Sentenza n. 138/2001

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SENTENZA N.138

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente         

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 176 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 30 marzo 2000 dal Tribunale di sorveglianza di Sassari nel procedimento di sorveglianza nei confronti di G. C., iscritta al n.407 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

1. — Con ordinanza emessa il 30 marzo 2000 (r.o. n. 407 del 2000), il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 176 del codice penale, nella parte in cui — secondo l’interpretazione datane dalla Corte di cassazione ed assunta dal rimettente quale "diritto vivente" — attribuisce particolare rilievo, ai fini della concessione della liberazione condizionale, nel caso in cui il condannato si trovi nell’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato, alle manifestazioni di effettivo interessamento del condannato stesso per la situazione morale e materiale delle persone offese ed ai tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per attenuare, se non riparare interamente, i danni provocati.

  Il giudice a quo premette, in punto di fatto, che con ordinanza del 1° aprile 1999 il Tribunale di sorveglianza di Sassari, ritenendo sussistenti le condizioni previste dall’art. 176 cod. pen., aveva concesso la liberazione condizionale a persona condannata all’ergastolo per duplice omicidio. A seguito di impugnazione del pubblico ministero — che lamentava la mancanza ed illogicità della motivazione in ordine al requisito del "sicuro ravvedimento" del condannato — la Corte di cassazione aveva annullato il provvedimento con rinvio "per nuovo esame" allo stesso Tribunale, enunciando il principio di diritto in forza del quale il "sicuro ravvedimento", richiesto dalla legge ai fini della concessione della liberazione condizionale, non può identificarsi in una "normale buona condotta", ma postula, al contrario, comportamenti positivi e sintomatici dell’avvenuto abbandono delle scelte devianti. In tale prospettiva — sempre secondo la regula iuris dettata dal giudice di legittimità — assume uno specifico rilievo la fattiva volontà del reo di eliminare o attenuare le conseguenze dannose del reato, con la conseguenza che, anche nel caso di impossibilità materiale di adempimento delle obbligazioni civili da esso derivanti, debbono essere particolarmente valutate le manifestazioni di effettivo interessamento del condannato per la situazione morale e materiale delle persone offese ed i tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per lenire il pregiudizio arrecato.

  Ad avviso del rimettente, tale interpretazione — consolidata nella giurisprudenza di legittimità e comunque vincolante nell’ambito del giudizio di rinvio in forza dell’art. 627 cod. proc. pen. — porrebbe la norma denunciata in contrasto sia con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena che con quello di uguaglianza.

  Sotto il primo profilo, una volta inquadrata la liberazione condizionale tra le misure premiali penitenziarie tese alla risocializzazione dei condannati all’ergastolo o a lunghe pene detentive, si dovrebbe infatti ritenere che il "sicuro ravvedimento", richiesto dall’art. 176 cod. pen., vada accertato sulla base dei risultati del trattamento rieducativo durante tutto il corso dell’esecuzione della pena, prescindendo dalla considerazione di interessi civilistici di natura patrimoniale, quali quelli delle parti offese: conclusione, questa, avvalorata anche dalla previsione, nell’ordinamento penitenziario, dell’istituto premiale della remissione del debito, il quale implica la rinuncia dello Stato ad un suo credito al fine di agevolare la risocializzazione dei condannati in disagiate condizioni economiche. D’altro canto, la circostanza che la norma impugnata subordini espressamente la concessione della liberazione condizionale all’adempimento delle obbligazioni civili, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle, renderebbe palese come l’attività risarcitoria rappresenti una condizione di natura esclusivamente "oggettiva", non utilizzabile come criterio di valutazione del ravvedimento.

  Sotto il secondo profilo, poi, l’interpretazione adottata dalla Corte di cassazione determinerebbe — a giudizio del rimettente — una ingiustificata disparità di trattamento fra i condannati che dispongono dei mezzi economici per adempiere gli obblighi risarcitori e quelli che ne sono privi. Mentre, infatti, i primi potrebbero essere considerati "ravveduti" sulla base della sola osservazione svolta durante il trattamento penitenziario, a prescindere dal reale interessamento per le vicende delle persone offese (implicito nel pagamento di una somma di denaro); per i secondi si richiederebbe, invece, in aggiunta alla prova dell’impossibilità di risarcire il danno, anche una concreta manifestazione di solidarietà verso le stesse.

  Da ultimo, ed in punto di rilevanza, il Tribunale rimettente rimarca come il quesito di costituzionalità sollevato condizioni l’esito del giudizio a quo, giacchè, nel caso di specie, l’avvenuta rieducazione dovrebbe aversi per certa alla luce della condotta tenuta dal condannato durante il lungo periodo di carcerazione e poi in regime di semilibertà, ed altrettanto sicura risulterebbe, a fronte degli accertamenti svolti, la sua incapacità di assolvere le obbligazioni risarcitorie derivanti dai reati commessi; situazione nella quale, peraltro, il reo non si sarebbe mai interessato della sorte dei familiari delle vittime, attivandosi per attenuare i danni loro cagionati.

  2. — Nel giudizio di costituzionalità é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, di infondatezza della questione.

Considerato in diritto

  1. — Il Tribunale di sorveglianza di Sassari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 176 cod. pen., nella parte in cui, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di cassazione — interpretazione che il rimettente assume in termini di "diritto vivente" e che risulta comunque vincolante per il rimettente stesso, in quanto giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. — attribuisce particolare rilievo, ai fini della valutazione del "sicuro ravvedimento" richiesto per la concessione della liberazione condizionale, nel caso in cui il condannato si trovi nell’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato, alle manifestazioni di effettivo interessamento del condannato stesso per la situazione morale e materiale delle persone offese ed ai tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per attenuare, se non riparare interamente, i danni provocati.

  Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata violerebbe, in tale lettura, sia l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto subordinerebbe la finalità rieducativa, cui l’istituto della liberazione condizionale é ispirato, ad interessi civilistici di natura patrimoniale; sia l’art. 3 della Carta, in quanto introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra i condannati che dispongono dei mezzi economici per adempiere le obbligazioni civili (i quali potrebbero essere considerati "ravveduti" sulla base dei soli risultati del trattamento penitenziario) ed i condannati che ne sono privi (ai quali si richiederebbe, di contro, in aggiunta alla dimostrazione dell’incapacità di adempiere dette obbligazioni, anche una fattiva "manifestazione di solidarietà" verso le persone offese).

  2. — La questione non é fondata.

  Quanto alla prima delle due censure in cui essa si articola, giova rimarcare come la liberazione condizionale sia istituto che non solo "si inserisce decisamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena" (v., da ultimo, sentenza n. 418 del 1998), ma che si pone, altresì, come momento tendenzialmente terminale del trattamento progressivo di "risocializzazione" del condannato a pena detentiva, promuovendone il pieno reinserimento nel tessuto sociale. Tale collocazione "terminale" dell’istituto si salda logicamente con il presupposto normativo, stabilito dall’art. 176, primo comma, cod. pen., di un "ravvedimento", non meramente congetturale o probabile, ma "sicuro", ossia certamente avvenuto.

  In simile prospettiva, anche qualora si volesse attribuire al concetto di "rieducazione", evocato dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, un contenuto "minimale" e puramente "negativo" — limitandolo al solo rispetto della "legalità esteriore" e, cioé, all’acquisizione dell’attitudine a vivere senza commettere (nuovi) reati — resta il fatto che una prognosi sicuramente favorevole su tale versante non può prescindere dalla valutazione di comportamenti che rivelino la acquisita consapevolezza, da parte del reo, dei valori fondamentali della vita sociale. Trova collocazione in questa cornice l’assunto della giurisprudenza di legittimità — posto come immediato antecedente logico della soluzione interpretativa oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità — in forza del quale il "sicuro ravvedimento", di cui all’art. 176 cod. pen., non può essere identificato sic et simpliciter in una "normale buona condotta" — ossia nella mera astensione da violazioni delle norme penali e di disciplina penitenziaria nel corso dell’esecuzione della pena — ma postula comportamenti positivi, sintomatici dell’abbandono, anche per il futuro, delle scelte criminali.

Ora, tra i valori fondamentali della vita in comune deve evidentemente annoverarsi — ed in posizione prioritaria — la solidarietà sociale, la quale richiede l’adempimento di doveri che l’art. 2 della Costituzione definisce inderogabili. E, d’altro canto, rispetto a chi si sia reso autore di un reato, un indice particolarmente significativo della acquisita consapevolezza di tale valore non può non essere rappresentato dall’atteggiamento assunto nei confronti della vittima del reato stesso.

Sotto questo profilo, é dunque pienamente coerente con la finalità rieducativa, della quale la liberazione condizionale partecipa, la condizione normativa espressa dell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salva la dimostrazione dell’impossibilità di provvedervi (art. 176, quarto comma, cod. pen.): condizione che, per diffuso convincimento, viene in effetti in rilievo, nell’economia dell’istituto — contrariamente a quanto sembra ritenere il Tribunale rimettente — non solo e non tanto per la sua funzione oggettiva di reintegrazione patrimoniale, ma anche e soprattutto come indice "soggettivo" dell’intervenuto ravvedimento.

Ma, al tempo stesso, risulta perfettamente in linea con la predetta finalità anche la lettura giurisprudenziale della norma che il giudice a quo contesta, concernente il caso di impossibilità di adempimento delle obbligazioni civili. La circostanza, infatti, che pure in simile evenienza il condannato dimostri solidarietà nei confronti della vittima, interessandosi delle sue condizioni e facendo quanto é possibile per lenire il danno provocatole, anzichè assumere un atteggiamento di totale indifferenza, non può non avere — per le considerazioni svolte — un particolare peso nella verifica dei risultati del percorso rieducativo.

Nè ha pregio, in contrario, l’argomento che il giudice a quo ritiene di poter ricavare dall’istituto della remissione del debito per le spese del procedimento e di mantenimento, previsto dall’ordinamento penitenziario a favore dei condannati in disagiate condizioni economiche (art. 56 della legge 26 luglio 1975, n. 354). Ben diversa é, infatti, l’incidenza, sotto il profilo avuto di mira, del debito in parola rispetto a quello per i danni direttamente provocati al soggetto passivo del reato: nè, d’altra parte, la soluzione interpretativa di cui si discute può essere considerata alla stregua di un "impedimento" o, comunque, di un "ostacolo normativo" sulla direttrice della risocializzazione del condannato non abbiente. Nell’enunciare il principio in questione, difatti, la Cassazione, per un verso, muove dalla premessa che l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili, cui ha riguardo l’art. 176, quarto comma, cod. pen., deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo (non occorre, cioé, affinchè essa resti integrata, un totale difetto di risorse economiche); e, per altro verso, ha cura di sottolineare come le manifestazioni di "interessamento" per le vittime ed i tentativi di lenire il nocumento loro causato — che il giudice deve "particolarmente valutare" nell’esprimersi sul "sicuro ravvedimento" — restino comunque confinati nei limiti delle concrete possibilità del reo (e, cioé, di quanto da lui realisticamente "esigibile").

3. — Manifestamente priva di consistenza é la seconda censura, riferita all’art. 3 della Costituzione: giacchè l’interpretazione giurisprudenziale avversata dal Tribunale rimettente, lungi dal compromettere, assicura nella sostanza il rispetto del principio di uguaglianza.

Quell’"indice del ravvedimento" che per il condannato che ne ha la capacità viene ricavato dall’effettivo ed integrale adempimento delle obbligazioni civili, per il condannato che non ha mezzi adeguati é tratto da alternative forme di interessamento per le sorti delle persone offese, le quali tengono luogo del concreto sacrificio economico richiesto al primo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 176 del codice penale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Sassari con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2001.