Sentenza n. 404/2000

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SENTENZA N. 404

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 21 della legge 5 agosto 1991, n. 249 (Riforma dell’Ente di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro), promosso con ordinanza emessa il 15 marzo 1998 dal Pretore di Torino, sezione distaccata di Rivarolo Canavese, nel procedimento civile vertente tra Marietti Margherita ed altri e l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro (ENPACL), iscritta al n. 315 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1998.

Visto l'atto di costituzione dell'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro;

udito nell'udienza pubblica del 21 marzo 2000 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 15 marzo 1998, emessa nel corso del giudizio promosso dagli eredi di Magnino Giovanni per ottenere, dal convenuto Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro (ENPACL), la restituzione dei contributi previdenziali già versati dal loro congiunto, il Pretore di Torino, sezione distaccata di Rivarolo Canavese, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione ed al "principio della generale razionalità della legge in conformità alla Costituzione", questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 della legge 5 agosto 1991, n. 249 (Riforma dell’Ente di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro), "nella parte in cui é stabilito che la restituzione dei contributi ai superstiti avvenga solo nella ipotesi in cui il decesso dell’iscritto sia avvenuto in costanza di rapporto assicurativo".

1.1.- Il giudice a quo, premesso che il dante causa dei ricorrenti nel giudizio principale, cancellato dall’albo dei consulenti del lavoro sin dal 31 dicembre 1993, era deceduto in data 16 ottobre 1996, osserva che la disposizione censurata determina, anzitutto, "una palese disparità di trattamento, a parità di contribuzione ed oneri versati, fra gli eredi dei defunti iscritti e gli eredi dei defunti non più iscritti all’albo", con violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

1.2.- Viene, al tempo stesso, lamentata la lesione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, posto che il menzionato art. 21 preclude agli eredi del defunto non iscritto all’albo (ai quali, peraltro, l’art. 8, comma 3, della medesima legge n. 249 del 1991, non consente di fruire neppure della pensione di reversibilità) la restituzione di importi "la cui natura assistenziale é indiscutibile, essendo stati pagati proprio con la finalità di costituire una rendita pensionistica o quantomeno un capitale di risparmio obbligatorio".

Per effetto della disposizione denunciata, i predetti soggetti risultano, invece, privati dei mezzi adeguati alle esigenze di vita, atteso che "il loro patrimonio familiare é stato impoverito durante la vita del lavoratore per i contributi obbligatoriamente versati, e dopo la morte non può essere ricostituito", mentre l’ente previdenziale "ha potuto incassare sostanziosi contributi" senza dover versare la pensione e, tantomeno, "restituire gli importi ai legittimi pretendenti"; ciò contrastando "con un ordinamento come il nostro, ispirato a principi di equità e mutuo soccorso".

1.3.- Ad avviso del rimettente, la disposizione stessa non terrebbe, inoltre, conto del fatto che "il legislatore, nello stilare le leggi, deve osservare alcuni principi fondamentali, tra i quali quello della razionalità delle disposizioni", apparendo non solo "iniquo", ma "neppure ispirato a logiche razionali" il criterio secondo cui "i contributi versati debbano essere perduti".

Al riguardo, si osserva che "il consulente non può esimersi dal versamento" dei contributi, non potendo, quindi, "essergli imputato di avere compiuto una scelta irrazionale e perdente"; "addebito di irrazionalità" che, invece, va mosso alla legge.

Rammentato, poi, che l’art. 2041 del codice civile prevede la restituzione delle somme indebitamente percepite nell’ipotesi di arricchimento senza giusta causa, secondo un principio "che risponde a logica e buon senso e che viene completamente ribaltato dalla norma" censurata, l'ordinanza evidenzia che, "nel caso di specie", il contribuente ha, per oltre 10 anni, versato al proprio ente previdenziale la somma di circa 15 milioni di lire, senza ottenere alcun trattamento pensionistico e che "nonostante la mancanza di una controprestazione si vede negato il diritto di recuperare il denaro versato".

Nel rilevare che, per effetto di ciò, l’ente stesso é andato "arricchendosi ingiustificatamente", l'ordinanza esclude che la legge possa "essere accettata come fonte che permette l’arricchimento senza causa, in pieno contrasto con i principi ispiratori del nostro ordinamento e in danno delle categorie più deboli".

Secondo il rimettente l’irrazionalità del denunciato art. 21 sarebbe "ulteriormente evidenziata" dal confronto con altre norme disciplinanti fattispecie analoghe, come l’art. 21 della legge 20 settembre 1980, n. 576, in materia di previdenza forense, che prevede il rimborso dei contributi versati dall’iscritto, che non abbia maturato il diritto alla pensione, anche in favore dei relativi eredi ("semprechè non abbiano titolo alla pensione indiretta"), senza per questo richiedere "che il de cuius sia deceduto in costanza di rapporto assicurativo".

2.- Si é costituito in giudizio l’ENPACL, chiedendo il rigetto della sollevata questione di costituzionalità ed osservando, segnatamente, che "nessuna disparità di trattamento può ravvisarsi, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, tra due iscritti all’Ente di previdenza", giacchè la distinzione operata dal legislatore si fonda su "due situazioni giuridiche a monte...sostanzialmente diverse: nella prima v’é un rapporto assicurativo in atto; nella seconda questo é cessato".

Nel ritenere "ragionevole e immune da censure" la discriminazione operata al riguardo dal legislatore, l’ENPACL sostiene che l’iscrizione all’albo "é l’unica condizione che fa permanere nel soggetto i diritti propri riconosciuti ad ogni assistito e ne fa scaturire conseguentemente la legittimazione ad essere tutelato sotto il profilo previdenziale". La memoria, nell'evidenziare che il legislatore ha voluto affermare il principio secondo il quale "é giusto" che, quando l’assicurato sia cessato dall’attività e dall’iscrizione all’albo, senza maturare il diritto a pensione, venga riconosciuta al medesimo "una certa tutela economica, nella specie costituita dalla restituzione dei contributi versati", ritiene che "se si ammettesse a favore dei superstiti la stessa prerogativa, si dovrebbe pervenire all’assurda conclusione che la cassa é tenuta a restituire i contributi anche per soggetti non più legittimati, con grave pregiudizio economico".

La parte costituita esclude, infine, che vi sia lesione dell’art. 38 della Costituzione, in quanto la norma costituzionale "é condizionata alla sussistenza di presupposti specificamente indicati dalla legge"; presupposti nella specie insussistenti, considerato che gli eredi ricorrenti nel giudizio principale "non possono pretendere la restituzione dei contributi dal momento che tale prerogativa non sarebbe comunque spettata al loro dante causa".

Considerato in diritto

1.- Il Pretore di Torino, sezione distaccata di Rivarolo Canavese, dubita, con l’ordinanza in epigrafe, della legittimità costituzionale dell’art. 21 della legge 5 agosto 1991, n. 249 (Riforma dell’Ente di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro), "nella parte in cui é stabilito che la restituzione dei contributi ai superstiti avvenga solo nella ipotesi in cui il decesso dell’iscritto sia avvenuto in costanza di rapporto assicurativo".

La menzionata disposizione, nell’attribuire al consulente del lavoro, che abbia compiuto sessantacinque anni di età e che cessi dall’iscrizione all’ente di previdenza senza aver maturato i requisiti per il diritto a pensione, il diritto di richiedere la restituzione dei contributi soggettivi obbligatori versati, nonchè, eventualmente, di quelli personali previsti dalla disciplina legislativa vigente prima della legge n. 249 del 1991 (comma 1), stabilisce, al comma 2, che il predetto diritto alla restituzione possa essere esercitato anche dai superstiti dell’iscritto, deceduto in costanza di rapporto assicurativo, che non abbiano titolo alla pensione indiretta, conseguibile anche mediante ricongiunzione.

Le censure del rimettente si appuntano su quest'ultima disposizione che, a suo avviso, contrasterebbe:

- con l’art. 3 della Costituzione, in quanto determina "una palese disparità di trattamento, a parità di contribuzione ed oneri versati, fra gli eredi dei defunti iscritti e gli eredi dei defunti non più iscritti all’albo";

- con l’art. 38 della Costituzione, giacchè ¾ data "la natura assistenziale" dei contributi versati all’ente di previdenza ¾ "priva gli eredi di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita penalizzandoli fortemente", atteso che "il loro patrimonio familiare é stato impoverito durante la vita del lavoratore per i contributi obbligatoriamente versati, e dopo la morte non può essere ricostituito";

- con il "principio della generale razionalità della legge in conformità alla Costituzione", non sussistendo alcuna ragione "per la quale i contributi versati debbano essere perduti".

Sotto tale ultimo profilo, il giudice a quo, muovendo dall'assunto che, a fronte dell'obbligatorietà del versamento dei contributi, non può essere imputato al consulente "di avere compiuto una scelta irrazionale e perdente", si duole del fatto che venga "completamente ribaltato" il principio di cui all’art. 2041 del codice civile, "che risponde a logica e buon senso", non potendo accettarsi che la legge permetta l’arricchimento senza causa, "in pieno contrasto con i principi ispiratori del nostro ordinamento e in danno delle categorie più deboli"; quale ulteriore aspetto di irrazionalità invoca, inoltre, il confronto con altre disposizioni disciplinanti fattispecie analoghe, come l’art. 21 della legge n. 576 del 1980, che, in materia di previdenza forense, prevederebbe il rimborso agli eredi dei contributi versati dall’iscritto che non abbia maturato il diritto alla pensione, senza per questo richiedere "che il de cuius sia deceduto in costanza di rapporto assicurativo".

2.- La questione non é fondata sotto alcuno dei prospettati profili di censura.

Prima di affrontarne il merito, é opportuno rammentare che l’istituto della restituzione dei contributi costituisce un tratto peculiare della previdenza dei liberi professionisti (nel cui ambito vanno annoverati anche i consulenti del lavoro), che non trova corrispondenza nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria (salvo talune limitatissime eccezioni, introdotte di recente per situazioni assai particolari, come quella dei lavoratori extracomunitari che, cessata l’attività lavorativa in Italia, lascino il territorio nazionale e, in assenza di convenzioni internazionali, non possano beneficiare di tutela previdenziale: art. 22, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), nel quale vige l’opposto principio dell’acquisizione, alla gestione previdenziale di appartenenza, dei contributi debitamente versati, nonostante che gli stessi non siano utili per l’insorgenza di alcun trattamento pensionistico.

Il previsto rimborso da parte di alcune casse professionali dei contributi versati non vale, peraltro, a far venire meno quel principio solidaristico che, nel rappresentare l’impronta caratteristica della previdenza obbligatoria generale, tende, come più volte evidenziato dalla Corte (tra le altre, vedi sentenze n. 450 del 1993 e n. 390 del 1995), ad ispirare ormai anche la previdenza dei liberi professionisti, almeno secondo il modello in essa più diffuso, nel quale detto principio, sia pure con valenza endocategoriale, normalmente concorre, combinandosi con quello di corrispettività tra contribuzione e prestazioni, a garantire, a tutti i membri della categoria, una prestazione minima.

E ciò in quanto, secondo la stessa giurisprudenza di questa Corte, l’istituto del rimborso contributivo "non implica necessariamente la corrispettività tra contributi e pensioni, ma soltanto una particolare configurazione dei doveri di solidarietà comunque posti a carico di tutti gli iscritti" (vedi sentenze n. 133 e n. 132 del 1984). Va da sè, peraltro, che, di fronte all’esigenza di tutela dei livelli di finanziamento del sistema previdenziale della categoria professionale, al fine di garantire, segnatamente, gli equilibri finanziari del medesimo (per un caso non privo di analogie, vedi ordinanza n. 369 del 1995), non possa non restare affidato alle valutazioni discrezionali del legislatore di stabilire in quale misura l'interesse dei singoli alla restituzione dei contributi sia suscettibile di contemperamento con il principio di solidarietà (vedi sentenza n. 450 del 1993, già cit.).

3.- Tanto premesso, priva di fondamento risulta la censura relativa alla prospettata lesione del principio di eguaglianza tra i superstiti di defunto iscritto all’albo e superstiti di defunto non più iscritto all’albo; censura, invero, rivolta a rappresentare come operazioni normative discriminatorie o arbitrarie quelli che sono momenti strutturali o modalità applicative del sistema, riferibili in particolare alla tipologia cui esso appartiene.

E questo secondo una scelta che, oltre a non sembrare irragionevole, risulta anche coerente con il criterio cui, attualmente, si ispira l'ordinamento pensionistico della categoria in esame in materia di trattamenti indiretti ai superstiti; trattamenti che, a loro volta, sono conseguibili a condizione che l’assicurato, senza diritto a pensione, sia deceduto "in costanza di iscrizione" all’Ente e abbia maturato dieci anni di effettiva iscrizione e contribuzione (art. 8, comma 3, della legge n. 249 del 1991; art. 26 della parte seconda del Regolamento di attuazione dello Statuto approvato, unitamente allo Statuto medesimo, con decreto del 2 agosto 1995 del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, ai sensi del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, che, in attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge n. 537 del 1993, ha disciplinato la trasformazione, in persone giuridiche di diritto privato, di taluni enti gestori di forme di previdenza ed assistenza obbligatorie, tra cui l’ENPACL).

La denunciata disposizione si sottrae, dunque, alla censura mossa dal rimettente, essendo, in definitiva, frutto della discrezionalità che spetta al legislatore nel conformare il diritto al rimborso dei contributi, anche in considerazione dell'incidenza che lo stesso ha sugli equilibri finanziari della Cassa e ciò specie quando a beneficiarne sono soggetti (i superstiti dell'assicurato) che non hanno direttamente contribuito, attraverso i proventi dell’attività professionale, al finanziamento dell’Ente.

4.- Escluso, pertanto, che la disciplina denunciata assuma carattere irragionevolmente discriminatorio, risulta priva di fondamento anche la censura di violazione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione.

A tacere, infatti, della improprietà in sè di una prospettazione quale quella dell'ordinanza, nella parte in cui evoca il menzionato parametro a difesa di aspettative attinenti all’integrità del patrimonio degli interessati, da ritenere pregiudicate a causa dell'irrecuperabilità dei contributi versati, é sufficiente qui rammentare il generale orientamento della giurisprudenza di questa Corte circa la discrezionalità di cui gode il legislatore, in tema di attuazione del precetto del secondo comma dell'art. 38 della Costituzione, secondo valutazioni nel cui ambito rileva anche l'obiettivo, invero non estraneo alla norma denunciata, di salvaguardia dei livelli di finanziamento del sistema previdenziale della categoria professionale (vedi, ancora, ordinanza n. 369 del 1995).

5.- In forza delle argomentazioni che precedono é destinata a cadere anche la doglianza di violazione del "principio della generale razionalità della legge", da ricondursi, con tutta evidenza, ancora all’art. 3 della Costituzione, trattandosi di censura che muove da un assunto che non può essere assolutamente condiviso.

L’asserito rovesciamento del principio dell’ingiustificato arricchimento, che, secondo il rimettente, starebbe a dimostrare l’illegittimità della disposizione censurata, appare, infatti, frutto di erronea considerazione dei presupposti sulla base dei quali opera l’istituto del rimborso dei contributi, atteso che esso riguarda (come, del resto, posto in risalto anche dalla giurisprudenza di legittimità) non già una contribuzione indebita, bensì versamenti legittimamente percepiti dall’ente previdenziale di categoria, in forza di espressa disposizione legislativa, per realizzare le finalità di previdenza ed assistenza cui l’ente stesso é deputato.

Non pertinente é, dunque, il richiamo alla disciplina dell’art. 2041 del codice civile, giacchè il diritto alla restituzione sussiste esclusivamente in funzione della specifica norma che lo contempla e lo regola, derogando, entro dati limiti, al principio di indisponibilità dell’obbligazione contributiva previdenziale, la quale, soprattutto nel sistema della previdenza di categoria, ove il concorso della solidarietà esterna della collettività é soltanto eccezionale e sussidiario (vedi sentenze nn. 88 e 78 del 1995), costituisce lo strumento indefettibile per il finanziamento del sistema medesimo.

6.- Nè, infine, risulta fondata la censura che muove dalla comparazione con le disposizioni disciplinanti la previdenza di altre categorie professionali.

E ciò per il preminente e decisivo rilievo, corroborato dal consolidato orientamento di questa Corte (vedi, tra le tante, le già menzionate sentenza n. 88 del 1995 e ordinanza n. 369 del 1995), per cui non sono producenti confronti tra i vari sistemi previdenziali dei liberi professionisti al fine di dedurne la violazione del principio di eguaglianza, stante l’autonomia che i sistemi stessi presentano in relazione alle peculiarità di ogni categoria e considerate le rispettive esigenze di equilibrio finanziario.

Ne é riprova, del resto, il fatto che, nell’ambito dei diversi regimi di previdenza categoriale, non si rinviene una disciplina assolutamente uniforme dell’istituto della restituzione dei contributi versati, a tacer ovviamente dei casi in cui lo stesso é escluso o in via generale (art. 10 dello statuto della Cassa nazionale del notariato) oppure proprio in riferimento ai superstiti dell’assicurato (art. 6 della legge n. 236 del 1990, sulla previdenza dei geometri, che ha abrogato la diversa previsione contenuta nell’art. 21 della legge n. 773 del 1982).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 della legge 5 agosto 1991, n. 249 (Riforma dell’Ente di previdenza ed assistenza per i consulenti del lavoro), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Torino, sezione distaccata di Rivarolo Canavese, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 luglio 2000.