Sentenza n. 424/2000

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SENTENZA N. 424

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE  

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale, promossi con ordinanze emesse il 20 maggio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ivrea, il 28 aprile 1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale dei minorenni di L’Aquila, il 29 novembre 1999 dal Tribunale di Ivrea e il 17 dicembre 1999 dal Tribunale di Salerno, rispettivamente iscritte ai nn. 425 e 431 del registro ordinanze 1999 e ai nn. 43 e 125 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 36 e 37, prima serie speciale, dell’anno 1999 e nn. 8 e 15, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. 

Ritenuto in fatto

1.1. – Con ordinanza del 20 maggio 1999 (r.o. 425/1999), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ivrea, nell’udienza preliminare, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale (Ritrattazione), in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione.

1.2. – Nel procedimento principale, due persone, imputate di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.) per avere riferito circostanze non veritiere in sede di informazioni raccolte dalla polizia giudiziaria su iniziativa di quest’ultima, hanno successivamente reso, nell’interrogatorio svolto nell’udienza preliminare, dichiarazioni contrarie a quelle precedenti e, al termine dell’atto, hanno eccepito l’incostituzionalità della disposizione che regola la ritrattazione, in quanto non applicabile nei loro riguardi; a tale eccezione dà corso il giudice di merito, ritenendola non manifestamente infondata.

 Ad avviso del rimettente, a seguito della sentenza n. 101 del 1999 della Corte costituzionale - che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 376, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede la ritrattazione come causa di non punibilità per chi, richiesto dalla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero a norma dell’art. 370 cod. proc. pen. di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false ovvero in tutto o in parte reticenti - si sarebbe determinata una irrazionalità nuova e ulteriore nella materia della ritrattazione.

 Infatti, la disciplina dell’assunzione di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini da parte della polizia giudiziaria di propria iniziativa (art. 351 cod. proc. pen.) e l’assunzione delle stesse informazioni su delega del pubblico ministero (art. 370 cod. proc. pen.) è unitaria, valendo le stesse regole di documentazione (art. 357 cod. proc. pen.), il medesimo rinvio alle norme applicabili nello svolgimento dell’atto (art. 362, comma 1, secondo periodo, in relazione all’art. 351, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen.), la medesima utilizzabilità delle dichiarazioni così acquisite nel prosieguo del processo (art. 500 cod. proc. pen.); ma, a fronte di questa unitarietà di disciplina, si è determinata, in conseguenza della citata pronuncia della Corte costituzionale, una differenza nell’ambito di applicazione della ritrattazione, che è valevole solo in un caso – cioè per le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria operante su delega del pubblico ministero - e non nell’altro. Una differenza, questa, osserva il rimettente, che dipende oltretutto da un elemento formale, del tutto «esterno» alla volontà del dichiarante, il quale potrebbe anche ignorare se l’atto è assunto su iniziativa autonoma della polizia giudiziaria ovvero su delega del pubblico ministero.

 L’ordinanza di rimessione svolge poi una disamina testuale della sentenza n. 101 del 1999 della Corte costituzionale, avente a oggetto una questione non coincidente con quella ora sollevata: mentre il ragionamento della sentenza è condotto sul piano della ingiustificata differenziazione di trattamento di due ipotesi di assunzione di informazioni che, pur se integranti sul piano delle condotte l’una il reato di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.) e l’altra il reato di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.), costituiscono tuttavia aspetti di una stessa attività, facente capo al pubblico ministero quale organo di direzione delle indagini preliminari, nella questione ora rimessa all’esame della Corte è invece prospettata una diversa irrazionalità, che scaturisce proprio dall’estensione della causa di non punibilità quale è stata effettuata con la sentenza costituzionale citata. Né è possibile, osserva il rimettente, dare soluzione al problema in via interpretativa, non potendosi creare una causa di non punibilità nuova, non espressamente prevista dalla legge; è dunque necessario un ulteriore intervento della Corte costituzionale.

 Quanto alla rilevanza, conclude il giudice rimettente, essa sta nella alternativa tra il rinvio a giudizio degli imputati per il reato di favoreggiamento personale loro contestato, e il loro proscioglimento, in caso di accoglimento della questione sollevata.

 1.3. – Nel giudizio così instaurato è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

 Osserva l’Avvocatura che la ragione della declaratoria di incostituzionalità cui fa richiamo il rimettente (sentenza n. 101 del 1999) è, proprio secondo la motivazione di essa, da ravvisare essenzialmente nel fatto che l’assunzione personale e diretta da parte del pubblico ministero di informazioni da persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 370, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen.) e l’assunzione delle medesime informazioni avvalendosi della polizia giudiziaria a ciò delegata (secondo periodo della stessa disposizione) costituiscono «forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero nell’esercizio dei poteri che a esso spettano quale organo che dirige le indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale (artt. 326 e 327 cod. proc. pen.)».

 Tale rilievo, unitamente a quelli della identità di forme di garanzia procedurale e di regole di documentazione nei due casi, nonché della necessaria equivalenza di atti diretti e atti delegati per la loro utilizzabilità nel processo, ha fatto concludere la Corte costituzionale nel senso della arbitrarietà della differenziazione di trattamento quanto all’efficacia della ritrattazione.

 Ma questi argomenti, afferma l’Avvocatura, non valgono in relazione al caso, ora in esame, delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria su iniziativa di quest’ultima: non v’è identità di situazione sostanziale né v’è ragione di assimilare le dichiarazioni anzidette a quelle rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o – tantomeno – a quelle rese direttamente al pubblico ministero.

 Perciò, una pronuncia di incostituzionalità nel senso prospettato dal rimettente si tradurrebbe in una inammissibile sostituzione del giudice costituzionale al legislatore, in difetto di qualsiasi ragione per estendere la portata della richiamata sentenza a un caso diverso da quello in essa considerato.

 2.1. - Questione analoga è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale dei minorenni di L'Aquila, con ordinanza del 28 aprile 1999 (r.o. 431/1999).

 Premesso di aderire all'interpretazione della giurisprudenza di legittimità secondo la quale la mancanza di una condizione di procedibilità per il reato presupposto non ha rilievo ai fini della sussistenza e punibilità del reato di favoreggiamento personale (così che, nella specie, la mancanza di querela per il reato «principale» di lesioni non ha incidenza), il rimettente rileva che, con una prima pronuncia del 1982 (sentenza n. 228), la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata una questione affine, in base all'argomento che, essendo l'obiettivo della ritrattazione quello di dare soddisfazione all'interesse alla giusta definizione del giudizio principale, tale obiettivo non poteva raggiungersi nel caso di favoreggiamento a mezzo di false o reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, risultando irreversibile il pregiudizio arrecato alle investigazioni. Ma, prosegue il giudice a quo, la disciplina legislativa, sostanziale e processuale, è successivamente cambiata, e la Corte ha a sua volta mutato indirizzo, affermando, con la sentenza n. 101 del 1999, l'incostituzionalità dell'art. 376, primo comma, cod. pen., in quanto non applicabile anche a chi abbia ritrattato false o reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero a norma dell'art. 370 cod. proc. pen.

 La pronuncia non menziona espressamente, nel dispositivo, il reato di favoreggiamento personale, ma si desume dalla motivazione che con essa la Corte, ampliando la portata della ritrattazione di cui all’art. 376 cod. pen., ha incluso in questa causa di non punibilità la fattispecie del favoreggiamento, sia pure in casi particolari. La decisione però, rileva ancora il rimettente, concerne pur sempre l'ipotesi dell'atto delegato dal pubblico ministero, e pertanto non è invocabile nella fattispecie, diversa, che si presenta nel giudizio principale, di false o reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria che agisca non su delega del pubblico ministero, ma di propria iniziativa; ipotesi alla quale d'altra parte la dichiarazione di incostituzionalità non è stata neppure estesa in via conseguenziale a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non sussistendone le condizioni. Ma all’anzidetta ipotesi può e deve riferirsi, per il rimettente, la stessa ratio della pronuncia costituzionale in discorso.

 Non potrebbe obiettarsi - afferma ancora il giudice di merito - che la differenziazione sia il frutto di una scelta incensurabile del legislatore che, nella sua discrezionalità, ha voluto distinguere le dichiarazioni false secondo l'autorità che ne è destinataria, poiché una simile differenziazione si traduce in una disparità di trattamento ingiustificata, se si rileva che, di fronte a condotte assimilabili, si fa ricadere sull'imputato l'effetto sfavorevole di una scelta investigativa di puro carattere processuale, estranea alla volontà e alla disponibilità dell'imputato stesso. Per di più, si osserva, l'impossibilità di giovarsi della ritrattazione finisce proprio per intralciare l'indagine e l'accertamento della verità, perché rende indifferente la resipiscenza dell'indagato, che non è perciò incentivato a dire il vero.

 La questione, conclude il rimettente, è rilevante, perché se accolta porterebbe all'emissione di un decreto di archiviazione, anziché al prosieguo del procedimento penale.

 2.2. - Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione, con argomentazioni testualmente corrispondenti a quelle dell'atto di intervento depositato nella causa iscritta al r.o. n. 425/1999.

 3.1. - Anche il Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 29 novembre 1999 (r.o. 43/2000), ha sollevato questione di costituzionalità sull'art. 376 cod. pen., in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con motivazione e secondo profili argomentativi in tutto corrispondenti a quelli prospettati nell'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale (r.o. 425/1999).

 3.2. - Nel relativo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto tramite l'Avvocatura generale dello Stato, ha ripetuto gli argomenti svolti nei due atti di intervento sopra indicati, concludendo per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione.

 4.1. - Questione sostanzialmente corrispondente alle tre sopra riferite è stata infine sollevata dal Tribunale di Salerno, con ordinanza del 17 dicembre 1999 (r.o. 125/2000), sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

 Nella specie, il Tribunale procede per il reato di favoreggiamento personale integrato da false dichiarazioni rese in sede di «sommarie informazioni» assunte dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa, dichiarazioni successivamente ritrattate nel corso del procedimento penale.

 Anche in questo caso il rimettente invoca la ratio decidendi della sentenza n. 101 del 1999 della Corte costituzionale, argomentando la richiesta estensione della ritrattazione all'ipotesi delle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa sul duplice rilievo a) della identità della condotta rispetto a quella consistente nelle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero e b) della impossibilità di giustificare un effetto sfavorevole all'indagato solo in ragione di scelte investigative a esso non imputabili e generalmente dallo stesso neppure conosciute.

 Alla stregua dell'art. 3 della Costituzione, quindi, non potrebbe individuarsi alcuna giustificazione razionale della differenziazione di trattamento, che anche il Tribunale di Salerno ritiene essere controproducente sul piano degli obiettivi di resipiscenza e di accertamento del vero cui mira la speciale causa di non punibilità.

 La questione, conclude l'ordinanza, è rilevante in rapporto alla possibilità di adottare una declaratoria di proscioglimento immediato (art. 129 cod. proc. pen.) in luogo della richiesta sentenza di «patteggiamento».

 4.2. - Anche in questo giudizio costituzionale l'Avvocatura dello Stato ha spiegato intervento per il Presidente del Consiglio dei ministri: le argomentazioni e la conclusione, nel senso dell'inammissibilità o dell'infondatezza, sono le medesime degli altri atti di intervento depositati nei giudizi sopra indicati.

Considerato in diritto

 1. – Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ivrea, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale dei minorenni di L’Aquila, il Tribunale di Ivrea e il Tribunale di Salerno sollevano, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non estende la causa di non punibilità che esso prevede all’ipotesi della ritrattazione delle dichiarazioni false o reticenti rese alla polizia giudiziaria che assume sommarie informazioni a norma dell’art. 351 del codice di procedura penale.

 Secondo i rimettenti, essendosi prevista nell’art. 376 cod. pen. la non punibilità di coloro che abbiano reso false o reticenti dichiarazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) o abbiano reso falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) qualora, non oltre la chiusura del dibattimento, abbiano ritrattato il falso e manifestato il vero, non troverebbe giustificazione alcuna, e quindi risulterebbe violato il principio di uguaglianza sotto il profilo della razionalità delle determinazioni legislative, la mancata estensione della medesima causa di non punibilità a coloro i quali, tramite dichiarazioni false o reticenti alla polizia giudiziaria, siano incorsi nel reato di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.).

L’identità di ratio delle norme che puniscono il mendacio nelle diverse fasi di svolgimento del processo penale e l’inesistenza di ragioni che possano indurre a valutare diversamente la ritrattazione a seconda che avvenga in una o in un’altra di tali fasi – sostengono i rimettenti – renderebbe contraddittoria e quindi irrazionale la mancata estensione alle false o reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria della causa di non punibilità prevista nella norma impugnata, applicabile – oltre che alla testimonianza davanti al giudice - alle dichiarazioni rese al pubblico ministero. E ciò tanto più – si aggiunge - dopo la sentenza n. 101 del 1999 di questa Corte che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 376, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede la ritrattazione come causa di non punibilità di chi abbia reso dichiarazioni false o reticenti, richiesto dalla polizia giudiziaria operante su delega del pubblico ministero a norma dell’art. 370 cod. proc. pen. 2. – Le questioni di costituzionalità così esposte in sintesi riguardano la stessa disposizione, sono prospettate sulla base di argomenti omogenei e mirano alla medesima soluzione costituzionale. Si può pertanto riunirle per deciderle con un’unica sentenza.  3. – Le questioni non sono fondate. 4. – Tutte le ordinanze di rimessione argomentano la richiesta estensione della ritrattazione come causa di non punibilità all’ipotesi - non prevista dall’art. 376 cod. pen. - delle false informazioni rese alla polizia giudiziaria sulla base della asserita inesistenza di ragioni che permettano di distinguere questa ipotesi da quelle per le quali invece la causa di non punibilità è prevista e, in particolare, secondo l’estensione operata con la sentenza n. 101 del 1999 di questa Corte, dall’ipotesi delle false informazioni rese al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.). Sarebbe in gioco, secondo i rimettenti, l’esigenza di coerenza del sistema legislativo, esigenza contraddetta dalla possibilità di ritrattare, con effetti sulla punibilità, solo le dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria operante su sua delega e non invece quelle rese alla polizia giudiziaria che agisce di propria iniziativa. Come le false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria operante per delega del pubblico ministero, rilevanti a titolo di favoreggiamento ove si siano integrati gli elementi della fattispecie prevista dall’art. 378 cod. pen., sono state, sotto il profilo degli effetti della ritrattazione, da questa Corte equiparate alle false dichiarazioni rese al pubblico ministero previste dall’art. 371-bis cod. pen., così ora le false dichiarazioni alla polizia giudiziaria - penalmente rilevanti anch’esse, se del caso, a titolo di favoreggiamento - dovrebbero essere equiparate, sempre sotto il profilo della ritrattabilità, alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria operante per delega del pubblico ministero. I giudici rimettenti fanno rilevare in particolare: a) che questa Corte, con la ricordata sentenza n. 101 del 1999, ha già operato l’equiparazione, sotto il profilo della ritrattazione, del reato di favoreggiamento personale tramite false informazioni – sia pure solo nel caso specifico, allora rilevante, delle false informazioni alla polizia giudiziaria operante su delega del pubblico ministero – al reato di false informazioni al pubblico ministero, cosicché si tratterebbe ora solo di estendere la pronuncia di allora fino a comprendere il medesimo reato di favoreggiamento compiuto tramite false informazioni rese alla polizia giudiziaria che agisce di propria iniziativa;  b) che le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria per propria iniziativa (art. 351 cod. proc. pen.) non si distinguono da quelle assunte su delega del pubblico ministero e da quelle assunte direttamente da quest’ultimo, in particolare sotto il profilo delle regole di documentazione applicabili (art. 357 cod. proc. pen.), delle regole di utilizzazione nel processo (art. 500 cod. proc. pen.) e delle norme che impongono obblighi di veridicità ai dichiaranti (art. 351 cod. proc. pen. che rinvia alla disposizione del secondo periodo dell’art. 362, dettato per l’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero, che rinvia, a sua volta, agli artt. 197-203 cod. proc. pen.);  c) che, d’altra parte, il soggetto dichiarante non è in condizione, nella generalità dei casi, di conoscere il titolo in base al quale la polizia giudiziaria procede ad assumere informazioni. Con questi riferimenti a dati giurisprudenziali, normativi e fattuali omologanti, i giudici rimettenti fondano il dubbio di costituzionalità che giustifica la sottoposizione a questa Corte della presente questione. 5. – E’ da respingere l’assunto che nella specie si tratti semplicemente di estendere la portata del precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 101 del 1999. Nella sentenza costituzionale più volte citata, innanzitutto, non si è affatto affermata l’assimilabilità, ai fini della disciplina della ritrattazione, del reato di favoreggiamento [reato che ricorreva allora, in relazione a false dichiarazioni alla polizia giudiziaria operante su delega del pubblico ministero, e ricorre ora, in relazione a false dichiarazioni alla polizia giudiziaria procedente ex officio] al reato di false informazioni al pubblico ministero. Se fosse stata fatta tale equiparazione, apparirebbe ovvia la deduzione: come allora si è estesa la disciplina della ritrattazione prevista per le false dichiarazioni a un caso di favoreggiamento (false dichiarazioni alla polizia giudiziaria delegata), così ora la si dovrebbe estendere all’altro caso di favoreggiamento (mediante false dichiarazioni alla polizia giudiziaria operante d’ufficio). Ma non è così. In quella sentenza, l’affermazione dell’irrazionalità della disciplina della ritrattazione risultò dall’equivalenza esistente tra l’attività d’indagine svolta direttamente dal pubblico ministero e quella svolta attraverso attività delegate alla polizia giudiziaria, non tra il reato di favoreggiamento personale e quello di false dichiarazioni al pubblico ministero. Così, nella sentenza citata, assumendo con la giurisprudenza comune che il silenzio, la reticenza e le dichiarazioni false alla polizia giudiziaria possano integrare – quando ne ricorrano gli elementi specifici della fattispecie – il reato di favoreggiamento personale quando la polizia giudiziaria opera tanto ex officio quanto su delega (in tale ultimo caso escludendosi, in ragione della stretta legalità, il reato di false informazioni al pubblico ministero), si precisava non essere necessario «procedere a un raffronto tra» tali reati «per trovarvi elementi comuni o elementi differenziali che inducano a prendere posizione circa la razionalità della disposizione impugnata che prevede la ritrattazione come causa di non punibilità solo in un caso e non nell’altro». Il reato di favoreggiamento personale, in sostanza, veniva in considerazione solo come presupposto della questione e non rappresentava un elemento costitutivo della questione medesima.

In secondo luogo, la sentenza n. 101 del 1999 si è pronunciata esclusivamente sul rapporto esistente tra l’assunzione diretta e personale da parte del pubblico ministero (art. 370, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen.) di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 362 cod. proc. pen) e l’assunzione delle medesime informazioni per mezzo della polizia giudiziaria a ciò delegata (art. 370, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen.), riconoscendo che si tratta «esclusivamente [di] forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero nell’esercizio dei poteri che a esso spettano quale organo che dirige le indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale (artt. 326 e 327 cod. proc. pen.)». L’equivalenza affermata allora dalla Corte, non riguardando dunque affatto le attività di indagine del pubblico ministero e quelle della polizia giudiziaria come tali, ma solo il caso specifico in cui questa seconda opera per delega del primo, non può di per sé essere invocata come criterio di soluzione del dubbio di costituzionalità ora proposto.

Contrariamente a quanto ritenuto dai rimettenti, la questione ora da decidere è dunque res integra.

6. – Se l’omologazione operata con la sentenza n. 101 del 1999 di questa Corte si rendeva necessaria in quanto si era in presenza di dichiarazioni rese nella stessa fase del processo, quando dunque la ritrattazione non poteva che assumere il medesimo valore e la medesima incidenza nello svolgimento delle indagini preliminari, la stessa cosa non potrebbe ripetersi qui, in relazione all’assunzione di informazioni da parte della polizia giudiziaria, da un lato, e da parte del pubblico ministero o della polizia giudiziaria da esso delegata, dall’altro. Alla diversità soggettiva corrisponde, se non una diversa disciplina delle forme, dell’utilizzabilità e degli obblighi dei dichiaranti, una normale diversità di cadenza temporale, le informazioni assunte direttamente dalla polizia giudiziaria riguardando di solito il momento iniziale delle indagini, a contatto immediato con i fatti o con la descrizione dei fatti da cui origineranno le indagini preliminari e poi, eventualmente, l’esercizio dell’azione penale. In questo contesto, non appare essere una contraddizione manifestamente irrazionale – condizione per l’intervento di questa Corte sulla normativa denunciata – che il legislatore abbia differenziato la disciplina delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, eventualmente rilevanti sotto il profilo del reato di favoreggiamento, negando in tal caso l’applicabilità della causa di non punibilità della ritrattazione. Come questa Corte ebbe a rilevare già nella sentenza n. 228 del 1982, pronunciata in relazione alla disciplina contenuta nel codice di procedura penale abrogato, ma con argomentazione ancora applicabile al sistema del codice vigente, pur nelle diverse movenze che esso ha assunto soprattutto in relazione alla disciplina delle indagini preliminari, non si può escludere che la punizione del mendacio e delle dichiarazioni reticenti assuma, nelle valutazioni del legislatore, un diverso significato, alla stregua del diverso interesse protetto in via prevalente, a seconda del momento in cui il primo e le seconde, nello svolgimento del processo, vengono normalmente a cadere. La ritrattazione, quale prevista dal vigente codice penale, è infatti finalizzata primariamente a dare soddisfazione all’interesse alla definizione del giudizio penale (nel caso dell’art. 372 cod. pen.) o all’esercizio dell’azione penale (nel caso dell’art. 371-bis cod. pen.) fondati su elementi probatori veridici. Nella ipotesi in cui il mendacio si realizzi tramite dichiarazioni alla polizia giudiziaria che agisce di sua iniziativa, presumibilmente nella fase iniziale delle indagini, aiutando l’autore del reato «a eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa», ciò che costituisce l’elemento materiale del reato di favoreggiamento, la sanzione penale mira primariamente ad assicurare il massimo di efficacia delle indagini e tempestività delle loro conclusioni (sentenza n. 228 del 1982), obbiettivo irrimediabilmente compromesso dalla falsità delle dichiarazioni e non più realizzabile, nemmeno con postume ritrattazioni. Onde, in tal caso, la ritrattazione non conseguirebbe lo scopo, ciò che mostra, sotto questo profilo, l’esistenza di un elemento differenziatore tra il mendacio (a qualunque titolo penalmente eventualmente rilevante) realizzato di fronte alla polizia giudiziaria operante di sua iniziativa, da un lato, ovvero di fronte alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero o davanti al pubblico ministero stesso, dall’altro: elemento differenziatore che rende non manifestamente irrazionale la diversa disciplina della ritrattazione dettata nei casi considerati. Quanto all’osservazione che, di fatto, non è sempre percepibile dal soggetto dichiarante a quale titolo opera la polizia giudiziaria che raccoglie le informazioni, cosicché esso non sarebbe in condizione, nel momento in cui rende la dichiarazione, di sapere se essa sarà o non sarà ritrattabile con l’effetto previsto dall’art. 376, primo comma, cod. pen., come risultante dalla sentenza n. 101 del 1999 della Corte costituzionale, è facile osservare che comunque il dichiarante è tenuto a rispondere secondo verità alle domande che gli sono poste (art. 198, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dall’art. 351 per il tramite dell’art. 362 cod. proc. pen.) e che non esiste - o almeno non è argomentata dai rimettenti l’esistenza di - un diritto costituzionale alla ritrattazione delle false dichiarazioni comunque rese nel processo penale, onde può concludersi che, di fronte all’assenza di diritti costituzionali che possano farsi valere in materia (o, il che è lo stesso, in carenza di argomenti prospettati in tal senso), sussiste un’ampia sfera di discrezionalità del legislatore nel modellare la disciplina della ritrattazione delle false asserzioni nelle diverse fasi del procedimento: una discrezionalità che, contrariamente agli auspici formulati in diverso senso dai commentatori, questa Corte è tenuta a rispettare. Né appare conferente, infine, l’osservazione, contenuta in alcune delle ordinanze di rimessione, secondo la quale la mancata previsione, come causa di non punibilità, della ritrattazione di false o reticenti dichiarazioni alla polizia giudiziaria operante di propria iniziativa costituirebbe incentivo a persistere nel mendacio, per tentare di evitare di incorrere in responsabilità, con pregiudizio della stessa efficacia delle attività di indagine: osservazione quantomeno controbilanciata da quella per cui la possibilità di ritrattazione, in ipotesi nel momento in cui lo sviluppo delle indagini abbia reso palese il mendacio o la reticenza, costituirebbe incentivo, per chi lo volesse, ad intralciare con tali mezzi l’avvio delle indagini. Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 riuniti i giudizi,  riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ivrea, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale dei minorenni di L’Aquila, dal Tribunale di Ivrea e dal Tribunale di Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 16 ottobre 2000.