Sentenza n. 362/2000

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SENTENZA N. 362

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1 e 4-bis, 118 e 134, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promossi con ordinanze emesse il 3 giugno 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, il 24 marzo 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Biella, il 22 giugno e il 12 ottobre 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, il 27 ottobre 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Treviso e il 29 giugno 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 752, 447, 856 e 908 del registro ordinanze 1998 ed ai nn. 201 e 225 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42, 25 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1998 e nn. 2, 15 e 17, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visti l'atto di costituzione di Rossi Pasquale ed altra, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 21 marzo 2000 e nella camera di consiglio del 22 marzo 2000 il Giudice relatore Riccardo Chieppa;

uditi l'avvocato Federico Sorrentino per Rossi Pasquale ed altra e l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- La Commissione tributaria provinciale di Piacenza, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione di un avviso di accertamento emesso dall’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Piacenza, relativo al pagamento dell’Irpef e dell’Ilor per l’anno 1991, con ordinanza del 3 giugno 1998 (r.o. n. 752 del 1998) ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1, e 134, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), per violazione degli artt. 53, 24 e 3 della Costituzione, nella parte in cui assume quale base imponibile, ai fini della tassazione Irpef del reddito fondiario di un immobile locato, l’importo del canone locativo convenuto in contratto, anziché il reddito medio ordinario desunto dalla rendita catastale, anche quando, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito.

2.- La Commissione tributaria era chiamata a giudicare della pretesa di alcuni ricorrenti, che si dolevano proprio del fatto che l’avviso di accertamento aveva assunto quale parametro per la quantificazione del tributo l’importo dei canoni che per contratto a costoro spettavano dalla locazione di un immobile destinato ad uso non abitativo e che, tuttavia, non avevano interamente conseguito a causa dell’inadempienza del conduttore. L’esclusione di tali redditi dalla dichiarazione fiscale, osservavano i ricorrenti, era stata consapevolmente predisposta, in considerazione del fatto che gli stessi non erano mai stati effettivamente riscossi e nel presupposto che, in una ipotesi del genere, al criterio che prevede la tassazione sull’importo del canone locativo, si sarebbe dovuto sostituire il criterio ordinario della tassazione sul reddito medio ordinario dell’unità catastale determinato in via automatica mediante le tariffe d’estimo.

Il giudice a quo ha preso le mosse dal tenore delle norme che individuano il reddito dei fabbricati da assumere nella base imponibile dell’Irpef: secondo l’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, i redditi fondiari concorrono, "indipendentemente dalla percezione", a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono l’immobile per il periodo d’imposta interessato; secondo l’art. 33, comma 1, dello stesso d.P.R., il reddito dei fabbricati è costituito dal reddito medio ordinario ritraibile da ciascuna unità immobiliare urbana; secondo l’art. 34, comma 1, dello stesso d.P.R., il reddito medio ordinario delle unità immobiliari è determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo, stabilite sulla base delle norme della legge catastale; secondo l’art. 134, comma 2, dello stesso d.P.R., nel testo anteriore alla modifiche introdotte dalla legge 30 dicembre 1991, n. 413, qualora il canone risultante dal contratto di locazione ridotto di un quarto sia superiore alla rendita catastale aggiornata per oltre un quinto di questa, il reddito è determinato in misura pari a quella del canone di locazione ridotto di un quarto. In proposito, il giudice rimettente ha precisato che la medesima ratio legis ispira anche il regime introdotto dalla predetta legge n. 413 del 1991, poiché l’art. 34, comma 4-bis, del d.P.R. n. 917 del 1986, aggiunto dall’art. 11 della detta legge n. 413, prevede che, qualora il canone risultante dal contratto di locazione, ridotto forfettariamente del 15 per cento, sia superiore al reddito medio ordinario di cui al comma 1, il reddito è determinato in misura pari a quella del canone di locazione al netto di tale riduzione.

Il regime che discende da queste disposizioni, dunque, imporrebbe il riferimento al canone pattuito nel contratto di locazione anche per l’eventualità che il conduttore sia moroso, a prescindere dalla sua reale percezione.

Il giudice a quo ha ritenuto che tale precetto non sia conforme, anzitutto, all’art. 53, primo comma, della Costituzione, secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, poiché la capacità contributiva, quale presupposto indefettibile dell’imposizione fiscale, deve sempre collegarsi alla situazione economica effettiva del contribuente, ossia ad una concreta attitudine del presupposto di imposta alla produzione di ricchezza. L’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, ha proseguito il rimettente, nell’escludere la rilevanza della concreta percezione del reddito, introduce, per la parte che interessa, una presunzione assoluta di redditività dell’immobile locato anche nell’ipotesi che il conduttore non abbia pagato il canone.

Le richiamate disposizioni, invero, non riconoscono al contribuente alcuna facoltà di fornire una prova contraria rilevante, come viceversa concedono altre norme del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986 (in particolare, la Commissione tributaria ha richiamato gli artt. 28, sulla perdita, per eventi naturali, del prodotto ordinario del fondo rustico, e 66, comma 3, sui criteri di deducibilità dal reddito di impresa delle perdite su crediti in caso di sottoposizione del debitore a procedura concorsuale).

Per l’eventualità che si interpretasse l’art. 23 nel senso di ammettere il contribuente alla prova della mancata effettiva percezione del canone convenuto, la Commissione tributaria ha, poi, ravvisato un ulteriore ed autonomo profilo di incostituzionalità: la norma si porrebbe in contrasto col principio di inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, in considerazione dell’onerosità e difficoltà di siffatta prova.

Il combinato disposto degli articoli più sopra enunciati, inoltre, secondo l’ordinanza di rimessione, non sarebbe conforme all’art. 3 della Costituzione, per due profili.

In primo luogo, a causa dell’irragionevolezza della scelta legislativa, che si risolverebbe nella tassazione di un reddito fittizio, allorché il contratto si sia risolto in corso di anno ed i canoni non siano stati riscossi.

In secondo luogo, per violazione del principio di eguaglianza, manifestandosi una palese disparità di trattamento tra il contribuente che non può più percepire il canone di locazione in quanto il contratto si è risolto (e che ciononostante viene sottoposto ad un prelievo commisurato a tale canone) ed altro contribuente, anch’egli possessore di immobile, che, non avendolo concesso in locazione, è tassato per il reddito determinato sulla base della rendita catastale. Tale disparità risulterebbe particolarmente evidente per il fatto che gli artt. 19 e 20 del d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142 (Approvazione del regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano) stabiliscono che, ai fini della determinazione della rendita catastale, il reddito lordo annuo va depurato dalle spese e perdite eventuali, espressamente contemplando tra queste ultime le rate di fitto dovute e non pagate. Sicché, mentre della morosità del conduttore si tiene conto nel determinare la rendita catastale, a sua volta assunta a parametro di fissazione del reddito medio ordinario dei fabbricati, essa diviene del tutto irrilevante nel computo dell’imposta da calcolare sul reddito fondiario direttamente commisurato al quantum del canone locativo.

In proposito, il giudice rimettente si richiama al principio per cui le esigenze erariali non possono condurre al sacrificio del diritto del contribuente alla prova dell’effettività del reddito soggetto al prelievo fiscale, in coerenza con la funzione di garanzia assolta dal principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.

3.- Nel giudizio (r.o. n. 752 del 1998) innanzi alla Corte si sono costituite le parti private, che hanno condiviso e sostenuto le ragioni dedotte dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza nell’ordinanza di rimessione.

In particolare, hanno ribadito che il principio di capacità contributiva risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario abbia la sua causa giustificativa in indici concretamente rivelatori di ricchezza, in conformità alla sua portata effettiva.

Se ne è fatto discendere, altresì, che, in coerenza con le precedenti decisioni della stessa Corte costituzionale, le presunzioni in materia fiscale sono compatibili col principio di obbligatorietà della capacità contributiva solo se confortate da elementi positivi, che valgano a giustificarle razionalmente, e che tali presunzioni, ancorché logicamente valide ed attendibili, non possono trasformarsi in certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilità della prova del contrario, dovendosi salvaguardare, accanto all’interesse erariale alla riscossione delle imposte, anche il diritto del contribuente a provare i margini di effettività dell’indice di ricchezza colpito dall’imposta.

Le parti private, quindi, hanno riproposto le argomentazioni già dedotte dal giudice a quo a sostegno dell’incostituzionalità delle norme censurate per violazione degli artt. 24 e 3 della Costituzione, richiamandosi, anche in tal caso, alle precedenti decisioni di questa Corte.

4.- E’ altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo la declaratoria di infondatezza della questione.

Ha osservato che l’art. 53 della Costituzione impone che il prelievo fiscale si colleghi ad una attitudine effettiva alla contribuzione e che l’indice di capacità contributiva, in materia di reddito fondiario, è costituto dal possesso dell’immobile. La concreta fissazione del tributo sulla base dei coefficienti catastali ovvero sulla base del canone locativo pattuito è solo una operazione che vale a quantificare il reddito ritraibile dal bene secondo l’id quod plerumque accidit, valendosi di parametri comunque ragionevoli ed obiettivamente attendibili.

Tra l’uno e l’altro criterio, in breve, vi sarebbe solo una differenza di tipo quantitativo, senza alcuna violazione del canone di effettività della capacità contributiva.

L’interveniente, inoltre, ha precisato che la durata della morosità del conduttore è comunque variabile in ragione dell’atteggiamento del locatore e della maggiore o minore tempestività con cui egli attiva gli strumenti di tutela a sua disposizione. Sicché non potrebbero mai addossarsi sulla collettività le conseguenze di un eventuale atteggiamento di inerzia, come viceversa pretenderebbe il giudice a quo.

Il credito al pagamento del canone, stabilmente acquisito al patrimonio del locatore, è comunque anch’esso un indice di ricchezza, al pari di altri diritti di credito che il legislatore fiscale ritiene rilevanti per la determinazione della base imponibile (si richiamano, in specie, le norme sui redditi prodotti in forma associata, che imputano ai soci gli utili derivanti da partecipazioni in società di persone, ancorché non ancora distribuiti, nonché quelle sui corrispettivi delle cessioni e prestazioni di servizi, che concorrono a formare il reddito di impresa pur se non ancora soddisfatti con il pagamento).

Tali argomenti, secondo l’interveniente, valgono anche ad escludere qualsivoglia disparità di trattamento, atteso che il regime sui redditi fondiari non è l’unico in cui un reddito concorre a formare l’imponibile, pur se concretamente non ancora conseguito, e che il principio di capacità contributiva è sicuramente compatibile con l’adozione di tecniche impositive diversificate in relazione alla tipologia del reddito imponibile.

Si è ritenuto, infine, sempre dall'Avvocatura generale dello Stato, del tutto fuori luogo ogni riferimento alla violazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione, poiché gli inconvenienti paventati dal rimettente non sussistono se si ritenga, più correttamente, che dal momento dell’eventuale risoluzione del contratto di locazione cessa l’effetto della norma che quantifica il reddito fondiario sulla base del relativo canone. Inoltre, la corretta ricostruzione della disciplina, a parere dell’interveniente, consente al contribuente che abbia regolarmente versato l’imposta commisurata al canone locativo, di provare di non aver potuto, pur con l’impiego dell’ordinaria diligenza, riscuotere il credito, chiedendo successivamente il rimborso del maggior tributo pagato.

5.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica del 21 marzo 2000 la difesa delle parti private del giudizio r.o. n. 752 del 1998 ha depositato una memoria, in cui sono ribadite le ragioni già esposte nell’atto di costituzione, concludendo nel senso che la disciplina all’esame della Corte, nel collegare la base imponibile all’importo del canone locativo convenuto ancorché non riscosso, non solo assumerebbe ad oggetto una capacità contributiva astratta e slegata dalla realtà economica, in violazione dell’art. 53 della Costituzione, ma impedirebbe anche la prova giudiziale della mancata produzione del reddito, al fine di liquidare l’imposta sulla base della più favorevole rendita catastale, ponendosi in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.

Gli esponenti hanno poi replicato all’obiezione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la mancata percezione del canone comunque non impedirebbe l’acquisto di un corrispondente credito in capo al locatore, rilevante al fine di verificare la capacità contributiva. Si è osservato che crediti di questa natura ben difficilmente vengono soddisfatti, come dimostra la prassi che fa seguire alla morosità del conduttore l’intimazione di sfratto e la successiva sentenza del giudice. Ne segue che, secondo le parti private, fino a quando il contratto non è dichiarato risolto, di regola molto tempo dopo l’esecuzione dello sfratto, il reddito fondiario del locatore continua ad essere determinato in base ad un canone non percepito, con l’aggravante dell’impossibilità di vantare un credito verso il conduttore per il periodo successivo all’esecuzione dello sfratto.

Si ritiene - sempre secondo le parti private - dunque, tutt’altro che decisiva l’affermazione dell’Avvocatura generale dello Stato, a parere della quale "dal momento della risoluzione del contratto di locazione, quale che sia la causa di essa, è indubitabile che il rapporto di locazione non ci sarebbe più e che tornerebbe perciò applicabile l’imposizione su base catastale": essa sarebbe smentita dalla circostanza che la sentenza dichiarativa della risoluzione del contratto per morosità interviene a distanza di anni dall’atto di citazione, per tutto il corso dei quali il locatore verrebbe tassato in base al reddito desunto dall’importo del canone, anziché dalle tariffe d’estimo. Del resto, anche dopo tale sentenza, troverebbe applicazione la norma che non prevede l’automatica rilevanza fiscale della risoluzione, stabilendo un apposito meccanismo per far constare la risoluzione del contratto (si richiama, in proposito, l’art. 17, comma 3, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 sull’imposta di registro).

Infine, si nega che la tesi che aggancia l’imposizione alla percezione effettiva del reddito (e che dovrebbe condurre alla declaratoria di incostituzionalità della norma) si debba necessariamente risolvere in una probatio diabolica ai danni dell’Amministrazione finanziaria, perlomeno nei casi in cui la morosità venga accertata nella sentenza del giudice civile.

6.- La Commissione tributaria provinciale di Biella, con ordinanza del 24 marzo 1998 (r.o. n. 447 del 1998), la Commissione tributaria provinciale di Torino, sezione n. 26, con ordinanza del 22 giugno 1998 (r.o. n. 856 del 1998), la Commissione tributaria provinciale di Torino, sezione seconda, con ordinanza del 12 ottobre 1998 (r.o. n. 908 del 1998), la Commissione tributaria provinciale di Treviso, con ordinanza del 27 ottobre 1998 (r.o. n. 201 del 1999), la Commissione tributaria provinciale di Padova, con ordinanza del 29 giugno 1998 (r.o. n. 225 del 1999), hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nonché, con l'ultima ordinanza, degli artt. 34, comma 4-bis, e 118 dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986, per violazione dell’art. 53 della Costituzione (la prima delle ordinanze citate), nonché per violazione sia dell’art. 53 sia dell’art. 3 della Costituzione (le altre cinque ordinanze), nella parte in cui assumono quale base imponibile, ai fini della tassazione del reddito fondiario di un immobile locato, l’importo del canone locativo convenuto in contratto anche per il caso in cui, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito.

7.- Nel corso dei rispettivi processi davanti alle Commissioni tributarie rimettenti era in discussione la legittimità di altrettanti avvisi di accertamento, con cui l’Amministrazione finanziaria aveva assunto, quale parametro per la quantificazione del tributo, l’importo dei canoni che per contratto spettavano ai contribuenti dalla locazione di immobili e che, tuttavia, essi non avevano interamente conseguito a causa dell’inadempienza del conduttore.

I giudici a quibus hanno preso in esame l’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui i redditi fondiari concorrono, "indipendentemente dalla percezione", a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono l’immobile per il periodo d’imposta interessato.

La norma è stata concordemente interpretata dai rimettenti nel senso che per la determinazione della base imponibile in materia di reddito fondiario, quando l’immobile è locato, si deve sempre tener conto, anziché dei dati desunti dalle tariffe d’estimo per determinare il reddito medio ordinario delle unità immobiliari (ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 917 del 1986), del canone pattuito nel contratto di locazione, nonostante il conduttore sia moroso e, dunque, a prescindere dalla effettiva percezione di tale canone.

I giudici a quibus hanno ritenuto che tale precetto non sia conforme, anzitutto, all’art. 53, primo comma, della Costituzione, secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, poiché la capacità contributiva, quale presupposto indefettibile dell’imposizione fiscale, deve sempre collegarsi alla situazione economica effettiva del contribuente, ossia ad una concreta attitudine del presupposto di imposta alla produzione di ricchezza. L’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, hanno in particolare osservato alcune tra le ordinanze di rimessione, nell’escludere la rilevanza della concreta percezione del reddito, introduce, per la parte che interessa, una presunzione assoluta di redditività dell’immobile locato anche nell’ipotesi che il conduttore non abbia pagato il canone.

Le richiamate disposizioni, invero, non riconoscono al contribuente alcuna facoltà di fornire una prova contraria rilevante, come viceversa concedono altre norme del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, senza valutare l’obiettiva difficoltà di esazione del credito locativo, spesso concretamente inesigibile, ed i costi aggiuntivi che il locatore deve sopportare per attivare gli strumenti di tutela concessi dall’ordinamento.

La disposizione di cui all’art. 23, comma 1, citato, secondo i giudici rimettenti, è, altresì, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, per più profili, corrispondenti a quelli esposti al precedente n. 2.

8.- Anche nei rispettivi giudizi indicati sub 6., con separati atti di costituzione, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo la declaratoria di infondatezza della questione.

Considerato in diritto

1.- La questione sottoposta all’esame della Corte dall’ordinanza della Commissione tributaria provinciale di Piacenza 3 giugno 1998, riguarda il combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1 e 134, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui assume quale base imponibile, ai fini della tassazione del reddito fondiario di un immobile locato, l’importo del canone locativo convenuto in contratto, anziché il reddito medio ordinario desunto dalla rendita catastale, anche quando, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito. Secondo il giudice rimettente vi sarebbe violazione degli artt. 53, per contrasto col principio di effettività della capacità contributiva, 24, per contrasto con il principio di inviolabilità del diritto di difesa e 3 della Costituzione, per irragionevolezza e disparità di trattamento tra situazioni meritevoli di paritaria disciplina.

2.- Analoghe questioni di legittimità costituzionale sono state proposte dalla Commissione tributaria provinciale di Biella, con ordinanza del 24 marzo 1998 (r.o. n. 447 del 1998), dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, sezione n. 26, con ordinanza del 22 giugno 1998 (r.o. n. 856 del 1998), dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, sezione seconda, con ordinanza del 12 ottobre 1998 (r.o. n. 908 del 1998), dalla Commissione tributaria provinciale di Treviso, con ordinanza del 27 ottobre 1998 (r.o. n. 201 del 1999), dalla Commissione tributaria provinciale di Padova, con ordinanza del 29 giugno 1998 (r.o. n. 225 del 1999).

Le questioni proposte riguardano l’art. 23, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nonché, con l'ultima ordinanza, gli artt. 34, comma 4-bis, aggiunto dall'art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e 118 dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986, per violazione dell’art. 53 della Costituzione (la prima delle ordinanze citate), nonché per violazione sia dell’art. 53 sia dell’art. 3 della Costituzione (le altre cinque ordinanze), nella parte in cui viene assunto quale base imponibile, ai fini della tassazione del reddito fondiario di un immobile locato, l’importo del canone locativo convenuto in contratto anche per il caso in cui, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito.

3.- I giudizi possono essere riuniti, stante la parziale connessione oggettiva e la sostanziale coincidenza delle questioni proposte, e quindi essere decisi con unica sentenza.

4.- Preliminarmente risulta, in modo manifestamente certo ed ictu oculi, che la sopravvenuta legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), ed in particolare l'art. 8, con aggiunte all'art. 23 del d.P.R. n. 917 del 1986, non possa avere dei riflessi risolutivi sulle questioni di legittimità costituzionale proposte, come del resto accennato dalle difese in udienza pubblica (r.o. n. 752 del 1998).

Innanzitutto alcuni dei giudizi a quibus (tra cui quello discusso in pubblica udienza) riguardano contratti di locazione ad usi commerciali o assimilati e quindi del tutto al di fuori dell'ambito della nuova norma, relativa esclusivamente alle locazioni abitative.

Decisiva per tutti i giudizi è invece la considerazione che la nuova disposizione (a prescindere dalla sua non dichiarata retroattività) prende in considerazione i redditi derivanti da contratti di locazione di immobili (ad uso abitativo), se non percepiti, ai fini di escluderli dal concorso nella formazione del reddito solo "dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore", ipotesi certamente estranee al quadro delle questioni delineate dai giudici a quibus.

Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità che il credito di imposta, pari alle imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti, possa anche sorgere dopo "l’accertamento avvenuto nell'ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità".

Invero sarà questione che potrà profilarsi - secondo il sistema delineato dalla legge 9 dicembre 1998, n. 431 - soltanto successivamente all’"accertamento ... giurisdizionale di convalida di sfratto", e ovviamente solo dopo che le imposte siano state "versate": trattasi pertanto di profilo al di fuori dei presenti giudizi e del quale la Corte non è stata investita.

5.- Prima dell'esame delle questioni di legittimità costituzionale è opportuno inquadrare la norma sul riferimento del reddito dei fabbricati al canone locativo come ipotesi di carattere eccezionale rispetto alla disciplina ordinaria.

Quest’ultima è, invero, stabilmente collegata alla nozione di reddito ordinario medio, a sua volta desunto dalle risultanze dei dati catastali. In proposito, è significativo che, ai fini della determinazione del reddito lordo annuo - da cui si desume la rendita catastale dell’immobile -, si tiene conto, tra l’altro, delle spese e perdite eventuali, tra le quali sono indicate proprio quelle degli sfitti e delle rate di fitto dovute e non pagate (artt. 19 e 20 del d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142).

Senonché, inserendosi il metodo di valutazione del reddito medio in un sistema di redditi collegati alle tariffe d’estimo, la sua congruenza e concreta rispondenza al presupposto d’imposta richiede necessariamente un sistema catastale modernamente attrezzato, che possa tenere conto dell'evolversi delle situazioni locali o di mercato. Ciò vale a spiegare l’esistenza di eccezioni qual è quella in esame.

Le deroghe al sistema del reddito medio ordinario (catastale) sono, invero, connaturali alla attuale struttura del catasto fabbricati, i cui valori spesso non corrispondono all’evoluzione delle rendite immobiliari. Il sistema delle variazioni del reddito dei fabbricati quale previsto, tra l'altro, dall'art. 35 del d.P.R. n. 917 del 1986, nel caso vi sia divergenza per un triennio di reddito lordo effettivo (con riferimento anche ai canoni di locazione risultanti dai relativi contratti) non riesce a colmare i divari esistenti, né le modifiche reddituali che sopravvengono o si sono accumulate nel tempo.

6.- Le questioni sono infondate, in quanto le norme censurate possono essere correttamente interpretate in modo da escludere le denunciate violazioni.

In ordine all'ipotizzato contrasto con l'art. 53 della Costituzione, è sufficiente sottolineare che la capacità contributiva, quale idoneità alla obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l'imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (v., da ultimo, sentenze n. 143 del 1995, n. 315 del 1994 e n. 42 del 1992), ipotesi che qui non ricorrono.

7.- Le osservazioni che precedono valgono anche ad affermare l’infondatezza della questione di illegittimità per violazione dell’art. 24 della Costituzione, prospettata solo in relazione alla difficoltà di prova che il contribuente dovrebbe sostenere per sostituire al parametro normativo del canone locativo il parametro del reddito medio ordinario. Ed invero, dal momento che il riferimento al canone locativo è - in linea generale - conforme al principio di capacità contributiva, non vi sono, sotto questo profilo, spazi di rilevanza per la eventuale prova del mancato pagamento, salvo le ipotesi in appresso esaminate, che riguardano invece la cessazione del rapporto contrattuale di locazione e quindi il venir meno di un pagamento a titolo di canone locativo.

8.- Anche la questione relativa alla dedotta violazione dell’art. 3 della Costituzione è infondata.

Infatti, la corretta ricostruzione del combinato disposto degli artt. 23, 33, 34 e 134 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (ed il ragionamento è identico anche con l'art. 34 nel testo risultante dalla aggiunta e sostituzione introdotta dall'art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 e dall'art. 4 del d.l. 31 maggio 1994, n. 330) conduce ad escludere che la regola secondo cui "i redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che posseggono gli immobili a titolo di proprietà" o altro diritto reale (art. 23, comma 1) possa essere applicata in maniera indiscriminata ed irragionevole; così come conduce ad escludere che tale applicazione possa attuarsi sacrificando il ruolo di regola generale da riconoscere alla determinazione del reddito medio ordinario mediante le tariffe d'estimo, stabilite secondo le norme della legge catastale (artt. 33, comma 1, e 34, comma 1).

Il sistema del riferimento per la determinazione del reddito dei fabbricati al canone risultante dal contratto di locazione - come sopra sottolineato - è del tutto eccezionale ed i suoi ristretti margini di rilevanza sono anzitutto confermati dalla circostanza che esso si applica nella sola ipotesi che il reddito risultante dal canone di locazione (con le riduzioni previste, ivi compresa oggi quella dell'art. 8 della legge 9 dicembre 1998, n. 431) sia superiore a quello risultante dalla rendita catastale (superiore in maniera ritenuta significativa - oltre un quinto - fino alle modifiche introdotte con la legge n. 413 del 1991, e superiore senza altra qualificazione dopo la stessa legge).

L’inserimento di queste condizioni per l’utilizzo del reddito locativo, per un verso, si spiega con la natura eccezionale della disposizione e, per altro verso, ribadisce la centralità del metodo che si affida al reddito medio ordinario catastale. Quest’ultimo sistema, invero, salvo altrettante ipotesi di deroga previste dal legislatore, tiene adeguato conto della possibilità che il reddito effettivo possa divergere per una serie di cause più varie (maggiore o minore produttività e redditività, periodi di crisi ecc.), con semplificazioni e vantaggi, a seconda dei casi, per l'amministrazione finanziaria o per il contribuente e nel rispetto del canone generale della ragionevolezza (v. sentenza n. 377 del 1995).

L'eccezionale riferimento al reddito locativo deve, pertanto, armonizzarsi nel contesto di un sistema che pone la regola per cui i redditi fondiari concorrono a formare il reddito complessivo indipendentemente dalla percezione. Questo inserimento avviene in coerenza con il principio di eguaglianza e con il correlativo parametro di ragionevolezza, se si valuta il ristretto ambito applicativo della disposizione e se si considera la naturale forza espansiva del precetto generale che utilizza il reddito medio catastale.

Ne segue che il riferimento al canone di locazione (anziché alla rendita catastale) potrà operare nel tempo solo fin quando risulterà in vita un contratto di locazione e quindi sarà dovuto un canone in senso tecnico. Quando, invece, la locazione (rapporto contrattuale) sia cessata per scadenza del termine (art. 1596 cod. civ.) ed il locatore pretenda la restituzione essendo in mora il locatario per il relativo obbligo, ovvero quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (art. 1456 cod. civ.), o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (art. 1454 cod. civ.), tale riferimento al reddito locativo non sarà più praticabile, tornando in vigore la regola generale.

Con queste considerazioni rimane superata l'obiezione, mossa dalla difesa di una parte privata, secondo cui la gravosità ed irragionevolezza di un sistema impositivo, che pretendesse comunque di far leva sull’importo di un canone non effettivamente corrisposto, si protrarrebbe per tutto il lungo tempo occorrente per la sentenza di risoluzione del contratto per morosità. Infatti, il locatore può avvalersi in ogni caso della risoluzione ex art. 1454 cod. civ., a parte l'eventuale sussistenza delle altre ipotesi di risoluzione di diritto ex artt. 1456 e 1457 cod. civ. e la possibilità della azione di convalida di sfratto (come forma mista diretta alla risoluzione e al rilascio).

La risoluzione del contratto impedisce di configurare il pagamento, effettivo o solo presunto, come effettuato a titolo di canone, cui possa essere commisurata la base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito.

In realtà, solo nel caso di azione di risoluzione giudiziale occorrerà che il locatore attenda - per avere l'efficacia della risoluzione - la sentenza, la quale ha carattere costitutivo, anche se con effetti retroattivi. Con ciò non si afferma che il locatore non possa invocare l'inadempimento e la risoluzione anche prima della sentenza di risoluzione giudiziale, quando risulti in maniera certa che abbia scelto la via di risolvere il contratto, e ovviamente il locatore lo può fare a suo rischio, anche per le sanzioni tributarie conseguenti, nel caso in cui la sua domanda di risoluzione giudiziaria non venga accolta.

In ogni caso, una volta che la risoluzione si sia verificata, l'obbligazione del corrispettivo a carico del conduttore inadempiente per la restituzione ha natura risarcitoria (art. 1591 cod. civ.), e non di canone di una locazione ormai risoluta.

Questi redditi (e crediti) risarcitori non possono certamente essere assoggettati alla regola eccezionale della determinazione del reddito dei fabbricati attraverso il canone di locazione, in sostituzione dell'ordinario reddito medio (catastale), salva, ove ne ricorrano gli estremi, l'applicazione ai fini della classificazione dei redditi dell'art. 6, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che tuttavia - si sottolinea - presuppone che si tratti di "proventi conseguiti" e non di crediti non realizzati.

9.- Infine lo stesso sistema tributario riconosce, proprio per le locazioni, particolari modalità di registrazione della risoluzione del contratto di locazione (artt. 3, comma 1, lettera a), 12 e 17, comma 1, in relazione anche all'art. 28 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131); per cui non può non riconoscersi rilevanza sul piano delle imposte a tale evento risolutorio, che può concretarsi, seppure per i profili strettamente fiscali, anche attraverso una dichiarazione unilaterale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1, e 134, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento agli artt. 53, 24 e 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 1, del citato d.P.R. n. 917 del 1986, sollevate, in riferimento all'art. 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Biella, e, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalle Commissioni tributarie provinciali di Torino e di Treviso con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 1, 34, comma 4-bis, aggiunto dall'art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e 118 del d.P.R. n. 917 del 1986, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Padova.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 26 luglio 2000.