Ordinanza n. 58

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ORDINANZA N. 58

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 97, comma 4, 105, comma 5, e 484 del codice di procedura penale e degli articoli 1 e 26 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, promossi con ordinanze emesse il 20 e il 17 dicembre 1999 dal Tribunale di Latina, iscritte ai nn. 130 e 131 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 novembre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 20 dicembre 1999, il Giudice monocratico del Tribunale di Latina, in funzione di pretore ai sensi degli articoli 42 e 219 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, solleva, in riferimento agli articoli 3, 10, 24, 76, 77, 101 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 97, comma 4, 105, comma 5, e 484 del codice di procedura penale "nella parte in cui non consentono la prosecuzione del dibattimento in assenza del difensore dell’imputato, qualora tutti i difensori immediatamente reperibili e designati dall’autorità giudiziaria rifiutino, senza legittimo impedimento, di assumere e svolgere le funzioni di sostituto del difensore che non partecipi al dibattimento in violazione del provvedimento che ritiene non sussistenti i requisiti di cui all’art. 486, comma 5, cod. proc. pen.";

che il giudice a quo premette in fatto che il processo ha già subito numerosi rinvii a causa dell’astensione collettiva dei difensori dalle udienze, iniziata nel luglio 1999 e destinata a protrarsi sino al marzo 2000, motivata dalla mancata copertura integrale dei posti nell’organico dei magistrati del Tribunale di Latina e comunque dalla insufficienza dello stesso;

che – prosegue il remittente – a seguito del rigetto della richiesta di rinvio, motivato dalla irragionevole durata della astensione dalle udienze, il difensore, nonostante l’evidente prossimità del compimento del termine prescrizionale, ha ribadito la propria volontà di non partecipare al dibattimento e tutti i sostituti immediatamente reperibili, nominati ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen., anche tra gli iscritti ad albi territoriali differenti, hanno dichiarato di aderire anch’essi alla astensione;

che, in tale situazione, ad avviso del giudice a quo, l’eventualità che un’astensione protrattasi così a lungo possa dare luogo a rilievi disciplinari o a sanzioni amministrative (nell’ordinanza si sottolinea peraltro che, secondo la sentenza di questa Corte n. 171 del 1996, non sono applicabili agli avvocati le sanzioni disciplinari previste dalla legge 12 giugno 1990, n. 146, e si esclude, in conformità alla giurisprudenza del Tribunale di Latina, di poter ravvisare nella condotta dei difensori il reato di cui all’art. 340 cod. pen.), non inciderebbe sulla rilevanza della questione, poiché questa investe solo la mancanza di strumenti processuali che consentano di proseguire il giudizio e di ovviare a una stasi procedimentale destinata a protrarsi indefinitivamente;

che, a giudizio del remittente, la situazione rappresentata sarebbe causata dalla mancanza di norme che disciplinino le procedure e le misure consequenziali alla violazione dell’art. 2 della legge n. 146 del 1990, quale risultante dalla sentenza n. 171 del 1996 di questa Corte, relativamente ai casi in cui le modalità attuative dell’astensione, per l’assoluta generalità delle adesioni e la mancanza di limiti temporali alla agitazione, rendano di fatto impossibile l’esercizio della giurisdizione anche nel caso in cui il giudice respinga la richiesta di rinvio, nomini un sostituto del difensore astenutosi e disponga procedersi oltre;

che questa Corte – prosegue il remittente – nella citata sentenza, pur ritenendo non applicabili agli avvocati le disposizioni degli articoli 8-10 e 12-14 della legge n. 146 e lasciando al legislatore il compito di definire in modo organico le misure atte a realizzare l’equilibrata tutela dei beni coinvolti, evidenziava la necessità di impedire situazioni quale quella descritta in precedenza, ossia la impossibilità di trattare il dibattimento per periodi di tempo di durata tale da risultare all’evidenza irragionevoli;

che, ad avviso del remittente, gli articoli 97, comma 4, 105, comma 5, e 484, cod. proc. pen., nel loro combinato disposto, determinerebbero il blocco dell’attività giudiziaria imponendo al giudice l’obbligo di trattare il dibattimento alla presenza di un difensore anche nei casi in cui sia materialmente impossibile avvalersi di un iscritto agli albi per l’adesione di tutti i professionisti interpellati, compresi quelli iscritti in albi professionali diversi da quello locale, alla astensione dalle udienze;

che, secondo il giudice a quo, risulterebbe violato, innanzitutto, il canone della ragionevolezza, in quanto le disposizioni censurate non consentirebbero di procedere, in simili casi, in assenza del difensore che non partecipi al dibattimento ancorché non legittimamente impedito;

che, sempre secondo il remittente, le suindicate disposizioni contrasterebbero, inoltre, con gli articoli 10, 76 e 77 della Costituzione, in relazione al mancato adeguamento degli istituti del codice ai principî internazionali in materia di giusto processo, desumibili dagli articoli 6 e 17 della convenzione europea dei diritti dell’uomo: impedire la celebrazione del dibattimento anche in casi quale quello in esame significherebbe, infatti, ad avviso del giudice a quo, non soltanto non garantire la ragionevole durata del processo, ma addirittura sancire la possibilità istituzionale dell’abuso del diritto di associazione e di manifestazione del pensiero attuato mediante astensioni collettive a catena che potrebbero condurre all’estinzione dei reati per prescrizione;

che, infine, gli articoli 97, comma 4, 105, comma 5, e 484, comma 2, cod. proc. pen. contrasterebbero, secondo il remittente, con l’articolo 101 della Costituzione, in quanto l’esercizio della giurisdizione e l’esecuzione dell’ordinanza dibattimentale, che nega la sussistenza di un legittimo impedimento, sarebbero rimessi alla volontà collettiva degli aderenti alla astensione; sarebbe altresì violato l’art. 112 della Costituzione, in quanto verrebbe impedito l’esercizio dell’azione penale, con una stasi processuale virtualmente perenne, la cui rimozione dipenderebbe esclusivamente dalla volontà dei partecipanti all’astensione;

che, ad avviso del giudice a quo, l’accoglimento della questione, nei termini prospettati, non troverebbe ostacolo nel fatto che il nostro ordinamento non consente la possibilità dell’autodifesa nel processo penale, dal momento che la giurisprudenza di questa Corte, che ha sempre escluso il ricorso all’autodifesa, sarebbe estranea al caso in esame, posto che, non solo l’attuale sistema processuale di tipo accusatorio consentirebbe assai più del precedente (al quale si riferirebbero le decisioni di questa Corte) l’autodifesa, ma addirittura prevederebbe ipotesi in cui l’assistenza del difensore non sarebbe necessaria, come nei casi di cui all’art. 447 cod. proc. pen. in tema di applicazione della pena su richiesta e di cui all’art. 309 in materia di misure cautelari coercitive ovvero ancora nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione;

che, con una seconda ordinanza emessa il 17 dicembre 1999, lo stesso giudice solleva, in riferimento agli articoli 3, 10, 24, 76, 77, 101 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 97 e 484 cod. proc. pen. nonché degli articoli 1 e 26 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, nella parte in cui non consentono la nomina degli aventi titolo all’iscrizione all’albo degli avvocati quali sostituti del difensore che non partecipi al dibattimento sebbene non legittimamente impedito, qualora tutti gli iscritti agli albi degli avvocati immediatamente reperibili abbiano opposto rifiuto;

che anche in tale ordinanza il remittente riferisce della situazione venutasi a creare presso il Tribunale di Latina a causa della astensione degli avvocati, proclamata nel luglio del 1999 e destinata a protrarsi, salvo proroghe, fino al 10 marzo 2000;

che, in questo caso, il remittente individua la causa del blocco dell’attività giudiziaria nell’obbligo, per il giudice, di nominare quale sostituto del difensore di udienza esclusivamente un iscritto agli albi professionali degli avvocati anziché una persona avente titolo alla iscrizione, nei casi in cui sia impossibile avvalersi di un iscritto agli albi a causa dell’adesione alla astensione collettiva di tutti i professionisti interpellati;

che le disposizioni indicate, ad avviso del giudice a quo, contrasterebbero, in primo luogo, con gli articoli 3, 10, e 24 della Costituzione, e cioè con il principio di ragionevolezza, con l’obbligo di adeguamento dell’ordinamento italiano alle norme internazionali e con il principio della ragionevole durata del processo;

che, in particolare, quanto alla irragionevolezza delle disposizioni censurate, il remittente afferma che la stessa deriverebbe dalla inerzia del legislatore che, a distanza di tre anni dalla sentenza di questa Corte n. 171 del 1996, avrebbe omesso ogni intervento in materia di disciplina delle procedure e delle conseguenze della inosservanza degli obblighi di cui all’articolo 2 della legge n. 146 del 1990;

che, ad avviso del giudice a quo, anche in vista dell’allora imminente introduzione nell’articolo 111 della Costituzione del principio del giusto processo (principio peraltro da ritenersi già costituzionalizzato, ai sensi dell’art. 10 della Costituzione, attraverso il recepimento della convenzione europea dei diritti dell’uomo), non sarebbe ragionevole di per sé, né conforme ai principî del processo accusatorio, l’obbligo della presenza del difensore alle udienze dibattimentali nei casi in cui l’assenza derivi dalla volontaria scelta di tutti gli appartenenti alla classe forense di non adempiere al loro ufficio;

che, infatti, prosegue il remittente, la legge dovrebbe assicurare la possibilità di difendersi in giudizio, ma ciò comporterebbe necessariamente l’obbligatoria presenza del difensore;

che pertanto, ad avviso del giudice a quo, non sarebbe ragionevole che il legislatore, da un lato, imponga la presenza come difensore di un iscritto agli albi degli avvocati e, dall’altro, non preveda alcuno strumento normativo processuale e ordinamentale per risolvere i casi in cui tutti i legittimati materialmente reperibili per lo svolgimento dell’attività difensiva necessitata si rifiutino di svolgere l’ufficio difensivo conferito, dichiarando di aderire ad un’astensione collettiva dalle udienze che si sostanzierebbe in un abuso del diritto;

che la irrazionalità, prosegue il giudice a quo, andrebbe ravvisata in modo particolare negli articoli 1 e 26 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, nella parte in cui impongono, anche in casi come quello descritto, di nominare il difensore scegliendolo tra gli iscritti agli albi degli avvocati anziché tra gli aventi titolo all’iscrizione, non consentendo di derogare alla condizione della effettiva iscrizione anche quando sussistano tutti i requisiti per l’esercizio dell’attività difensiva ad eccezione della mera formale iscrizione all’albo professionale, ben potendo la verifica di tali requisiti essere eseguita dall’autorità giudiziaria procedente nei casi in cui, ai limitati fini dell’articolo 97, comma 4, cod. proc. pen., sia necessario garantire all’imputato un difensore;

che la omessa previsione di una simile possibilità per il giudice procedente sarebbe, ad avviso del remittente, illegittima anche sotto il profilo del mancato adeguamento ai trattati, dal momento che gli artt. 59 e ss. del trattato CEE e l’art. 4 della direttiva 77/249/CEE escludono espressamente l’iscrizione ad un albo quale requisito per l’esercizio della professione legale;

che, secondo il giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero anche, sotto diversi profili, gli articoli 76 e 77 della Costituzione, perché con esse il legislatore delegato non avrebbe previsto, in contrasto con quanto stabilito dalla direttiva n. 105 della legge di delegazione, criteri che garantiscano l’effettività della difesa d’ufficio, non avrebbe adeguato, contravvenendo alla prima direttiva dell’articolo 2 della medesima legge, l’ordinamento interno al principio sancito nell’articolo 17 della convenzione europea dei diritti dell’uomo in tema di ragionevole durata del processo, e non avrebbe adeguato al nuovo codice gli istituti processuali preesistenti, poiché non avrebbe previsto la possibilità della sostituzione del difensore con soggetti non iscritti all’albo, possibilità che sarebbe stata invece consentita dall’articolo 38 della legge n. 36 del 1934 attraverso il richiamo agli articoli 130, 131 e 132 del codice di procedura penale del 1930;

che gli articoli 97, comma 4, e 484 cod. proc. pen. contrasterebbero, infine, ad avviso del remittente, con gli articoli 101 e 112 della Costituzione perché assoggetterebbero il giudice nell’esercizio della giurisdizione a scelte determinate non dalla legge ma da fattori contingenti e da organi esterni all’amministrazione della giustizia, con possibile paralisi dell’esercizio dell’azione penale;

che è intervenuto in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni connesse e che pertanto i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi unitariamente;

che successivamente alle ordinanze di rimessione è stata approvata, promulgata e pubblicata la legge 11 aprile 2000, n. 83 (Modifiche ed integrazioni alla legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati), la quale ha introdotto nella legge 12 giugno 1990, n. 146, disposizioni volte a consentire la applicabilità della disciplina in questa stessa legge contenuta anche ai lavoratori autonomi, ai professionisti e ai piccoli imprenditori;

che, a seguito del mutato quadro normativo, si rende necessaria la restituzione degli atti al giudice remittente affinché questi valuti se permanga la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Latina.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 13 marzo 2001.