Ordinanza n. 402/2000
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ORDINANZA N. 402

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1999 dal Tribunale militare di Verona nel procedimento penale a carico di DI SOMMO Raffaele, iscritta al n. 612 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 Ritenuto che, con ordinanza emessa il 24 settembre 1999 nel corso di un procedimento nei confronti di un maresciallo dell’aeronautica imputato del reato di peculato militare, il Tribunale militare di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), nella parte in cui non prevede per il reato di cui all’art. 215 del codice penale militare di pace una circostanza attenuante analoga a quella introdotta con l’art. 323-bis del codice penale;

 che il giudice a quo premette, in punto di rilevanza, di essere chiamato a pronunciare sulla richiesta — formulata dall’imputato con il consenso del pubblico ministero — di applicazione della pena di mesi quattro e giorni venti di reclusione militare, alla quale si perviene sulla base del riconoscimento di una serie di circostanze attenuanti, tra cui quella della particolare tenuità del fatto, prevista dal citato art. 323-bis cod. pen. (aggiunto dall’art. 14 della legge n. 86 del 1990);

 che all’accoglimento della richiesta — sotto ogni altro profilo rispettosa delle condizioni stabilite dall’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. — osta, ad avviso del rimettente, l’inapplicabilità al reato di peculato militare dell’attenuante da ultimo indicata, trattandosi di circostanza speciale riferita a figure di reato specificamente individuate e comprensive del solo peculato comune (art. 314 cod. pen.);

 che la norma denunciata contrasterebbe, peraltro, in parte qua, con il principio di uguaglianza, essendo il peculato militare fattispecie criminosa “speculare” al peculato comune, con le uniche differenze relative al soggetto attivo (“militare incaricato di funzioni amministrative o di comando”), all’oggetto dell’illecita appropriazione (denaro o altra cosa mobile “appartenente all’amministrazione militare”) e alla pena (reclusione da due a dieci anni);

 che, sul piano della condotta, il pieno allineamento delle due figure criminose è stato assicurato dalla sentenza n. 448 del 1991 di questa Corte, che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 215 del codice penale militare di pace limitatamente alle parole “ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri”, ha eliminato dalla fattispecie del reato militare l’ipotesi del peculato per distrazione, già caduta in rapporto al peculato comune per effetto dell’art. 1 della legge n. 86 del 1990;

 che — proprio alla luce dei dicta della sentenza ora citata — le fattispecie in parola debbono considerarsi sostanzialmente identiche quanto all’elemento materiale, all’elemento psicologico ed al contenuto offensivo, risultando, anzi, il peculato militare addirittura meno grave di quello comune, in quanto punito con pena inferiore nel minimo di ben un anno;

che, in simile prospettiva, la mancata estensione dell’attenuante al reato militare implicherebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio “civile”, da un lato, e il militare incaricato di funzioni amministrative o di comando, dall’altro: giacché, in sostanza, a seguito dell’“omissione” legislativa censurata, all’autore del fatto-reato meno grave verrebbe preclusa la possibilità di fruire di circostanza attenuante di cui può viceversa beneficiare l’autore di un fatto-reato più grave;

 che detta “omissione” contrasterebbe, altresì, con il principio di proporzionalità della pena, desumibile dall’art. 27, terzo comma, Cost., il quale — nello stabilire che le pene devono tendere alla rieducazione del reo — postula un nesso di corrispondenza tra entità della sanzione e gravità del fatto, in difetto del quale la pena verrebbe avvertita dal reo come “non meritata” e, dunque, lungi dal rieducarlo, lo spingerebbe ad atteggiamenti di “ribellione” alla legge;

 che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata;

 che l’Avvocatura erariale contesta, in particolare, la validità del presupposto interpretativo dell’ordinanza di rimessione, circa l’inapplicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen. al peculato militare, ritenendo che a contraria conclusione debba pervenirsi — proprio in considerazione della identità strutturale delle fattispecie poste a confronto — sulla base del generale disposto dell’art. 16 cod. pen.

 Considerato che questa Corte è chiamata a verificare la conformità agli artt. 3 e 27 Cost. dell’art. 14 della legge n. 86 del 1990, nella parte in cui non estende al reato di peculato militare la circostanza attenuante del fatto di particolare tenuità, introdotta dalla norma denunciata con riferimento a taluni delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione — tra cui il peculato comune — mediante l’inserimento nel codice penale del nuovo art. 323-bis;

 che il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo — l’inapplicabilità, cioè, dell’attenuante in discorso al peculato militare — appare senz’altro condivisibile, essendosi al cospetto di una circostanza speciale riferita nominatim a singole figure di reato comune: particolare, questo, che — contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato — esclude l’operatività dell’art. 16 cod. pen. (il quale — nello stabilire che le disposizioni del codice penale “si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti” — fa riferimento essenzialmente alle disposizioni di parte generale, nonché a quelle che, pur contenute nella parte speciale del codice, rechino però previsioni aventi caratteristiche di generalità);

 che parimenti meritevole di avallo è l’assunto del rimettente, circa il parallelismo strutturale tra i reati di peculato comune e militare: esso corrisponde, in effetti, al costante orientamento di questa Corte, la quale ha in più occasioni rilevato che tra le due fattispecie criminose — aventi in comune gli elementi materiale e psicologico ed il contenuto offensivo — “sussiste una sostanziale identità”, tale da rendere ingiustificate le disparità di trattamento indotte da leggi sopravvenute che concernevano il solo peculato comune (cfr. sentenze nn. 448 del 1991, 473 del 1990 e 4 del 1974);

 che nel frangente, tuttavia, l’argomento della identità strutturale fra peculato comune e peculato militare si presenta intrinsecamente contraddittorio rispetto alla pronuncia additiva invocata dal giudice a quo;

che, al riguardo, vale infatti rilevare come — a dispetto dell’accennata assonanza di struttura — il peculato militare, a parità di pena massima, risulti punito con pena minima inferiore esattamente di un terzo (due anni di reclusione, anziché tre) rispetto a quella comminata per il peculato comune (la previsione di tale minimo inferiore risulta invero giustificata, nei lavori preparatori del codice penale militare di pace, con l’opportunità di adeguare la risposta punitiva alla qualità del soggetto attivo del reato, il quale spesso si identifica in un militare di grado assai modesto, non rivestito di funzioni amministrative permanenti: laddove peraltro è evidente che — anche a ritenere valida tale giustificazione — ipotesi omologhe di ridotto disvalore del fatto siano suscettive di verificarsi pure in rapporto al peculato comune);

 che, a fronte di ciò, l’introduzione, per il peculato comune, di una circostanza attenuante speciale (ma ad effetto comune: tale, cioè, da consentire la diminuzione della pena fino a un terzo), quale quella di cui all’art. 323-bis cod. pen. — la cui ratio è generalmente identificata nell’intento di mitigare il trattamento sanzionatorio della fattispecie, nei casi in cui la carica offensiva del singolo episodio si riveli modesta — non fa altro, alla resa dei conti, che allineare in modo più pieno il trattamento delle ipotesi criminose (comune e militare), permettendo che anche per la prima la pena possa scendere, nei congrui casi, al medesimo livello minimo previsto per la seconda;

 che, in sostanza, se è vero che le due fattispecie poste a confronto sono “speculari”, anche la relativa pena minima deve esserlo: e ciò è assicurato oggi, di fatto — sia pure con il tratto differenziale che nell’un caso (peculato militare) ci si muove entro la cornice edittale, nell’altro (peculato comune) al di sotto di essa, sulla base del riconoscimento di un elemento circostanziale (espresso, peraltro, da una formula indefinita che implica una valutazione globale del singolo episodio criminoso, in tutti i suoi elementi e modalità) — proprio dall’applicabilità al peculato comune di una circostanza attenuante non prevista per il peculato militare;

 che, in tale prospettiva, la pronuncia additiva che il rimettente richiede, lungi dal correre sul filo logico dell’allineamento del trattamento sanzionatorio delle due fattispecie, ripristinerebbe l’originario sbilanciamento in melius a favore del peculato militare;

 che, caduta con ciò la censura di violazione dell’art. 3 Cost., cade anche, di riflesso, quella di compromissione dell’art. 27, terzo comma, Cost., che risulta all’evidenza priva di autonomia rispetto alla prima.

 Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale militare di Verona con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in cancelleria il 28 luglio 2000.