Sentenza n. 433/2000

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SENTENZA N. 433

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Francesco GUIZZI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza emessa il 28 giugno 1999 dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, sui ricorsi riuniti proposti da Maestrini Iolanda ed altri contro l'Ufficio del Registro di Firenze, iscritta al n. 7 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2000 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

1.¾ La Commissione tributaria provinciale di Firenze, con ordinanza del 28 giugno 1999 ¾ emessa in un giudizio promosso da taluni contribuenti avverso avvisi di accertamento di maggior valore di immobili caduti in successione ¾ ha sollevato, in riferimento agli artt. 97, 53 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), "nella parte in cui non consente alla Commissione tributaria provinciale alcun giudizio sulla congruità delle imposte da versare su cui l’Ufficio e il contribuente si sono accordati".

Il giudice a quo, premesso che la sollevata questione appare rilevante ai fini del decidere, giacché, nel corso del processo, dopo che era stato "chiesto ed ottenuto un rinvio per conciliazione alla prima udienza", era pervenuta dall'Amministrazione una proposta di definizione prontamente accolta dalle controparti, osserva che la disposizione censurata consente agli uffici tributari, "a loro insindacabile giudizio e senza neppure motivazione alcuna", di operare "sconti senza limiti rispetto ai valori accertati e sostenuti con la costituzione in giudizio", in assenza di "qualunque parametro di riferimento".

Ad avviso del rimettente, tale "assoluta discrezionalità, esente da motivazione", colliderebbe non solo con il principio di imparzialità di cui all'art. 97 della Costituzione, ma anche con il disposto dell’art. 53, considerato che, a fronte di "conciliazioni prive di controlli, si realizzano discriminazioni inevitabili, anche senza ipotizzare comportamenti illeciti".

Secondo il giudice a quo sarebbe leso, altresì, il principio di "indipendenza" della magistratura da ogni altro potere, consacrato nell’art. 104 della Costituzione; e ciò a motivo della soggezione del giudice tributario ¾ il cui ruolo è delegittimato e ridotto a quello di "notaro" di "un avvenuto accordo su cui non può interferire" ¾ "alle decisioni della Amministrazione", atteso che "il controllo sulla conciliazione proposta è meramente formale e non sulla congruità degli imponibili e, dunque, delle imposte concordate".

Escluso, altresì, che la conciliazione prevista dalla censurata disposizione possa essere equiparata a "quelle che si verificano nell’ambito del giudizio civile", in quanto, nella prima, una delle parti è pubblica "e rappresenta uno degli interessi vitali dello Stato", l'ordinanza rileva che il "paragone" può proporsi, invece, con la materia penale, e, segnatamente, con la "dichiarata incostituzionalità dell’art. 444, comma 2, del codice processuale penale", nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il giudice di valutare la congruità della pena proposta in sede di "patteggiamento" dall’imputato e accettata dal pubblico ministero (sentenza n. 313 del 1990).

2.¾ E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per sentir dichiarare inammissibile o, comunque, infondata la sollevata questione.

Preliminarmente, la difesa erariale, nel rilevare che l’ordinanza di rimessione non indica, in relazione ai commi 1, 4 e 5 del denunciato art. 48, "la sequenza procedimentale in base alla quale in ordine alla proposta di conciliazione si trovi ad esprimersi la Commissione (in udienza) anziché il Presidente della Commissione", osserva che la stessa risulta carente di motivazione "circa la verifica dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità della conciliazione, il cui esito negativo soltanto avrebbe potuto rendere rilevante" la sollevata questione.

Nel merito, si sostiene, anzitutto, l’inconferenza dell'invocato parametro di cui all’art. 97 della Costituzione, che sarebbe, infatti, estraneo "all’area della funzione giurisdizionale". Nel rilevare, altresì, che non possono essere confusi tra loro "disciplina dell’azione dell’Amministrazione e poteri che, per ipotetico vincolo costituzionale, dovrebbero" competere al giudice, si nega, al tempo stesso, che il ruolo di quest'ultimo possa considerarsi ridotto a quello di un notaio, essendo, infatti, il medesimo chiamato a verificare il rispetto delle regole temporali e formali dell’accordo stragiudiziale. Il comportamento dell’ufficio finanziario che avanza o accetta la proposta di conciliazione non sarebbe, del resto, svincolato da qualsiasi parametro normativo, valendo in proposito le previsioni del comma 4-bis dell’art. 37 del decreto legislativo n. 545 del 1992 (introdotto con l’art. 14, comma 2, del decreto legislativo n. 218 del 1997), circa l’attività di indirizzo degli uffici finanziari periferici.

"Frutto di erronea sovrapposizione del piano processuale a quello sostanziale" viene ritenuta dall’Avvocatura la denunciata violazione dell’art. 53 della Costituzione, precetto che vincola, infatti, il legislatore "sul piano sostanziale delle regole inerenti alla configurazione delle fattispecie impositive", ma "non in ordine alla configurazione del processo tributario e dei poteri del giudice".

Escluso, altresì, che le valutazioni espresse dall’Amministrazione finanziaria nella procedura conciliativa siano "suscettibili di essere sindacate nel merito dal giudice tributario in un’ottica di tutela delle ragioni del fisco che contrasterebbe con la sua posizione di terzietà", l’Avvocatura ritiene non pertinente l’evocazione dell’art. 104 della Costituzione, riferibile al solo complesso dei giudici ordinari (a differenza di quanto prevede l’art. 108), sostenendo, al tempo stesso, la legittimità dei giudizi ad istanza di parte, retti dal principio dispositivo.

Del pari, non pertinente sarebbe, ad avviso della parte pubblica, il richiamo della sentenza della Corte costituzionale n. 313 del 1990, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 444, comma 2, del codice di procedura penale, in quanto tale norma non consentiva al giudice di valutare la rispondenza della pena alla sua finalità rieducativa, così traducendosi in un vulnus della stessa funzione costituzionale del titolare del potere di sanzione penale.

Diversa sarebbe, invece, la situazione nel caso della conciliazione giudiziale nel processo tributario, nel quale "l’accordo delle parti supera la necessità della pronuncia giurisdizionale" ed i poteri del giudice sono definiti dal legislatore nell’ambito della sua discrezionalità.

Considerato in diritto

1.¾ La questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in epigrafe riguarda l'art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), "nella parte in cui non consente alla Commissione tributaria provinciale alcun giudizio sulla congruità delle imposte da versare su cui l'Ufficio e il contribuente si sono accordati".

Con tale disposizione il legislatore, al fine di snellire il contenzioso tributario e di rendere più rapide le relative procedure di accertamento, ha dettato una disciplina della conciliazione giudiziale che, nel testo riformato dall'art. 14 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, prevede un rito "ordinario" e un rito "semplificato": il primo finalizzato ad una composizione della lite, da perfezionare nel corso dell'udienza, sulla base di una previa richiesta formulata da una delle due parti; il secondo ad una definizione della controversia che, giusta le modalità previste dal comma 5 del già menzionato art. 48, si concreta nella presentazione di una proposta dell'Ufficio alla quale il contribuente abbia già prestato adesione.

2.¾ In riferimento a questa seconda ipotesi, il giudice a quo, muovendo dalla premessa che la disposizione censurata consenta agli uffici tributari di addivenire alla conciliazione della lite "a loro insindacabile giudizio e senza neppure motivazione alcuna", in assenza oltretutto di "qualunque parametro di riferimento", ritiene violato, anzitutto, il principio di imparzialità di cui all'art. 97 della Costituzione. A suo avviso, tale "assoluta discrezionalità, esente da motivazione", lederebbe anche l’art. 53 della Costituzione, considerato che, a fronte di "conciliazioni prive di controlli, si realizzano discriminazioni inevitabili, anche senza ipotizzare comportamenti illeciti".

Sarebbe inciso, al tempo stesso, il principio di "indipendenza" della magistratura da ogni altro potere, consacrato nell’art. 104 della Costituzione; e ciò a motivo della soggezione del giudice tributario ¾ il cui ruolo è delegittimato e ridotto a quello di "notaro" di "un avvenuto accordo su cui non può interferire" ¾ "alle decisioni della Amministrazione", atteso che "il controllo sulla conciliazione proposta è meramente formale e non sulla congruità degli imponibili e, dunque, delle imposte concordate".

3.¾ Va, anzitutto, respinta l’eccezione dell'Avvocatura dello Stato, secondo la quale la questione sarebbe da reputare inammissibile per difetto di motivazione sotto il profilo della rilevanza.

Giova rammentare, al riguardo, che il menzionato art. 48, comma 5, del decreto legislativo n. 546 del 1992, nel disciplinare il rito c.d. semplificato, dispone che l'Amministrazione può, sino alla data di trattazione in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione in pubblica udienza, depositare una proposta di conciliazione alla quale l’altra parte abbia previamente aderito, disponendosi, altresì, che "se l'istanza è presentata prima della fissazione della data di trattazione", spetta al presidente valutare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità della conciliazione e, se del caso, dichiarare l’estinzione del giudizio.

Poiché, nella specie, la proposta di conciliazione risulta presentata, come si evince dal testo dell'ordinanza, dopo l'udienza di discussione, che era stata rinviata proprio in vista di un possibile accordo fra le parti, non può dubitarsi che spettasse all'organo collegiale, presso il quale il giudizio risultava ormai incardinato, di provvedere in ordine all'intervenuta proposta conciliativa e, pregiudizialmente, anche di sollevare eventuali incidenti di costituzionalità.

Né può condividersi il rilievo che la questione, per poter essere considerata rilevante, avrebbe richiesto la previa verifica con esito negativo dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità della conciliazione, posto che il dubbio sollevato dal giudice concerne proprio la disposizione attributiva della competenza in ordine a tale verifica.

4.¾ Nel merito la questione è infondata.

Va, in primo luogo, rilevata l'inconferenza del richiamo operato agli artt. 97 e 53 della Costituzione, dovuto, come osserva giustamente la parte pubblica, ad un'erronea sovrapposizione di piani, quello sostanziale e quello processuale. Come si evince dal dispositivo dell'ordinanza di rimessione, la questione di costituzionalità che essa intende sollevare si incentra essenzialmente sulle funzioni del giudice tributario, assumendo al riguardo che, a fronte della discrezionalità che in subjecta materia sarebbe attribuita ai funzionari del fisco, la limitazione dei poteri del giudicante alla sola verifica delle condizioni e dei presupposti di ammissibilità della conciliazione, senza la possibilità di controllare la congruità delle determinazioni raggiunte fra le parti in causa, porrebbe la norma denunciata in contrasto, tra l'altro, con i sopra richiamati precetti costituzionali.

Così posta la questione, il rimettente non considera che sia l'art. 97 che l'art. 53 esulano dalla tematica in sé della funzione giurisdizionale, attenendo, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'uno all'organizzazione dell'amministrazione secondo principi di imparzialità e di buon andamento e, l'altro, alla garanzia sostanziale della proporzionalità dell'imposta alla capacità del contribuente (ordinanze n. 30 del 2000 e n. 322 del 1992).

5.¾ Il giudice a quo ritiene, al tempo stesso, che i poteri spettanti in materia di conciliazione all'amministrazione finanziaria compromettano le sue funzioni anche sotto il profilo dell'indipendenza, così risultando violato l'art. 104 della Costituzione.

Nonostante l'improprio riferimento a quest'ultima disposizione, che ha per oggetto le garanzie di indipendenza istituzionale della magistratura ordinaria considerata nel suo complesso, il problema che l'ordinanza intende sollevare, con riguardo alle competenze del giudice tributario, attiene, come si evince dal contesto della stessa, all'indipendenza funzionale del singolo organo dotato di potere giurisdizionale; all'uopo evocando un principio, il cui fondamento va rinvenuto nell'enunciazione generale dell'art. 101, secondo comma (sentenza n. 440 del 1988), in connessione, quanto ai giudici speciali, come nel caso oggetto di rimessione alla Corte, con l'art. 108 della Costituzione. Orbene, è da escludere che il menzionato principio ¾ il quale, mira ad assicurare, come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (sentenze n. 40 del 1964, n. 234 del 1976 e n. 375 del 1996), che l'attività giurisdizionale si svolga sotto l'esclusivo imperio della legge, senza inammissibili influenze esterne ¾ risulti compromesso dalla disposizione denunciata. Infatti, attraverso la medesima, è lo stesso legislatore a definire i limiti della cognizione riservata all'organo giudicante, affidando ad esso, in vista di una più rapida definizione delle controversie tributarie, il compito di accertare se la conciliazione era ammissibile, se rientrava nei casi consentiti e se la relativa procedura è stata correttamente espletata.

Come la Corte ha avuto occasione di rilevare proprio nella sentenza n. 313 del 1990, addotta dal rimettente a sostegno della sollevata questione, il fatto, poi, che al giudice sia attribuito un mero controllo di legittimità non pregiudica l'integrità della funzione, in ragione del ruolo che resta a lui affidato; ruolo che, essendo preordinato alla definizione del giudizio, alla quale le parti non potrebbero altrimenti pervenire, appare di decisivo rilievo e tale da riportarsi alla stessa essenza della funzione giurisdizionale.

Per il resto è sufficiente rilevare che, contrariamente a quanto opina il rimettente, la soluzione accolta in questa sentenza, a proposito dell'art. 444, comma 2, del codice di procedura penale, non può in alcun modo fungere qui da precedente in vista di un eventuale accoglimento, giacché, secondo quanto è dato evincere dalla motivazione, la declaratoria di incostituzionalità cui la Corte è pervenuta, in detta occasione, ha la sua specifica ragione d'essere nel fatto che la norma allora denunciata, nella sua formulazione originaria, non consentendo al giudice di valutare la rispondenza della pena alla sua finalità rieducativa, si risolveva in un vulnus della funzione affidata all'organo giudicante dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, quanto alla determinazione dell'entità della pena stessa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento agli artt. 53, 97 e 104 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 2000.

Francesco GUIZZI, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 ottobre 2000.