Ordinanza n. 570/2000
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ORDINANZA N. 570

ANNO 2000

 

 REPUBBLICA ITALIANA

 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11 del codice di procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, con ordinanza emessa il 18 novembre 1999 dalla Corte di appello di Bari, iscritta al n. 749 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 novembre 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che la Corte di appello di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101 e 107 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la disciplina dettata in materia di competenza territoriale per i procedimenti in cui sia imputato o parte lesa un magistrato si applichi anche ai procedimenti in cui tale veste sia assunta da un collaboratore di cancelleria, quantomeno quando questi presti servizio nello stesso ufficio giudiziario cui appartengono i magistrati giudicanti;

 che il rimettente premette che una collaboratrice di cancelleria, condannata in primo grado per i reati di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento personale, commessi mentre era in servizio presso la sezione dei giudici per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, nelle more del processo di appello era stata trasferita presso la Corte di appello di Bari e le erano stati assegnati incarichi concernenti la esecuzione penale, comportanti rapporti particolarmente frequenti con i consiglieri delle sezioni penali, in particolare con quelli del collegio investito dell'appello da lei proposto; che tali rapporti di collaborazione e di conoscenza potrebbero - secondo il giudice a quo - turbare la <<serenità funzionale>> dei magistrati chiamati a giudicare dell’appello, con grave pregiudizio per l'imparzialità del giudice;

che, nella specie, non è stato possibile porre rimedio alla situazione così creatasi ricorrendo all'istituto dell'astensione per gravi ragioni di convenienza, in quanto la dichiarazione in tale senso presentata dal presidente-relatore del collegio è stata respinta dal Presidente della Corte di appello;

 che il rimettente rileva che, come sottolineato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 390 del 1991 e con la ordinanza n. 462 del 1997, proprio al fine di assicurare la serenità e l'obiettività dei giudizi, l'imparzialità e terzietà del giudice, il diritto di difesa e il principio di eguaglianza, tutelati dagli artt. 3, 24, 101 e 107 Cost., l'art. 11 cod. proc. pen. prevede che i criteri per la determinazione della competenza territoriale siano derogati nel caso in cui vengano giudicati - in qualità di indagati o imputati, persone offese o danneggiati - magistrati che esercitano o esercitavano al momento del fatto le funzioni nel distretto cui appartiene l'ufficio competente secondo le regole ordinarie;

 che, a maggior ragione, le medesime esigenze di garanzia sussisterebbero, ad avviso del giudice a quo, nella situazione di fatto sopra descritta, ove ad essere giudicata è una collaboratrice di cancelleria, con la quale intercorre un reale rapporto di conoscenza, di collaborazione e di frequentazione, e non un rapporto formale di colleganza, quale quello tra magistrati che, pur appartenendo al medesimo distretto di corte di appello, svolgono talvolta le loro funzioni in sedi diverse e distanti tra loro, e potrebbero neppure conoscersi;

 che l'omessa estensione della disciplina derogatoria dettata dall'art. 11 cod. proc. pen. ai collaboratori di cancelleria che prestano servizio presso lo stesso ufficio del magistrato giudicante si pone pertanto in contrasto, ad avviso del giudice rimettente, con l'art. 3 Cost., a cagione della disparità di trattamento riservata a situazioni identiche, nonché con i principi costituzionali evocati nelle già menzionate pronunce della Corte costituzionale;

 che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, in base alla considerazione che la disciplina derogatoria della competenza territoriale dettata dall'art. 11 cod. proc. pen. ha portata eccezionale, in quanto strettamente legata alla particolare funzione giudiziaria svolta dal magistrato, e pertanto non è suscettibile di essere estesa alla situazione, disomogenea e non comparabile, dei collaboratori di cancelleria, ai quali non sono riferibili né i compiti né i poteri propri della funzione giurisdizionale.

 Considerato che la questione di legittimità costituzionale sottoposta all'esame di questa Corte ha come presupposto una situazione di fatto assolutamente patologica, quale è quella di una collaboratrice di cancelleria che, condannata in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, nelle more del processo d'appello è stata trasferita proprio presso l’ufficio giudiziario ove pende il procedimento a suo carico, nel quale per di più svolge un servizio che comporta frequenti rapporti con i magistrati delle sezioni penali;

 che l’anomalia di tale situazione dimostra di per sé l'infondatezza della pretesa del rimettente di estendere ai collaboratori di cancelleria la deroga prevista dall'art. 11 del codice di procedura penale in tema di competenza territoriale nei casi in cui un magistrato assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini, di imputato, ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato;

 che, infatti, le posizioni del magistrato e del collaboratore di cancelleria sono del tutto disomogenee e non comparabili, per cui solo nei confronti dei magistrati, la cui attività si svolge in uffici individuati secondo regole rigide di competenza territoriale, nel rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, si giustifica la disciplina derogatoria prevista dall'art. 11 cod. proc. pen. (ordinanza n. 462 del 1997);

che, in particolare, il principio dell'indipendenza delle funzioni giudiziarie (art. 104 Cost.) trova tra l’altro attuazione nella garanzia della inamovibilità del magistrato, sancita dall'art. 107, primo comma, Cost., con la conseguenza che, non potendo il magistrato sottoposto a procedimento penale (ovvero persona offesa o danneggiata) essere per ciò solo trasferito ad altra sede, l’imparzialità del giudice chiamato a giudicare un collega, anche sotto il profilo della immagine di neutralità e di terzietà presso l'opinione pubblica, è stata assicurata trasferendo la competenza per territorio a giudice appartenente ad altro distretto di corte di appello, così come disposto dall'art. 11 cod. proc. pen.;

 che, al contrario, il collaboratore di cancelleria imputato per reati rientranti nella sfera della competenza territoriale dell'ufficio giudiziario ove svolge le proprie funzioni amministrative può, nel rispetto della disciplina che regola il suo stato giuridico, essere trasferito ad altra sede e, comunque, nella specie, non avrebbe dovuto essere assegnato all’ufficio giudiziario designato a giudicarlo;

 che, come questa Corte ha avuto recentemente occasione di precisare, non possono essere poste a base dello scrutinio di legittimità costituzionale censure che traggono origine <<da una situazione prospettata come patologica>> (ordinanza n. 439 del 1998), dovendosi invece, nei singoli casi in cui si determini in concreto un pregiudizio per la imparzialità del giudice, fare ricorso agli istituti della astensione e della ricusazione;

che a tal proposito i magistrati della Corte di appello di Bari dovranno valutare se la dichiarazione di astensione in precedenza respinta possa essere riproposta sulla base del canone interpretativo secondo cui «il valore deontico del principio del giusto processo» (formalmente enunciato nel nuovo testo dell'art. 111 Cost.) impone di attribuire alla locuzione "altre gravi ragioni di convenienza" (art. 36, comma 1, lettera h, cod. proc. pen.) la funzione e la portata di norma "di chiusura", che assicuri la imparzialità del giudice per ogni ipotesi non tipicamente individuata (sentenza n. 113 del 2000, richiamata dalla sentenza n. 283 del 2000);

 che la questione deve pertanto essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 11 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 101 e 107 della Costituzione, dalla Corte di appello di Bari, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2000.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in cancelleria il 21 dicembre 2000.