legale di determinazione dei valori imponibili, deve ritenersi allora che resti fermo il principio sancito dall’art. 14 del decreto legislativo n. 346 del 1990, secondo cui, ai fini dell’imposta di successione, la base imponibile, relativamente ai beni immobili in piena proprietà, é determinata assumendo il valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione.

La previsione di liquidazione dell’imposta sulla base del valore venale dichiarato dallo stesso contribuente – pur se in ipotesi superiore a quello successivamente stimato dall’UTE – non può perciò ritenersi in contrasto nè con l’art. 53 Cost. nè con l’art. 97 Cost., essendo del tutto coerente con la ratio dell’imposta medesima.

E’ appena il caso di sottolineare che, qualora invece il rimettente ritenesse di conformarsi al diverso indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il valore derivante dal calcolo automatico rappresenta un valore convenzionale ai fini fiscali che sostituisce quello reale, dovrebbe allora coerentemente accogliere i ricorsi dei contribuenti, indipendentemente dalla tempestività o meno della dichiarazione modificativa e senza necessità alcuna di una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70 (Norme in materia tributaria nonchè per la semplificazione delle procedure di accatastamento degli immobili urbani), convertito, con modificazioni, in legge 13 maggio 1988, n. 154, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Bari con l’ordinanza in epigrafe;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 3, e 34, commi 5 e 6, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Bari con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2001.