Ordinanza n. 50

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ORDINANZA N. 50

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72, terzo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), promosso con ordinanza emessa il 1° marzo 2000 dal Tribunale di Pisa, iscritta al n. 343 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 1° marzo 2000, pervenuta a questa Corte il 22 maggio 2000, il Tribunale di Pisa in composizione monocratica, nel corso di un dibattimento penale in cui l’imputato é chiamato a rispondere di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572 cod. pen.), rilevato che le funzioni di pubblico ministero all’udienza erano state delegate dal Procuratore della Repubblica ad un ufficiale di polizia giudiziaria, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 111 e 3 della Costituzione, dell’art. 72, terzo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) - nel testo modificato, da ultimo, dall’art. 58 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 - , il quale, nell’ambito della disciplina della delega delle funzioni del pubblico ministero nei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, prevede che "nella materia penale, é seguito altresì il criterio di non delegare le funzioni del pubblico ministero in relazione a procedimenti relativi a reati diversi da quelli per cui si procede con citazione diretta a giudizio secondo quanto previsto dall’art. 550 del codice di procedura penale";

che il remittente ricorda come, secondo "una interpretazione corrente", detta prescrizione venga intesa nel senso che la violazione dell’indicato criterio non vale a privare il delegato della legittimazione al compimento degli atti e ad inficiare di nullità il procedimento nel quale egli abbia svolto le funzioni di pubblico ministero;

che ne conseguirebbe che, in un processo per un reato di rilevante gravità, che presenta particolari profili di difficoltà di acquisizione e valutazione della prova e di qualificazione giuridica della condotta, quale quello in corso davanti allo stesso giudice a quo, le funzioni di pubblico ministero sarebbero svolte da un ufficiale di polizia giudiziaria, senza che sia consentito alle altre parti di prospettare, e al giudice di adottare, un rimedio processuale che garantisca la presenza in dibattimento di un magistrato di carriera;

che la norma in questione sarebbe, in primo luogo, in contrasto con l’art. 111 della Costituzione, in quanto, nei procedimenti per reati più gravi e di complesso accertamento (quali sarebbero quelli che non ammettono la citazione diretta a giudizio), non sarebbe garantita la partecipazione, nella veste di rappresentante della pubblica accusa, di un soggetto qualificato per professionalità e indipendenza, onde il pubblico ministero di udienza verserebbe in condizione minoritaria rispetto alle altre parti, in contrasto con il principio di parità delle parti nel contraddittorio;

che, inoltre, sarebbe violato l’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento che si verificherebbe, per effetto della valutazione meramente discrezionale del procuratore della Repubblica delegante, nei procedimenti per reati che non ammettono la citazione diretta, a seconda che sia o meno esercitata la facoltà di delega, restando così condizionata in modo arbitrario la tutela dell’interesse della parte offesa a che il ruolo della pubblica accusa sia esercitato in condizioni di sostanziale parità con la difesa dell’imputato;

che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l’inammissibilità, e comunque per l’infondatezza, della questione.

Considerato che il remittente non censura la previsione, di per sè, della possibilità di delegare le funzioni del pubblico ministero in dibattimento ad un ufficiale di polizia giudiziaria, ma lamenta che la norma denunciata non ponga una preclusione assoluta alla delegabilità di tali funzioni nel caso di reati diversi da quelli per i quali si procede con citazione diretta a giudizio;

che, posta l’ammissibilità della delega, rientra nella discrezionale valutazione del legislatore la scelta dei procedimenti per i quali ammetterla, e quindi anche la scelta, per la individuazione dei procedimenti nei quali può essere esercitata la delega stessa, di un criterio di preclusione assoluta, processualmente sanzionato, ovvero di un criterio più elastico e derogabile, il cui eventuale cattivo uso da parte del procuratore della Repubblica delegante resti privo di conseguenze processuali;

che, in ogni caso, non ha fondamento l’assunto secondo cui l’utilizzo da parte del titolare della funzione requirente della facoltà di delega prevista dalla legge – utilizzo naturalmente vincolato, oltre che alle condizioni prescritte, alla necessità della prudente valutazione, da parte del delegante, delle circostanze del caso concreto – potrebbe dar luogo ad un difetto di contraddittorio per inidoneità del pubblico ministero delegato, in contrasto con l’art. 111 della Costituzione;

che, infatti, il principio della parità fra le parti nel contraddittorio é rispettato quando siano assolte le condizioni volute dalla legge per l’investitura e per l’esercizio della funzione requirente; mentre l’eventuale difetto di idoneità in concreto da parte di chi sia stato delegato é circostanza di mero fatto che non può riflettersi sulla legittimità della norma che prevede la facoltà di delega;

che, parimenti, non é fondata la censura di violazione dell’art. 3 della Costituzione, per disparità di trattamento, poichè il principio di eguaglianza non esclude affatto, di per sè, la possibilità che la legge attribuisca poteri discrezionali, come quello, in esame, di delega delle funzioni requirenti, poteri il cui esercizio, nei limiti e alle condizioni prescritte dalla stessa legge, non si risolve in disparità di trattamento, ma dà luogo solo a diverse situazioni di fatto correlate alle valutazioni compiute in concreto dal titolare di detti poteri;

che, d’altra parte, l’eventuale uso scorretto o inopportuno, da parte del titolare dell’ufficio del pubblico ministero, della discrezionalità insita nella facoltà di delega, pur quando non dia luogo a rimedi nell’ambito del singolo processo, si risolverebbe in disfunzione dell’ufficio medesimo, suscettibile di essere rilevata e corretta attraverso gli appropriati strumenti organizzativi e disciplinari;

che pertanto la questione, così come sollevata, si palesa manifestamente infondata sotto ogni profilo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, terzo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), sollevata, in riferimento agli articoli 111 e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Pisa con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 6 marzo 2001.